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Cannibalismo antico e moderno (recensione)

di Marco Managò - 21/04/2007

 


Il volume Il cannibilismo, pubblicato da Xenia Edizioni, opera dell’etnologa Laura Monferdini, è un valido trattato per iniziare a comprendere quel tetro fenomeno alimentare che contraddistinse (e in alcuni rari casi caratterizza ancora oggi) diverse popolazioni dell’America centrale, dell’Africa e dell’Oceania.
La prima grande precisazione è quella relativa alle forme di cannibalismo del passato, quelle tribali, di carattere collettivo (secondo uno schema preciso e controllato, spesso rituale e religioso), distinte da quelle attuali, espressione di pura ferocia e devianza psicologica di uomini capaci di uccidere decine di vittime e consumarne le carni, in un quadro assolutamente riprovevole.
Per quanto riguarda le forme di cannibalismo del passato, sulla scorta delle documentazioni degli esploratori europei, si può intravedere un profilo piuttosto generalizzato ed esteso anche geograficamente, che conserva tratti comuni pur presentando particolarità locali. Si suole distinguere una forma di antropofagia profana, una giuridica, una magica e, infine, una rituale.
La forma profana è quella senza particolari significati impliciti, in cui l’unico obiettivo del nativo è quello di consumare carne umana per esigenza alimentare, come fosse un qualsiasi tipo di cibo. Il cannibalismo giuridico era una sorta di sanzione sociale per coloro che, contravvenendo alle regole del gruppo, si rendevano passibili di tale orrenda punizione, essendo, ormai, del tutto estranei alla comunità. Rispetto a quello profano, di carattere privato, si colga l’aspetto pubblico di tale antropofagia giuridica. Quello magico si spiega con la credenza di assumere qualità particolari del condannato consumandone le carni.
L’ultima differenziazione riguarda quella di carattere religioso, la più intrisa di significati, che in un crescendo di ritualità, in un contesto sacrale, di imponente manifestazione sociale, ingraziava il favore delle divinità, celebrava la natura e i trionfi bellici.
Particolare raccapriccio per alcune forme di “endocannibalismo”, perpetrato ai danni di membri interni del gruppo, a volte anche familiari stretti. La patrofagia, consumo di carni paterne, era esercitata in caso di morte del congiunto o di approssimarsi alla fine dell’esistenza dello stesso. Presso alcune comunità africane, caraibiche e sudamericane (i Tukano brasiliani), era proprio il padre sofferente a pretendere il successivo sbranamento e la comunità si adoperava per suggellare tale doveroso compito, al fine di perpetrare le qualità della vittima. Quest’ultima condivideva l’aspetto rituale e religioso del proprio sacrificio a favore della vita del corpo sociale, non più rallentata, altresì, da moribondi.
Stregoni e capi militari approfittavano delle carni umane per acquisire maggiore energia e prestigio sociale; da ricordare come tali pasti fossero quasi sempre riservati alle caste più elevate della società, quali quelle sacerdotali, nobiliari e militari. In modo clandestino, col tacito accordo dei sovrani, si permetteva la destinazione anche alle classi più popolari pur di ammansirle e di evitare pericolose sommosse.
Per alcune comunità, quindi, il controllo sociale si avviò anche attraverso lo spauracchio della stregoneria e del cannibalismo (spesso pratiche associate); un instrumentum regni che, a esempio, con Amin Dada e Bokassa, negli anni settanta, fece desistere da qualsiasi tentativo di destituzione dei due dittatori di Uganda e Repubblica Centrafricana.
Il consumo di carni infantili, di bambini destinati a morte certa, era prerogativa delle stesse madri, le uniche ritenute in grado di custodire il corpo poco tempo prima generato.
Altro legame particolare, soprattutto nella comunità azteca, era quello che si creava tra il guerriero vittorioso e il prigioniero vinto: si instaurava una sorta di comunione, di rapporto filiale, per cui le carni del secondo potevano essere mangiate da tutti tranne da colui che lo aveva reso privo di libertà.
Scrive la Monferdini: “Gli olocausti aztechi prevedevano spesso l’identificazione delle vittime con divinità mesoamericane e la loro successiva esecuzione nel corso di solenni cerimonie religiose. Tutto ciò veniva considerato un’autentica teofagia quando la carne degli uccisi era consumata durante una grandiosa agape cannibalesca...”.
Importante per gli studiosi fu il tentativo di valutare le motivazioni che spinsero le varie comunità native al cannibalismo; impossibile fornire una risposta univoca, prevalendo in alcune di esse l’aspetto alimentare, in altre quello puramente religioso. La cosiddetta teoria alimentare presenta alcune difformità di pensiero tra gli stessi studiosi, alle prese con testimonianze e scritti di testimoni oculari.
L’elemento fondamentale sul quale l’autrice si sofferma più volte, fondatamente, è proprio sulla veridicità delle testimonianze europee, prodotte dai conquistadores e dagli altri avventurieri, non sempre esenti da pregiudizio. La barbarie extraeuropea subì realmente un’accentuazione? Sicuramente, la civiltà europea doveva esasperare la condotta istituzionalizzata e collettiva di tali comunità native e immorali, stigmatizzarla il più possibile e giustificare l’intervento e la conquista dei civilizzatori, genocidio compreso.
La riduzione delle risorse alimentari carnee, nell’America centrale, incrementò il desiderio di soddisfacimento attraverso il consumo di materiale umano. La popolazione della Valle del Messico, di circa due milioni, con a disposizione circa quindicimila prigionieri l’anno, si trovava in grave deficit proteico. A tal proposito l’autrice fornisce un contributo interessante, scrivendo che “...il punto focale non è in quale misura queste redistribuzioni cannibaliche contribuivano alla salute e al vigore fisico del cittadino comune, ma come il vertice del potere statale riusciva a mantenere il controllo politico attraverso l’offerta di carne umana, per ricompensare i gruppi scelti in periodi cruciali della vita dell’impero”.
La cronica deficienza proteica implica un apporto modesto di serotonina che, a sua volta, dimostrato da moderni studi, comporta un’accentuazione notevole dell’aggressività, del fanatismo religioso e dell’impulso sessuale. Le statistiche dimostrano un numero maggiore di omicidi nelle collettività in cui si consuma un elevatissimo quantitativo di cereali, a differenza di quelle in cui l’apporto carneo e proteico sia maggiore; il tutto è causato dalla carenza del triptofano, un aminoacido capace di sintetizzare la serotonina e, complice il catabolismo di questa, arrivare all’acido idrossindoleaceatico.
Occorre sviluppare un’indagine a tutto campo escludendo pregiudizi valutativi propri dei nostri antenati. Al riguardo l’autrice osserva: “Per quanto concerne il passato, abbiamo dunque sostanzialmente strumentalizzato le informazioni relative al consumo di carne umana praticato nell’ambito di società oggi scomparse, senza indagarne troppo i significati, soffermandoci sugli aspetti esteriori del rituale, quasi avessimo timore di comprenderne i profondi risvolti emotivi e giungere in qualche modo persino a legittimarli in parte”.
Alcune valutazioni interessanti debbono esser rivolte anche al ruolo della donna: le testimonianze possedute, riguardanti i Tupinamba brasiliani, indicano un importante ruolo femminile nella preparazione del condannato; un’attività preliminare che poteva durare anche un anno, culminante in un gran legame finale (anche carnale) ma che non impediva l’approntamento ultimale della vittima e il gradito spolpamento anche da chi lo aveva accudito per mesi. In alcuni casi, la donna, invaghita del prigioniero, fuggiva con lui; ripresa durante la defezione, però, diveniva oggetto dell’antropofagia locale.
Donne e bambini si cibavano di teste e viscere, anche sotto forma di brodo (mingao), agli uomini era riservato il busto (a volte anche gli arti), agli ospiti dita e grasso intorno a cuore e fegato.
La ricerca della Monferdini si allarga anche alle superstiti forme di cannibalismo moderno, di carattere collettivo, come quello residuale (fortunatamente) di alcune popolazioni amazzoniche e della Nuova Guinea, nonché quelle isolate di alcuni efferati criminali, per i quali anche il severo e freddo rigore scientifico che accompagna la studiosa, e la sua analisi, non impedisce la giusta condanna. La pazzia di tali individui, figlia anche di infanzia a dir poco travagliata, si accompagna a descrizioni di vere e proprie ricette su come cucinare l’essere umano (anche bambini, purtroppo!), sia in forma di arrosto, di bollito e di brodo, davvero sconcertanti.
I protagonisti di queste storie orrende sono i tristemente noti Karl Haarmann (“lupo mannaro di Hannover”), giustiziato nel 1925; il criminale Albert Fish, sulla sedia elettrica nel 1936, dopo centinaia di efferati delitti; il nostro contemporaneo Jeffrey Dahmer (cannibale di Milwaukee), macabro collezionista di sezioni umane, in attesa di consumarle. Per tutti loro rimane, comunque, l’interrogativo di come abbiano potuto operare in piena tranquillità e come, specie per il primo, abbiano potuto avviare un mercato nero per il quale non risultarono tracce.
Le testimonianze europee si sono sviluppate anche attraverso alcune note xilografie, la più antica delle quali risulta essere quella di Norimberga (1505), di poco successiva alle gesta di Colombo, in cui, però, la fedeltà delle immagini risulta compromessa da una permanenza anomala di componenti europee in un contesto, invece, del tutto estraneo. Non solo la parola e lo scritto erano viziati da pregiudizio europeo, anche le immagini distorcevano la realtà.
La discrezionalità e la soggettività delle testimonianze, intrisa di preclusione nei confronti di genti considerate barbare, incivili, immorali e bisognose di forzata evangelizzazione, creò non poche iperboli e leggende, di individui metà uomini e metà animali, di confusione generale che ebbe riflessi anche sulle sorti e sulle convinzioni dei nativi.
Al fine di comprendere meglio la portata del fenomeno “cannibalismo”, senza alcuna pretesa di chiarirlo definitivamente, vista la suddetta interpretazione europea sulle uniche testimonianze disponibili, occorre distinguere, quindi, le varie forme: da quelle episodiche per ragioni alimentari, a quelle permanenti, dovute a carestie e guerre, sino a quelle rituali e religiose. Tutte forme deprecabili seppur doverosamente e metodologicamente distinte da quelle efferate, singole e ingiustificabili dei tempi moderni.
All’autrice va il merito di aver sondato a tutto tondo la portata storica e geografica dell’argomento, mettendone in risalto anche la funzione, poco conosciuta a dire il vero, di controllo (ed esclusione) sociale che, dalle antiche tribù amazzoniche, caraibiche e africane, antiche e moderne, ha sviluppato una efficace sottomissione della sedizione e della rimostranza popolare.