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Banalità e omologazione culturale

di Christian Raimo - 26/04/2007

 
La pedagogia è in crisi ma non facciamo gli apocalittici
La nostra società produce banalità e omologazione culturale. La denuncia impietosa viene da un pamphlet di Paolo Perticari,
docente di filosofia della formazione, dal titolo "L'educazione impensabile". Ma la sua soluzione assomiglia a una scorciatoia


«Ogni volta che sento la parola cultura metto mano alla pistola». Sempre più spesso ascoltando chi parla della situazione della cultura e dell'educazione oggi in Italia mi viene in mente la famosa frase di Goebbels. Ma in un senso un po' rovesciato. Mi spiego. Che si stia consumando sotto i nostri occhi - implacabile - un disastro sociale di consistenti proporzioni per quello che riguarda la scuola, l'università, la ricerca... è l'indiscutibile fatto con cui si deve confrontare chiunque lavori tra aule, banchi, laboratori. Tagli alle risorse, perdita di autorevolezza, fuga dei cervelli, eccetera.

La questione diventa dunque, preso atto della crisi, analizzare come agire rispetto a questo stato che sta diventando appunto endemico; come delineare delle direzioni di controtendenza. Se ci si fa un giro perlustrativo, il panorama di riferimento è piuttosto scoraggiante. Gli allarmi si susseguono (e i media, ad ogni guizzo, si buttano a pesce sul dibattito per farlo diventare una vetrina dell'emergenza), mentre esponenzialmente si moltiplicano gli appelli teorici, civili, pedagogici a ricostituire una mappa di valori perduti.

Allora ecco che si sente un gran parlare, un infinito gran parlare di cultura, di importanza della cultura, di centralità della scuola... ed è a questo punto che viene da mettere mano non alla pistola, ma quanto meno al nodo scorsoio, perché tra le righe di questo esteso fronte di indignazione retorica, si intravede un'insufficienza di analisi, e alla fine - senza troppe colpe - di capacità di coinvolgimento.

Ma non generalizziamo, partiamo da un caso esemplare: il pamphlet appena uscito da Eleuthera intitolato L'educazione impensabile . Paolo Perticari, l'autore, insegna pedagogia generale e filosofia della formazione all'università di Bergamo, e ha sicuramente ben chiaro lo stato dell'arte dell'educazione oggi in Italia. Talmente chiaro che mette il tema in cima alla lista delle priorità di un'ideale agenda di intervento pubblico: «Il problema di un'educazione culturale rappresenta un problema politico fondamentale». E non si può non essere d'accordo. Più problematico diventa capire qual è il contesto in cui si va a operare. Perché l'idea che si è fatto Perticari - e che non lesina a ribadire con afflato millenaristico - è che il mondo per come lo conoscevamo noi stia andando alla deriva. Le coscienze si impoveriscono; l'estetica e la fede sono divenute al tempo stesso «l'arma e il teatro della guerra economica mondializzata»; le persone si trasformano in «somme di neuroni viventi divorati dall'invidia e dalla noia»; l'educazione e l'insegnamento «nelle democrazie tecno-populiste sono sostituite dallo stordimento e dalla banalizzazione che passa attraverso la comunicazione e le sue telecinetiche»; lo scoppio del tessuto sociale fa sì che per emergere i ragazzi s'inventino addirittura assassini; la nostra è una «società da consumo di massa in cui rischiamo di venire abituati a vivere e pensare come dei porci»; la società dell'informazione porta - in sintesi (sua) - alla deprivazione mentale. Fino a paragonare quest'adesione all'industria culturale al comportamento di un Eichmann - e la banalità del male alla macchina banale che è la condizione («quantitativa, bancaria, monoculturale, monolinguistica») dell'essere umano occidentale nel momento in cui cresce e conosce il mondo.

Un orizzonte oscuro in cui niente si salva: né Carosello che surclassava l'audience e le «notevoli trasmissioni televisive del maestro Manzi», né praticamente la modernità tutta («industrie culturali, industrie del turismo, programmi televisivi, multimedia, hi-fi, hi-tech, happy hours, moda, industria della comunicazione e dello spettacolo, sport e così via: queste attività non hanno la funzione di liberare il tempo individuale, ma al contrario di controllarlo per massificarlo al massimo»).
A pelle, rispetto al quadro che disegna Perticari, con tutta la sua carica savonaroliana, si prova un senso di empatia moraleggiante. E' vero, del resto, la delegittimazione sistematica delle professioni della cultura ha prodotto i suoi amari frutti; mentre, è altrettanto vero, il Novecento ci aveva abituati a un (anche potenziale) ruolo di avanguardia culturale, sociale, della scuola e dell'università. Oggi gli agenti formativi e culturali sono, si sa, molteplici, e molto spesso antagonisti rispetto all'educazione scolastica: quello che propongono è sicuramente un consumismo culturale diffuso.

E il punto allora sta proprio qui. Come relazionarsi a questi agenti culturali orizzontali? Per allargare il discorso: come aggiornare il bagaglio teorico, pedagogico, cercando di integrare il mondo del consumo culturale e quello di una possibile critica della società? Perticari trova la sua soluzione con una via un po' corta. Sostituisce, nel suo orizzonte di riferimento, i grandi maestri del pensiero critico novecentesco (Gramsci, Benjamin, Arendt...) con le voci più rilevanti del post-colonialismo (Spivak, Bhabha...), e lo fa alla ricerca di un fantomatico "altro" che verrebbe a rinnovare, mettendola profondamente in crisi l'educazione odierna strumentale a un mercato.

La sua sicurezza in questi casi è abbastanza assoluta: «Al momento attuale», dice Perticari gnomicamente, «tutta l'educazione occidentale risulta chiusa nei confronti dell'evento dell'altro e lo patisce». Le intenzioni dell' Educazione impensabile sono ottime: partire dal difetto, dalla disfunzione, dall'ignoranza di Socrate e Don Milani, dall'impensabile appunto, all'interno di un processo di trasmissione che faccia diventare adulti, che formi come cittadini, come cittadini critici, capaci di immaginare un mondo diverso. L'aspetto che però sembra sfuggire a Perticari è forse il contesto in cui vive. "L'altro" che la società italiana rappresenta gli fa abbastanza schifo, lo deprime, e lui non simula certo il suo atteggiamento di demonizzazione: «L'educazione come ricerca di una riappropriazione non coercitiva dei desideri, degli affetti, del sensibile, del simbolico, del religioso teologico e ateologico, richiede un impegno a lungo termine nell'ambito delle politiche dell'educazione europee [...] Questa non può nascere in call center, né tanto meno nei circuiti della produzione audiovisiva, dei media, della pubblicità, della moda, della produzione commerciale di software eccetera». Perché? Il rischio di preservare e reinvestire sul ruolo della scuola ha questo come rovescio della medaglia: liquidare la complessità delle trasformazioni della società che circonda le mura degli edifici scolastici.
Il territorio del dibattito andrebbe quindi ridelineato, a partire da quello che è il ganglio delle problematiche dell'educazione: il suo rapporto con le metodologie della comunicazione. Integrazione? Dialettica? Contrapposizione?... L'antitesi tra gratuità e pubblicità… Ma di questo parleremo nella prossima puntata.