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Europa. Universalità e pluralismo delle culture (recensione)

di Fabio Pagano - 20/04/2007

Giulio Maria Chiodi

Europa. Universalità e pluralismo delle culture

Giappichelli, Torino 2003, pp. XII+160, euro 13

 

 

 

Il recente dibattito sulla carta costituzionale europea, sulla sua necessità e sui vaghi riferimenti che essa avrebbe dovuto contenere a supposte radici fondative di un’identità, svela l’ennesimo paradosso in cui si imbatte chiunque si interroghi ancora sulla realtà che lo circonda senza affidarsi ad affermazioni preconfezionate. Vengono in mente allora, a proposito dell’Europa, le parole che Bertrand de Jouvenel riferiva alla democrazia: ogni discussione in materia è destinata alla nullità intellettuale, dal momento che non si sa bene di che cosa si tratti. Accomunati da una moneta, gli europei lo saranno presto anche da una costituzione, ma rimane inevasa la questione di principio: che cosa significa essere europei e che cos’è davvero ciò che chiamiamo Europa?

È questa la domanda a cui cerca di rispondere Giulio Maria Chiodi in questa raccolta di saggi. Filosofo della politica e del diritto e studioso di simbolica, Chiodi utilizza sapientemente gli strumenti che gli forniscono queste discipline per analizzare l’Europa da più prospettive, che non mancano però di convergere in una visione unitaria e coerente di ciò che rappresenta la peculiarità europea, ne fonda l’identità e le assegna un compito di portata storica. È evidente l’intenzione di porsi in contrasto con la vulgata dominante in materia, che in sostanza, facendo propria la visione dei fautori della mondializzazione (termine preferito a globalizzazione), fa degli europei un semplice insieme di individui che si trovano a vivere in un medesimo spazio geografico, i cui contorni sono significativamente mutevoli: periferia, nemmeno centro, di quell’Occidente “illuminato” che, dietro le note parole d’ordine di libertà e democrazia, mostra una vocazione universalistica all’esportazione di una monocultura protesa alla massificazione e al benessere materiale immediato.

Tale processo si compie attraverso la diffusione di un’economia del profitto e di sfruttamento indiscriminato delle risorse, da imporre con le buone o, quando serve, con le maniere forti. Questo universalismo di stampo nordamericano, nota Chiodi, tradisce una mancanza di rispetto per il diverso da sé. Esso non può essere associato all’Europa, così come quest’ultima non può identificarsi con l’Occidente, che, terra dei tramonti, simbolicamente rappresenta il luogo dove muore la vita.

Chiodi rivendica anche all’Europa una vocazione universalistica, rivolta tuttavia in una direzione diametralmente opposta a quella nordamericana. L’universalismo europeo è infatti essenzialmente pluralista e aperto alla diversità; è lo stesso pluralismo che rappresenta il vero momento unitario dell’Europa: che si deve pensare unita proprio per salvaguardare l’identità dei suoi popoli, l’enorme varietà linguistica presente al suo interno, la ricchezza culturale che la contraddistingue e che tante soluzioni ha prodotto rispetto ai problemi che da sempre l’uomo si pone.

La coscienza delle proprie differenze è, in maniera solo apparentemente contraddittoria, la coscienza di un’unità fatta di storia comune e di reciproci scambi. Perché la civiltà europea non si esprime, per sua tradizione, in chiusure localistiche. L’universalismo di cui è portatrice è il contrario dell’uniformità e della omologazione, e il pluralismo che la contraddistingue non è chiuso particolarismo. Consapevole delle accuse che possono essere mosse a tale concezione, Chiodi ricorda come troppo spesso qualunque fenomeno comunitario, qualunque peculiarità di costumi, qualunque espressione di attaccamento alle radici venga bollata come foriera di rivendicazioni etnocentriche e di un conseguente ritorno di spettri totalitari mai scomparsi. In realtà si dovrà prendere atto che proprio i fenomeni di recupero delle tradizioni costituiscono l’ostacolo più temuto per i fautori dell’omologazione e della massificazione sul pianeta. L’Europa così concepita costituirebbe l’entità politica capace di opporsi al processo in atto, di salvaguardare le proprie differenze interne ma anche quelle che ancora resistono alla globalizzazione nei quattro angoli del globo. Un compito storico di portata universale che, si ripete più volte, soltanto da essa può essere assunto.

Si tratta di costruire un’Europa dei popoli, quindi: ma rimarrebbe così inevasa una questione, se in pratica Europa sia anche quella di Bruxelles, dei trattati e della costituzione, del patto di stabilità e della moneta unica – quella, per farla breve, dei governi. Qui lo studioso di simbolica politica prende il sopravvento. Perché, afferma, le istituzioni prive di un elemento simbolico sono edifici scheletrici, che inaridiscono e polverizzano la vita dei popoli e della civiltà, provocandone la decomposizione etica.

E i simboli non si inventano. Essi sono il prodotto della storia e della tradizione (che nel suo significato autentico non ha nulla di statico, provenendo dal latino tradere, trasmette e portare avanti). Il simbolico veicola, rispetto alle istituzioni, il sentimento di appartenenza, che sotto il profilo politico si realizza attraverso il mito, racconto che non deve essere spiegato, che parla per immagini e che contiene sempre in sé un’alcunché di sacro. Qualunque comunità celebra poi i propri miti e alimenta il proprio senso di appartenenza tramite i riti, momenti che sanciscono la continuità di un costume vissuto e condiviso.

A questo punto ci si può chiedere quali siano i miti dell’Europa e quali i riti che li celebrano: la risposta istituzionale, fatta di dichiarazioni di intenti e di normative più o meno rispettate, lascia poco spazio ai dubbi; riferirsi continuamente a vuote formule quali libertà, diritti umani, uguaglianza, democrazia, tolleranza non fonda nessuna appartenenza politica. Si tratta tutt’al più di posizioni meramente ideologiche. Nemmeno fonda un’appartenenza la stesura di una costituzione perché, come Chiodi ricorda, il diritto è un prodotto di cultura: vengono prima i popoli e poi le norme, non viceversa. L’Europa dei governi mostra qui tutta la sua drammatica inconsistenza, quantomeno per chi crede che non tutto, e soprattutto non la politica, sia riducibile alla sfera economica. Essa è troppo lontana dall’Europa dei popoli, e lo sarà sempre di più, riducendosi ad un governo dei lemuri, “anime che si nutrono di ciò che è mezzo morto e diffondono il nulla”.

Le cause di questa situazione sono molteplici: rimandiamo alla lettura del testo per la loro analisi nonché per le proposte avanzate per un’augurabile inversione di rotta. Ciò che in questa sede preme sottolineare è che tutto il lavoro in questione è percorso dalla convinzione che solo una presa d’atto dell’irriducibilità dell’Europa alla mondializzazione può portare a riscoprire e valorizzare i momenti identitari che pure le appartengono, in quanto patrimonio dei popoli che la compongono.

Non sorprende, quindi, che negli ultimi due saggi del volume Chiodi concentri la riflessione sul concetto di democrazia e sui diritti umani, parole d’ordine abusate dalla retorica occidentalista. È infatti il substrato ideologico della mondializzazione stessa che viene preso in considerazione. Rispetto ad esso si richiama la prevalenza dei doveri sui diritti. E il primo dovere dell’Europa è sottrarsi ai processi omologanti, difendere e rappresentare il pluralismo nel mondo. Per far ciò di fronte alla storia, Chiodi rispolvera l’idea di impero: ordinatio ad unum, principio spirituale ed unificante di un’Europa delle regioni e dei popoli, più che dei governi, dei burocrati e delle multinazionali.