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Un nuovo soggetto di storia: il Turkestan

di Piero Sella - 25/04/2007



Per secoli, l’Asia centrale, quella vasta fascia che va dal Caspio ai deserti della Mongolia, è stata un luogo misterioso e di difficile accesso, a causa del clima continentale e delle grandi distanze tra i luoghi forniti di acqua. Immensi deserti di sabbia, che si alternano a steppe e catene montuose, caratterizzano la regione. A cavallo dell’attuale confine con la Cina, le montagne del Tian Shan e del Pamir toccano i settemilacinquecento metri.
La presenza umana, nei primi secoli dello scorso millennio, era costituita da popoli di ceppo turco, di religione islamico-sunnita. Genti dedite alla pastorizia e, nelle terre più fertili, le oasi e le rive dei fiumi, all’agricoltura. Pochi, ovviamente, i centri abitati di una certa importanza. Fra questi basterà menzionare Buchara e Samarcanda, dove gli abitanti, grazie all’artigianato e al commercio, avevano raggiunto un discreto tenore di vita. Di quell’epoca – sono gli anni in cui a Buchara nasce e studia il grande Avicenna, e Samarcanda è la capitale dell’Impero di Tamerlano – sono rimasti palazzi, giardini con fontane, bazar e caravanserragli, moschee e scuole coraniche.
A garantire il progresso, culturale e civile, e il correlato benessere, era il traffico delle merci che, lungo la Via della Seta, venivano trasferite, a dorso di cammello, dalla Cina agli empori europei.
A questa costruzione fuori dal tempo, il primo scossone viene portato attorno al 1250 dall’improvviso sopraggiungere delle tribù mongoliche di Gengis khan che, con guerrieri a cavallo e case su ruote, si spostavano verso occidente. Ogni tappa lungo il percorso era occasione di saccheggio e distruzione. E, del resto, solo con questa cinica strategia logistica, la migrazione avrebbe potuto raggiungere mete ancor più ambite, come la Persia, la Polonia, l’Ungheria, la Russia meridionale, il Mediterraneo. Buchara, che era stata la più sofisticata città della Transoxiana (la regione oltre l’Oxus, oggi Amù Daria, l’immissario meridionale dell’Aral) viene saccheggiata, incendiata e spopolata dagli eserciti tatari nel 1220, 1273, 1316.
La Via della Seta, a causa di tali vicende, stava per diventare intransitabile. Soluzione alternativa a quel percorso era l’incremento del già esistente trasporto via mare che sfruttava l’alterno soffiare dei monsoni. Due le rotte più battute con partenza dai porti asiatici: quella del Golfo Persico fino a Bassora, dove le merci venivano scaricate e avviate a Baghdad, Aleppo o Damasco; quella del Mar Rosso, destinata a servire i mercati di Alessandria e del Cairo.
Quando nel 1496, doppiato il Capo di Buona Speranza, Vasco de Gama scopre il passaggio verso est, l’Oceano Indiano si apre all’Europa. I portoghesi, in appena una decina d’anni, impongono il loro protettorato sugli approdi dell’Africa Orientale e cominciano a costruire fortezze sulle coste dell’India. Grazie ai rapidi progressi della cantieristica e all’innovativo impiego dell’artiglieria, il monopolio marittimo degli orientali e dei musulmani è messo fuori gioco.
Nei secoli successivi, anche se il grande traffico dalla Cina all’Europa è ormai solo un ricordo, i mercanti continuano a battere i tratti centrali della vecchia Via della Seta. Nelle vallate lo sfruttamento irriguo delle acque che scendono dalle montagne più alte del pianeta garantisce buoni raccolti e nutrimento sufficiente per uomini e animali. Le città tornano a essere un rilevante centro di smistamento e consumo, ma anche di produzione artigianale. C’erano le strade dei sellai, dei fabbricanti d’armi, dei gioiellieri, il bazar delle sete e dei profumi, i locali dove si vendevano oppio e tabacco.
Nel XIX secolo, in questo clima di ricreata prosperità, Buchara, coi suoi otto caravanserragli, è in grado di accogliere un gran numero di carovane, la maggior parte delle quali conta da 500 a 2000 cammelli.
Ma l’equilibrata esistenza dei popoli turchi dell’Asia centrale è sconvolta a metà Ottocento dal colonialismo
È un evento drammatico e paradossale.
Mentre in Europa e nel Mediterraneo gli ottomani si battono per conservare la propria sovranità su territori abitati da elementi non turchi – slavi, greci, armeni e arabi – i connazionali che vivono a est, nel Turkestan, dove non erano sudditi dell’Impero, ma neppure soggetti a un’autorità esterna, finiscono nel mirino dell’imperialismo russo e cinese. La minaccia è grave, e mancano la volontà politica, i mezzi economici, e le forze armate necessarie per pararla, impedendo che i turcomanni perdano la loro libertà e finiscano sotto il tallone straniero.
I russi, nella prima metà dell’800, perseguono un ambizioso progetto espansionistico. Esplorata la Siberia e raggiunto il Pacifico, passano attraverso lo stretto di Bering in Alaska, dove è straordinaria l’abbondanza dell’oro morbido, le pellicce degli animali. Alla Cina, in quegli stessi anni, sono strappati coi cosiddetti Trattati Ineguali vasti territori in Manciuria. Nel 1858 i russi ottengono il confine sulla riva sinistra dell’Amur; nel 1860 il territorio fra l’Ussuri e il Mar del Giappone. Parte la costruzione in Asia centrale di quel sistema ferroviario, dal Caspio e da Orenburg verso il Turkestan, che troverà poi coronamento, più a nord, nella Transiberiana, e che è destinato a supportare l’atteso sviluppo civile dei nuovi territori, ma soprattutto gli spostamenti degli eserciti impegnati nelle campagne coloniali.
Le genti turcofone e musulmane dell’Asia centrale si trovano sulla direttrice dell’avanzata russa che punta a sud, verso i confini persiano e afgano. Ma forse le ambizioni di San Pietroburgo sono anche maggiori. Lo temono gli inglesi, che vedono in pericolo la sicurezza del confine settentrionale dell’Impero indiano: è il «Grande Gioco», una schermaglia diplomatico-militare tra russi e inglesi che, per decenni, verrà combattuta principalmente su suolo persiano e afgano.
La penetrazione in Asia dei russi – meglio armati e meglio addestrati – vince la debole resistenza dei khan locali. Per contrastare un esercito moderno occorreva infatti ben altro che qualche folkloristica milizia di tipo feudale. I tempi per dare alle popolazioni locali quella compattezza indispensabile a formare uno Stato organico non erano del resto maturi. Automobili, treni, aeroplani, telefoni e tutte quelle infrastrutture che in un Paese vasto e desertico permettono di annullare le distanze, non esistevano ancora, e questo spiega perché i turcomanni fossero isolati, divisi e militarmente disorganizzati.
Le difficoltà ambientali – il grande freddo invernale (–30°, –40°), il grande calore estivo (+40°, +50°), le enormi distanze, la scarsità di acqua per uomini e animali – rendono tuttavia per i russi l’impresa militare dispendiosa. Un corpo d’armata russo di 4000 uomini al comando del principe Bekovich, cade in un’imboscata e viene interamente massacrato. Nel 1839 una colonna russa, che puntava su Merv, è costretta a rientrare alla base di partenza senza aver ottenuto altro risultato se non quello d’aver perso nel deserto migliaia di uomini congelati e 9000 cammelli.
I risultati delle ripetute campagne sono comunque, alla fine, di eccezionale rilievo strategico.
Nel 1864 è completata l’occupazione dei due versanti del Caucaso tra il Mar Nero e il Caspio.
Nel 1865 cade Taskent, che diventa capitale del governatorato del Turkestan.
Nel 1868 è espugnata Buchara, che era difesa da dodici chilometri di mura e da porte fortificate.
Nel 1869 viene fondata Krasnovodsk, sulla riva orientale del Caspio. Poco dopo sono conquistate Aschabad e Merv.
Nel 1882, Buchara, Chiva e Kokand sono annesse ai territori del governatorato.
È il caso di riflettere, in conclusione, su quanto relativamente recente sia l’occupazione russa dell’Asia centrale.
È il caso a questo punto di seguire, almeno per sommi capi, le vicende del Turkestan sotto la dominazione russa. Va rilevato anzitutto che, a differenza di altri Paesi europei, la Russia non aveva una gran civiltà da esportare nelle sue colonie. I colonizzati avevano anzi un passato, una cultura, una religione, un orgoglio razziale e una mentalità combattiva, mentre le tribù slave, gente che abitava la foresta e le rive dei fiumi, il Don, il Dniepr e il Volga, erano state a lungo vittime del tutto passive dei popoli vicini. I variaghi della Scandinavia a nord, i turchi a sud, consideravano i russi merce ideale per il loro commercio di schiavi. Maurice Lombard ricorda come nel mondo islamico il paese dei russi fosse noto come Bilad as Saquaqliba, il Paese degli schiavi.
Dalla barbarie originaria la Russia era piombata sotto il dominio delle orde asiatiche, un dominio secolare dal quale ben poco di utile aveva potuto apprendere. I principi di Mosca, ancora nel XV secolo, si adattavano al poco nobile ruolo di esattori dei padroni mongoli.
All’epoca della conquista del Turkestan, la Russia era ancora un Paese poco sviluppato, alla testa del quale c’era lo zar, un autocrate di ceppo germanico.
Poche le scuole e i giornali, praticamente inesistenti i diritti dei sudditi, incapaci del resto, a causa non tanto del generale infimo livello di istruzione, quanto di una collettiva carenza di carattere e vitalità, di battersi per il cambiamento.
Ci rendiamo conto della severità di tale valutazione, ma essa è confermata dall’inerzia con la quale fu poi a lungo sopportata l’oppressione comunista. Fosse stato solo per il popolo russo, quel regime, ideologicamente ma anche etnicamente estraneo alla nazione, in quanto espressione delle minoranze ebraica e caucasica, avrebbe potuto durare altri mille anni. Il suo crollo non fu determinato infatti da una qualche rivolta dal basso, ma pianificato dall’alto e dall’esterno.
Il giudizio sulla scarsa capacità dei russi ad autogovernarsi, è confermato dalla facilità con cui oggi i burocrati postmarxisti, le organizzazioni mafiose e gli oligarchi ebrei si sono impossessati, «privatizzandole» in modo scandaloso, delle ricchezze del Paese. Ancora una volta senza innescare reazioni significative.
Se questa era la condizione civile dei russi nelle province metropolitane, è facile immaginare quale potesse essere il trattamento imposto alle popolazioni dei nuovi territori che, nelle zone di minor interesse, vivevano abbandonate a se stesse. In Siberia i nativi collaboravano alla caccia in cambio di un po’ di tabacco e di qualche bottiglia di vodka. I registri delle società che si occupavano della raccolta e della commercializzazione delle pelli ci raccontano di incredibili stragi di animali. Pare che in un solo anno fossero uccisi sette milioni di zibellini. Altrove, come nel Turkestan, gli indigeni restavano agli ordini di autorità locali che rispondevano all’amministrazione zarista, fornendo gli uomini richiesti per i lavori pesanti.
Simili condizioni di vita, tanto più se imposte dallo straniero, non potevano certo riuscire gradite ai turcomanni né garantire una convivenza pacifica.
Nel 1898, nel khanato di Kokand, duemila rivoltosi attaccano una caserma russa ad Andizan e uccidono ventidue militari. Nella repressione sono coinvolte migliaia di persone; diciotto turchi vengono impiccati, a centinaia finiscono in prigione o al confino, nelle miniere artiche.
Pochi anni dopo, nel 1905, durante la guerra russo-giapponese, scoppia la rivolta: è la prova generale della rivoluzione del 1917. L’epicentro è a Baku sul Caspio, in Azerbaigian, la zona più industrializzata del Paese, ma, non dimentichiamolo, anche abitata da musulmani.
Con la prima guerra mondiale, il reclutamento coatto di migliaia di turcomanni e la requisizione di un gran numero di animali da sella e da soma, provocano, nel giugno 1916, un’insurrezione estesa a tutto il Turkestan. Duemila e trecento sono i residenti russi uccisi; fra le vittime ci sono ventiquattro alti funzionari e cinquantacinque impiegati dell’amministrazione coloniale. Scatta la legge marziale e la rappresaglia è pesante. Decine di villaggi bruciati, migliaia le vittime, trecentomila le persone che, prima che la neve blocchi i passi montani, si rifugiano in Cina, presso i correligionari del Turkestan orientale.
Il crollo dello zarismo e la rivoluzione d’Ottobre rappresentano per i turcomanni un momento di speranza. Gli scritti di Lenin erano infatti ricchi di promesse di libertà e riscatto per i popoli oppressi dal colonialismo e proponevano una stretta alleanza di tutti i movimenti di liberazione nazionale con la Russia sovietica.
Il Congresso di fondazione del Comintern, nel marzo 1919, include nel suo manifesto un appello agli «schiavi coloniali dell’Asia e dell’Africa». Ma questa linea politica era in verità unicamente finalizzata a creare problemi al mondo capitalista. «Colonie», per i comunisti, erano solo quelle degli altri; pensavano forse di potersi escludere dal gruppo degli sfruttatori perché i loro possedimenti non erano oltremare e perché dicevano di essere intenzionati ad assicurare alle minoranze nazionali diritti uguali a quelli dei russi.
La realtà fu presto chiara. È noto quale inferno sia stato, per tutti i popoli dell’Unione Sovietica, il regime comunista. Pochi sanno però che, per i turchi dell’Asia, lo fu in misura infinitamente maggiore. Costoro subirono una devastante snazionalizzazione e una russificazione a dosi da cavallo. I confini fra gli attuali cinque Stati (Uzbekistan, Kazakistan, Turkmenistan, Kirghisistan e Tagikistan) non rispondevano ad alcun logico disegno nazionale, anzi, furono tracciati, e in seguito più volte spostati, solo per meglio separare e controllare i sudditi. Al contempo, l’intera regione fu snaturata da un’immigrazione di massa e le realtà culturali e religiose locali vennero soffocate attraverso la chiusura di migliaia di moschee e l’imposizione alle scritture turca e araba dei caratteri cirillici.
Si impediva così di fatto qualsiasi scambio tra le genti della stessa razza che vivevano oltre il confine. La struttura sociale fu sconvolta con l’eliminazione della proprietà privata. Venne introdotta la coltivazione intensiva del cotone, resa possibile dal lavoro forzato e dalla costruzione di un sistema di dighe e canali per l’irrigazione che, nel giro di qualche decennio, ha finito per cancellare fiumi e laghi. Basti pensare al drammatico prosciugamento del grande lago d’Aral, le cui acque si sono ritirate lasciando all’asciutto i paesi rivieraschi, le spiagge e le barche dei pescatori. All’inizio degli anni Ottanta le sessantamila persone che vivevano pescando hanno dovuto andarsene. Il porto principale, Moynaq, è insabbiato, e si trova a circa novanta chilometri da quella che è la sponda attuale. Appena fuori dal centro abitato, le navi o quel che rimane del loro scheletro dopo che sono state spolpate, galleggiano a fior di sabbia.
Appena un secolo fa le rive dell’Amù Daria, l’antico Oxus, e quelle del Syr Daria, l’Ixartes, che alimentavano l’Aral, erano coperte di foreste, con tigri, cinghiali, pantere e uccelli selvatici. Oggi quei luoghi sono una landa desolata chiazzata da croste di veleni chimici. I fiumi stanno morendo dissanguati dalle pompe idrauliche che ne succhiano l’acqua.
Un’operazione suicida: lungo le rive dei canali, nei campi, il sale brucia ogni cosa e impedisce le coltivazioni. Persino la pioggia è salata. Il cotone voluto da Mosca ha distrutto un’intera nazione.
Fino al crollo del comunismo, il Turkestan venne considerato dal regime un’autentica pattumiera nella quale riversare avversari politici, deportare quei popoli che rifiutavano di sottomettersi, ammassare rifiuti tossici, installare basi militari e poligoni atomici. A Semipalatinsk, nel Kazakistan, sono stati fatti esplodere 465 ordigni nucleari. A Bajkonur, sempre nel Kazakistan, è in funzione da decenni un centro spaziale che ha effettuato complessivamente quasi duemila lanci. I primi stadi dei missili, che non possono ovviamente cadere in mare, precipitano nella steppa inquinando con metilidrazina e con heptyl-bifenilcarbonitrile il suolo e la falda. Ricerche universitarie russe hanno dimostrato che, nel corridoio di caduta dei vettori, il tasso di mortalità per malattie epatiche o del sangue, ha subito un incremento del 30%.
Tutto il territorio è stato inquinato da pesticidi e fertilizzanti. E la popolazione presenta percentuali eccezionalmente elevate di deformità, tumori e patologie genetiche. La mortalità infantile, negli ultimi anni del regime sovietico, era di molto superiore, per i turcomanni, a quella dei Paesi più arretrati del Terzo Mondo. Nell’ambito dell’Unione Sovietica, i dati relativi appunto alla mortalità infantile tra i sudditi dell’Asia centrale erano del 58,2 per ogni mille nati vivi, contro il 17,3 della Repubblica Federativa Russa.
Che l’Asia centrale fosse tenuta in condizioni di tipo coloniale è documentato anche dall’ineguale e sfavorevole distribuzione tanto del reddito quanto degli investimenti statali.
Non si può chiudere l’argomento senza accennare allo scempio architettonico perpetrato nelle città dell’Asia centrale dall’occupante sovietico. Gli antichi monumenti islamici, gli edifici delle strette, pittoresche strade dei quartieri commerciali, non solo si sgretolano nell’abbandono più totale, ma sono anche soverchiati e nascosti dalla mastodontica, triste urbanistica proletaria. Ovunque dominano la banalità e il rapidissimo degrado degli edifici: cemento sbrecciato, pareti ammuffite, serramenti arrugginiti.
Come mai tutta questa realtà è così poco conosciuta?
Poche intanto le notizie negative che riuscivano a scavalcare la stretta rete della censura comunista. Quanto a diffonderle, l’Occidente non desiderava affatto criminalizzare l’Unione Sovietica, il compagno di merende antifascista col quale si era spartito il mondo. Il silenzio e la sottovalutazione dei crimini del comunismo contro i popoli e contro l’ambiente erano infine assicurati ovunque da una cultura e da un’informazione in larga maggioranza riconducibile alla sinistra filo-sovietica. Ecco perché, nella saggistica storica del ’900, l’Urss viene sempre presentata come un soggetto il cui tessuto sociale non presentava discriminazioni, né economiche, né razziali. Le diverse nazionalità, come in una Svizzera da idillio, coesistevano senza alcun problema e dunque non era il caso di dilungarsi sulle marginali vicende della «minoranza» turcofona.
Mosca, nei saggi dei cattedratici para-marxisti, non compare mai fra le potenze coloniali e pochissimi autori, persino ai nostri giorni, sono disposti ad alzare il velo sul calvario dei suoi sudditi asiatici. Un calvario che qui ci pare invece il caso di ricordare. Non tanto per scavare nel passato, nelle menzogne del comunismo o nelle amnesie dei suoi reggicoda, quanto per dare sostegno alla battaglia che i popoli turchi stanno combattendo, dal Bosforo alla Mongolia, per conquistare, nella loro terra, una vera libertà. Libertà ancor oggi negata dalla presenza militare statunitense, dal cartello petrolifero occidentale e dalla complicità, sul lato russo, della vecchia burocrazia e della nuova oligarchia ebraico-mafiosa cresciuta grazie alle ruberie perpetrate a spese del popolo nelle prime devastanti settimane di democrazia.
* * *
Superato il primo momento di sbandamento seguito al crollo del regime zarista e delle strutture militari e civili ad esso collegate, i residenti e i burocrati russi in Asia capiscono che, se vogliono mantenere i privilegi acquisiti con la conquista coloniale, non possono lasciare il potere nelle mani della maggioranza musulmana.
Ed ecco che lo scontro tra russi e turchi non tarda a manifestarsi. A impedire la nascita di un’Assemblea Costituente, eletta democraticamente, nella quale i russi sarebbero stati minoranza e i turcofoni si sarebbero di sicuro pronunciati per l’autodeterminazione, giunge nell’autunno del 1917 il colpo di stato militare dei soviet.
La dittatura del proletariato, nel particolare contesto dell’Asia centrale, non vuole colpire i nemici di classe, gli aristocratici e i borghesi, ma si abbatte su quello che del vecchio regime era stata la principale vittima e cioè il proletariato turcofono, il gruppo più sfruttato e quindi più povero della popolazione.
I musulmani passano dunque dalla padella della burocrazia zarista alla brace dei soviet.
L’Islam è brutalmente perseguitato. Vengono chiuse ventiseimila moschee; migliaia di religiosi sono eliminati. Ai non-russi viene negata persino la tessera annonaria; i profughi della repressione zarista finiti in Cina e che vorrebbero rientrare, vengono presi a fucilate dai coloni russi che si sono impossessati delle loro terre e delle loro case. Le derrate alimentari in possesso dei mercanti musulmani vengono requisite, le loro botteghe saccheggiate.
L’avvento del comunismo nel Turkestan è, torniamo a dirlo, una controrivoluzione messa in atto per tutelare la minoranza coloniale russa. I sovietici spiegano con un’acrobatica capriola dialettica che «il principio dell’autodeterminazione deve essere subordinato al socialismo». Ma il socialismo dei russi esclude i nativi del Turkestan – che non sono né socialisti né russi – persino dall’accesso alle risorse alimentari e li condanna alla fame. Scoppiano epidemie di tifo e colera, mentre il Turkestan rimane isolato dalla rivolta anticomunista dei cosacchi che, da Orenburg, bloccano la ferrovia e quindi ogni rifornimento.
Molte le affinità di costume e di carattere tra i cosacchi e i popoli turcofoni dell’Asia centrale. Anche l’origine razziale è probabilmente la stessa. Il termine cosacco deriva infatti dal turco-tataro q–azaq, nomade, vagabondo.
A questo punto – dicembre ’17 – si costituisce a Kokand un governo islamico che proclama l’autonomia del Turkestan. A Taskent, decine di migliaia di persone si radunano attorno alla moschea di Jani per festeggiare. Nei giorni successivi, nel corso di nuove manifestazioni, è assaltata la prigione e sono liberati i detenuti. I russi reagiscono e sparano sulla folla. I più dei fuggiaschi sono riacciuffati, torturati e fucilati.
Anche Samarcanda si ribella, ma è presto riconquistata dai sovietici. Da qui i russi puntano con armi pesanti su Kokand. Reparti armeni si uniscono agli attaccanti e si distingueranno nel massacro che segue la conquista della città. I quartieri musulmani sono dati alle fiamme, negozi e case saccheggiati. Quattordicimila gli abitanti assassinati, tutte le moschee vengono fatte saltare in aria.
Distrutta Kokand, dove restano di presidio reparti armeni, i comunisti si dirigono verso Buchara, ma sono respinti dall’esercito dell’emiro e messi in fuga. I coloni russi della zona seguono i rivoluzionari in una ritirata che si arresta solo a Taskent.
Ogni compromesso risulta a questo punto improponibile e si apre così la lunga stagione della guerra partigiana. Unità armate di musulmani – i basmachi – non danno tregua ai russi, bloccano il passaggio dei treni, assaltano caserme, isolano le città, uccidono i collaborazionisti. Aiuti agli insorti giungono dall’Afghanistan e da Kasghar, nel Turkestan cinese.
La rappresaglia sovietica si traduce in saccheggi e violenze contro i villaggi musulmani, accusati di coprire i basmachi. Nelle ruberie e nelle violenze si distinguono ancora una volta gli armeni, cui non par vero di poter uccidere dei turchi inermi. Per questo vile comportamento, era logico che gli armeni fossero particolarmente presi di mira dai basmachi. Un solo esempio: nel febbraio 1919, a Namangan, un reparto sovietico è fatto prigioniero: i soldati russi, dopo essere stati disarmati, vengono lasciati in libertà; quarantanove armeni e tredici collaborazionisti musulmani sono uccisi sul posto.
Dalla metà del 1918, tutti, nel Turkestan, sono armati. È al tempo stesso una guerra di nazionalità, ideologia, classe sociale e religione. Ma anche di semplice sopravvivenza. All’interno della fazione russa, nel 1919, ci sarà l’epurazione dei socialisti – con almeno quattromila fucilati – e la liquidazione da parte dei comunisti degli armeni che, a Baku, erano passati al servizio degli inglesi. Ma vi sono piccoli proprietari russi che abbandonano i sovietici e si avvicinano ai basmachi. Da parte dei sovietici si parla d’altra parte di formare un’Armata Rossa musulmana e di restituire ai collaborazionisti terre e bestiame requisiti.
Nessuna acrobazia politica, nessun compromesso potrà però dare una vera patria ai turcomanni. Da Mosca, appena le condizioni militari lo consentono, ci si muove verso la soluzione radicale cui mai si era rinunciato: i basmachi, i nazionalisti musulmani del Turkestan e chi voleva con essi scendere a patti, non potevano che essere nemici del potere comunista. Andavano annientati. Vi era spazio solo per una pax sovietica. I contadini non possono lavorare le proprie terre; i pescatori del Caspio e dell’Aral non possono più pescare, né raccogliere il sale, neppure per uso personale. E, per piegare la resistenza dei turchi, si chiude anche la frontiera con la Persia, dove queste merci potevano essere vendute.
Nell’estate del 1920 l’emirato di Buchara – duecentomila chilometri quadrati tra l’Amù Daria e le montagne afgane e cinesi – era l’ultimo bastione dell’indipendenza turca in Asia. Il 2 settembre i comunisti, appoggiati dall’aviazione, penetrano nella città e cannoneggiano il palazzo dell’emiro che si rifugia in Afghanistan. Gruppi di resistenti turchi si ritirano sulle colline vicine e, a fianco dei basmachi, impegnano l’occupante in una sanguinosa guerriglia.
L’anno successivo i partigiani islamici sono raggiunti dall’ex ministro della difesa turco Enver pascia, che perseguiva tenacemente l’idea di uno Stato panturco. L’appoggio della popolazione consente a Enver, che arriva a contare su ventimila uomini, un grande attivismo. Coi suoi basmachi espugna Dushambè e porta un attacco alla stessa Buchara. Da questa relativa posizione di forza chiede al governo sovietico il riconoscimento del Turkestan autonomo promettendo, in cambio, pace e amicizia.
Mosca rifiuta e organizza la controffensiva. Dopo alterne vicende, nell’agosto 1922, Enver cade in un’imboscata durante un’azione di rastrellamento. Salta in sella, estrae la sciabola e si lancia contro le mitragliatrici dell’Armata Rossa. Viene sopraffatto e decapitato. La località della morte è taciuta dai sovietici per evitare che diventi meta di pellegrinaggio.
La resistenza islamica si prolunga però sino agli anni Trenta quando, a danno degli agricoltori e dei nomadi del Turkestan, scatta la collettivizzazione delle terre: è una bufera che provoca un lungo periodo di carestia e la deportazione dei kulaki che si erano opposti alla «riforma» dei comunisti.
I ribelli turchi vengono mandati all’estremo nord, dove lavorano a una delle più insensate imprese del regime comunista, lo scavo tra l’Artico e il Baltico del Canale del Mar Bianco. Costato, tra il dicembre 1931 e il luglio 1933, 25.000 morti, il Belomor (227 chilometri) vede oggi transitare non più di tre o quattro chiatte di piccolo tonnellaggio al giorno.
La popolazione del Turkestan, in quegli anni, a causa della guerra civile, della carestia e delle deportazioni, si riduce di milioni di persone; centinaia di migliaia i profughi che riparano in Afghanistan, Persia e Cina.
Negli anni ’37 e ’38 il Grande Terrore – le purghe staliniane – inghiotte anche in Asia migliaia di ufficiali, funzionari, insegnanti e un’intera generazione di giovani comunisti. Gli arrestati sono accusati di «tendenze borghesi-nazionaliste o panturche».
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, la partita si riapre. Come era già accaduto nel nord, dove i baltici regolano i conti con la dirigenza giudeo-bolscevica, anche a sud l’avanzata tedesca infiamma le popolazioni locali. È di nuovo una ribellione generale di tipo etnico, politico, culturale e religioso.
Non può stupire, in questo contesto, che i cosacchi del Kuban, i tatari di Crimea e i popoli del Caucaso, caraciai, ingusci, calmucchi, ceceni, osseti, abchazi, pur così divisi tra loro, conservassero la memoria dei soprusi subiti, e accogliessero i tedeschi come liberatori andando a ingrossare le file dei volontari dell’est, inseriti a parità di trattamento, paga e carriera, nei reparti della Wehrmacht.
Alle diserzioni, che riguardano oltre la metà del milione e mezzo dei turcomanni arruolati nell’Armata Rossa, e ai sabotaggi, i comunisti reagiscono con fucilazioni e nuove deportazioni. Si tratta, per non dar tempo alle popolazioni di mettersi in allarme, di operazioni fulminee. Nel maggio 1944, 31.000 uomini della NKVD, in soli tre giorni, rastrellano 200.000 tatari e con centinaia di camion li portano alla ferrovia dove sono ad aspettarli 67 treni.
I ceceni sono trattati ancor più duramente. Dagli automezzi, forniti ai russi dagli americani, passano ai vagoni merci nei quali viaggiano sigillati. Durante il solo trasporto ne muoiono quasi 80.000. Dai documenti rintracciati a Mosca negli archivi della polizia politica diretta dal sanguinario georgiano Berija risulta che le persone coinvolte in questa ondata di arresti furono oltre un milione e mezzo.
Dopo la deportazione, i nomi delle popolazioni trasferite a forza sparirono dai documenti ufficiali, persino dall’enciclopedia, la Bol’saja sovetskaja enciklopedija. Il governo fece cancellare dalle carte geografiche le loro patrie, abolendo la repubblica autonoma dei ceceni e ingusci, la repubblica autonoma dei tedeschi del Volga, la repubblica autonoma dei cabardino-balcari e la provincia autonoma dei caraciai. Anche la repubblica autonoma di Crimea fu liquidata e la Crimea divenne semplicemente un’altra provincia sovietica. Le autorità regionali distrussero i cimiteri, cambiarono i nomi di città e villaggi, e cancellarono gli ex residenti dai libri di storia.
Ma la ribellione dei popoli oppressi va vista in una prospettiva geografica più ampia. Il mondo islamico ha tutto da guadagnare anche dalla sconfitta degli alleati dell’Unione Sovietica, le grandi potenze coloniali, e si schiera ovunque apertamente a favore del Tripartito, l’alleanza tra Germania, Italia e Giappone. In Palestina, il Gran Muftì di Gerusalemme, Haji Amin al Husseini, zio di Arafat, braccato dagli inglesi, si rifugia, passando dalla Siria controllata da Vichy in Iraq, dove nell’aprile 1941 fornisce il suo contributo alla rivolta antibritannica di Rashid Alì. Soffocata la ribellione irachena, il Muftì ripara a Berlino, affianca la lotta dell’Asse e si prodiga per arruolare musulmani bosniaci, macedoni e albanesi nella Handschar, la divisione islamica delle Waffen SS.
In Egitto, Nasser e Sadat collaborano con i servizi di spionaggio dell’armata di Rommel. In Tunisia i musulmani combattono a fianco degli italo-tedeschi.
In oriente la lotta di liberazione contro gli imperialisti è condotta a fianco dei giapponesi.
Sono coinvolte le Filippine, la più grande colonia USA del Pacifico, la Birmania e l’Indonesia, oggi il più popoloso Paese musulmano del mondo, allora possedimento coloniale olandese. Anche l’impero indiano è percorso da venti di ribellione.
Il dopoguerra è segnato, ancora una volta, per i sudditi islamici dell’Unione Sovietica, dal lavoro forzato nelle piantagioni di cotone e nei cantieri idraulici aperti per irrigarle.
Estese aree del Paese vengono isolate e riservate agli esperimenti nucleari.
Nella zona del lago d'Aral sono costruiti enormi complessi per la produzione di gas tossici e armi batteriologiche.