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L'evoluzione della nozione di divino

di Umberto Bianchi - 21/04/2007

 

Si fa presto a parlare di principio divino, di Dio, di Dei e quant’altro!
Quella che, a prima vista potrebbe essere un’asserzione scontata, a ben vedere, tale non è, anzi. Ammessa per corollario l’esistenza di tale principio, (senza cioè scendere nel più arduo compito di dimostrarne l’esistenza tramite il fondamentale supporto della filosofia) ciò che si mostrerà ai nostri occhi è una realtà tutt’altro che semplice e manifesta nel suo continuo rimandarci ad un altro piano dell’essere. Ma procediamo per gradi. Il concetto di divino è lì a ricordarci una dimensione che “trascende” la realtà in cui viviamo, in quanto da esso tutto viene e promana. Tale principio può manifestarsi a noi in vari modi. La più evidente delle manifestazioni è quella che fa dell’intero creato la più immediata ed indiscutibile delle espressioni della trascendenza. A questo semplice ma opinabilissimo principio, si preferisce piuttosto l’attenzione su un qualsivoglia aspetto della realtà che assume così la veste di vera e propria “ierofania” o manifestazione del sacro in terra. Oggetto di simile valutazione può essere un qualsivoglia oggetto, una pianta, un animale, o un determinato sito geografico, sino ad arrivare ad uno degli elementi naturali come il cielo, la terra, la luna, il sole etc. A questa iniziale sistematizzazione della materia più legata all’aspetto della manifestazione esteriore, ne va giuocoforza fatta seguire un’altra stavolta strettamente interrelata con la percezione che la nostra psiche ha dell’intero fenomeno, che finisce in tal modo con l’essere collegato alle singole fasi culturali del genere umano o di una sua parte.
Tutto ciò solleva una questione legata al simbolo ed alla ridda di significati ad esso connessi a cui di volta in volta il divino richiama. La storia delle religioni, la filosofia, la psicanalisi ci soccorrono in questo arduo compito, indicandoci la strada o, sarebbe meglio dire, le strade in grado di avvicinarci alla “summa quaestio” del significato, del senso ultimo della realtà che dal divino promana. Autori come Usener, Neumann, Cassirer ed altri, ci indicano il principio divino come strettamente legato al fattore psico-linguistico.
Inizialmente il genere umano, al pari del singolo individuo, conduce un’esistenza in uno stato di perfetta osmosi con la circostante natura che, al pari di una madre premurosa ne regola indissolubilmente il ciclo vitale. In tale stato la coscienza come funzione di superiore percezione della realtà è ad un livello soffuso, di dormiveglia. La percezione del fenomeno divino è dunque legata a tale sensazione e si traduce nell’immagine di una “divinità momentanea”. Tutto ciò che nella nostra mente è oggetto di attenzione, curiosità, meraviglia, attrazione viene immediatamente fatto oggetto di adorazione, ovvero considerato come appartenente ad un superiore piano della realtà. Ma tale entità è destinata a rimanere nell’ambito del confuso, dell’indefinito, della momentanea eccitazione. A questo proposito autori come Cassirer ed Usener menzionano il concetto di “dàimon” che, inizialmente riferito all’ambito ellenico (lo stesso vocabolo sta lì a ricordarcelo), si trasferisce per una sorta di stretta analogia culturale all’ambito latino-romano. Tale iniziale elaborazione sembra qui ritrovarsi nelle figure degli “indigitamenta”, vere e proprie schiere di divinità minori, addette alle funzioni più svariate ed impensate della vita pratica, minuziosamente distribuite tra le varie deità. Deferenda, Commolenda, Coinquenda, Adolenda, sono solo alcune tra le divinità addette al tagliare, potare, segare, zappare, e quant’altro.
Volgendosi ad uno strato più primordiale dell’elaborazione del divino, lo Spieth invece ci porta in Africa tra gli Ewe, ove gli spiriti ancestrali sono rappresentati dai “trovo” o “tro”, anch’essi molto vicini alle attività pratiche dell’uomo. Identico riscontro vale per l’area etnico-culturale del Pacifico che, nonostante le mille varietà etniche in cui è suddivisa, è accomunata dall’idea di “mana”, vero e proprio spirito-guida, qualificante forza, coraggio, virtù, la cui provenienza sovrannaturale lega inscindibilmente l’elemento umano al divino. Alcune tra le tribù indiane del Nord America parlano in egual modo di “manitu” e “orenda”.
Accanto a questo stato di iniziale confusione nell’interpretazione del divino, se ne può riscontrare un altro, egualmente arcaico, la cui importanza non è affatto secondaria rispetto a quello poc’anzi riportato. L’idea che a base dell’intera trama del creato vi sia un’entità superiore, viene qui espressa nell’immmagine di un dio celeste che, in veste di vera e propria teofania uranica, si fa carico della creazione e dell’ordinamento dell’intero mondo. Questa figura viene ben presto relegata in un ambito secondario, sino a sparire quasi del tutto, (salvo riapparire in occasione di eventi eccezionali), sostituita da divinità dagli attributi sempre più personalizzati. Quanto sin qui detto è riscontrabile presso tutte le culture del mondo, (sia pur con le singole e lecite varianti culturali) e questo sia a partire da quelle più arcaiche che da quelle più “sviluppate” da un punto di vista socio-economico.
E’ quanto accade con i Senang di Malacca ed il loro Kari, con gli Yoruba africani ed Oluru, con i Maori ed Iho, con i Kamilaroi australiani e Baiame, con i Samoiedi e Num, con i Mongoli eTengri, con le culture mesopotamiche ed Anu, con gli indoeuropei delle origini e Dyeus, con gli antichi Indù e Dyaus, con gli Elleni e Zeus, con i Latini e Juppiter, con gli iranici e Ahura Mazda. Tra i Maori, Iho per esempio, assume ben presto il ruolo astratto di “principio ordinatore”, mentre il vero e proprio ruolo demiurgico passa ad altre figure divine. Mentre tra gli Indù Dyaus viene sostituito da Varuna, in ambito classico, Zeus (Dyaus-Dyeus…) dio del cielo e del fulmine conosce una particolare tripartizione temporale. Ad Urano (cielo) intento a procreare con Gea (terra) una progenie mostruosa, succederà con violenza Crono-Saturno (tempo) che, dopo averlo evirato e generando nel contempo Afrodite-Venere, verrà a sua volta detronizzato da Zeus dopo un’ulteriore battaglia. Gli antichi dei vengono dunque messi in soffitta, il loro operato inizialmente immerso nelle nebbie di un’indeterminata dimensione spazio-temporale, assume in tal modo i contorni di una creazione sottoposta ad un criterio ordinatore di cui Zeus, Juppiter ed altri esempi ancora, divengono gli indiscussi titolari. Nel contempo all’interno del principio primo si assiste ad un’ulteriore scissione che vede gli antichi dei assumere un ruolo più “tecnico”, nella veste di dei della fecondità, spesso in interazione con altre figure. E così sarà per le Dee-Madri affiancate da giovani e sfortunati paredri maschili, spesso rappresentati zoomorficamente come “tori-fecondatori”. In altri ambiti gli antichi dei assumeranno al ruolo di divinità pluviali accompagnate dal simbolo del fulmine. Juppiter Dolichenus, ma anche il Thòrr scandinavo, il Baal fenicio, il siriaco Haddad, l’Indra ed il Parjanya Indù, vanno tutti in questa direzione. Riassumendo: il principio divino inizialmente percepito in un’accezione di massima indeterminatezza come fascio di forze sovrannaturali, va poi assumendo dei contorni sempre più definiti eleggendo uno degli elementi naturali (cielo, ma anche terra e acque) a propria principale sede di manifestazione.
In seguito l’ambito di manifestazione del divino va via via estendendosi alla molteplicità degli aspetti della realtà, sino ad arrivare ad una propria spinta connotazione antropomorfica caratteristica della civiltà classica. Qui il principio divino in tutte le sue infinite varietà uraniche, ctonie, solari, acquatiche, lunari e via dicendo, sotto l’impulso della riflessione filosofica subirà un processo di astrazione concettuale.
Tale processo starà alla base di quella “reductio ad unum” che, in veste di vera e propria semplificazione del concetto di divino, segnerà l’avvento di unico dio al posto della varietà di divinità che, nella tarda fase della civiltà classica (rappresentato dall’ecumene imperiale romana) erano andate moltiplicandosi, ingenerando quel fenomeno di spaesamento tutto alla base delle pericolose spinte centrifughe che avrebbero caratterizzato la tarda storia romana.
L’avvento del monoteismo cristiano avrebbe dovuto rappresentare la soluzione in grado di mantenere l’unità dell’ecumene tardo imperiale ma, come sappiamo, la storia procedette ben diversamente. La nuova religione andrà accompagnando tutte le vicissitudini del mondo occidentale, dall’Evoi Medio in poi, subendo uno strano destino. Da una parte in occidente la religione e le sue istituzioni dovranno sempre più lasciare il passo ad una onnipervadente dimensione economicistica della realtà, che ridurrà i precetti religiosi a semplici prescrizioni morali, distaccate da qualsiasi esplicito riferimento superiore, seguendo in questo la tendenza all’astrattezza iniziata durante l’ellenismo.
Dall’altra il nuovo modello di sviluppo occidentale mutuerà appieno la struttura di pensiero alla base del Vecchio e del Nuovo Testamento, cioè quel monoteismo la cui tendenza ad operare una “reductio ad unum” dell’intera realtà, ora ha fatto del binomio economia-tecnica l’unica vera e concreta divinità di un mondo sempre più occidentalizzato, rispetto a cui qualunque forma di religiosità tradizionale, tiene testa a fatica.