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Palestina, Pace non Apartheid

di Jimmy Carter - 26/04/2007





Gli Israeliani sono oggi tentati di non fare alcuno sforzo per trovare un accordo di pace che sia fondato sulla Road Map, su negoziati in buona fede o su altre basi. In effetti, Gerusalemme Est si trova sempre più sotto controllo israeliano, il muro procura una relativa sicurezza attorno a quel che resta della Cisgiordania e migliaia di coloni rimangono ad est del muro, protetti da una potente forza d’occupazione.

In un periodo caratterizzato da un vuoto diplomatico, gli ufficiali israeliani hanno preso un certo numero di decisioni unilaterali, non curandosi di Washington e dei Palestinesi. Essi sono persuasi che una barriera risolverà il problema palestinese. Servendosi del loro predominio politico e militare, impongono un sistema di parziale ritiro, di accerchiamento e di apartheid per i cittadini musulmani e cristiani dei territori occupati. Lo scopo della separazione dei due popoli differisce da quello del Sudafrica, dove si tratta di razzismo. Qui, l’obiettivo è l’acquisizione territoriale. Sono stati fatti grossi sforzi per impedire ogni contatto tra i coloni e i Palestinesi, in modo da permettere alle famiglie ebraiche di recarsi da Gerusalemme nel cuore della Cisgiordania su strade proibite ai palestinesi e senza alcun contatto con la vita araba.

Il ritiro da Gaza è stato la prima fase : lasciare quel minuscolo territorio, economicamente e politicamente non vivibile, circondato e isolato, senza accesso all’aria, all’acqua e nemmeno ad altri Palestinesi. Il futuro della Cisgiordania è ancora più cupo. L’enorme muro è un evidente elemento perturbatore che separa zone abitate ed impedisce il passaggio a zone agricole. Lo status di quel muro è una delle chiavi per una futura pace nel Medio Oriente. Gli Israeliani moderati erano inizialmente dell’idea di una barriera fisica per evitare attacchi dopo il ritiro delle forze israeliane. La prima barriera attorno a Gaza, aveva dato ragione a questa logica, con una riduzione degli attacchi dalla frontiera. Il piano prevedeva la costruzione di una barriera lungo la frontiera tra Israele e la Cigiordania.

Al posto di questo, i governi di Ariel Sharon e di Ehud Olmert hanno costruito un reticolato ed un muro all’interno del territorio palestinese, largamente all’interno della Cisgiordania, in modo da inglobare colonie israeliane e grandi porzioni di terre palestinesi. Si prevede che il muro sia tre volte e mezzo la dimensione della frontiera internazionalmente riconosciuta ad Israele ed esso già penetra in numerosi villaggi palestinesi, separa famiglie dai loro giardini e dalle loro terre agricole ed incorpora 375 000 Palestinesi sul suo lato « israeliano », 175 000 dei quali sono fuori Gerusalemme. Qalqiliya ne è un esempio : il muro circonda tutta la città, rinchiudendo i suoi 45 000 abitanti, impedendo l’accesso alle terre e ad un terzo delle risorse idriche, divenute proprietà israeliane. La stessa cosa accade per i circa 170 000 cittadini di Betlemme, luogo natale di Gesù.

Per costruire il muro, una grande fascia di terra deve in primo luogo essere passata al setaccio dai bulldozer attraverso le abitazioni. Lungo il muro, accanto agli elementi in cemento e al filo spinato utilizzati per la costruzione, occorrono fossati di due metri di profondità, strade per i veicoli di pattugliamento, sensori elettronici al suolo e sulla rete metallica, telecamere termiche e video, torrette per i tiratori scelti, una rete metallica sottile come un rasoio, tutto questo sulla terra palestinese. La zona situata tra la barriera di segregazione e la frontiera israeliana è considerata una zona militare chiusa per un periodo indefinito. Le direttive israeliane stabiliscono che ogni palestinese che abbia più di dodici anni e che abiti nella zona chiusa deve ottenere « un permesso di residenza permanente » dall’amministrazione civile, unico mezzo per continuare a vivere nella propria casa. Essi sono considerati degli stranieri, senza i diritti dei cittadini israeliani.

In sintesi, ogni territorio che Israele decide di confiscare sarà dalla sua parte del muro, ma gli Israeliani si riservano il diritto di controllare i Palestinesi che si trovano dall’altra parte, bloccati tra il muro e le forze militari israeliane presenti nella valle del Giordano. Il Presidente George W. Bush ha detto : « credo che il muro sia un problema. E’ molto difficile far crescere la fiducia tra i Palestinesi e gli Israeliani mentre il muro si snoda all’interno della Cisgiordania. ». Dal 1945, il Tribunale Internazionale di Giustizia è stato essenzialmente il mezzo giudiziario del sistema delle Nazioni Unite. Nel luglio 2004, il Tribunale ha dichiarato che la costruzione, da parte del governo israeliano, del muro di segregazione nei territori palestinesi occupati in Cisgiordania è illegale. Anche il Giudice americano Thomas Buergenthal, all’origine del solo voto contrario (giustificato unicamente dalla procedura), ha ammesso che i Palestinesi vivono sotto occupazione e hanno diritto all’autodeterminazione, che Israele è obbligato a seguire le leggi umanitarie internazionali e che ci si può legittimamente chiedere se la costruzione di una barriera invalicabile per proteggere le colonie della Cisgiordania sia una legittima difesa.

Il Tribunale ha riconosciuto ad Israele il diritto a proteggere la vita dei suoi cittadini costruendo una barriera di protezione all’interno delle proprie frontiere nazionali, ma lo ha considerato in modo negativo nella sua forma, riguardo al diritto internazionale e alla quarta convenzione di Ginevra che vietano ad una potenza occupante di trasferire popolazioni su terre conquistate con la forza militare. Il TPI ha intimato ad Israele di cessare la costruzione del muro, di smantellare quanto già costruito nelle zone al di là della frontiera israeliana internazionalmente riconosciuta e di risarcire i Palestinesi che hanno subito danni in seguito alla costruzione del muro. La Corte Suprema israeliana ha scelto di non accettare la decisione del Tribunale Internazionale, ma ha riconosciuto che Israele detiene la Cisgiordania in quanto « occupante belligerante » e che « la legge degli occupanti belligeranti...impone certe condizioni » alle autorità militari, compreso nelle zone considerate legate alla sicurezza. Il muro, lungo i suoi sinuosi percorsi, distrugge molti luoghi importanti per i Cristiani. Una di queste notevoli intrusioni accerchia la città di Betlemme, divide in maniera scandalosa la facciata sud del Monte degli Ulivi, uno dei luoghi preferiti da Gesù e dai suoi discepoli, e i pressi di Betania dove questi ultimi visitavano spesso Maria, Marta e il loro fratello Lazzaro. Vi è anche il Monastero di santa Marta, che prende il nome da una delle sue sorelle, del quale il muro di cemento attraversa la proprietà. Il luogo di culto si trova dalla parte di Gerusalemme e i fedeli ne sono separati, perché non possono ottenere dei permessi per entrare a Gerusalemme. Il suo parroco, padre Claudio Ghilardi, aggiunge : « Per novecento anni abbiamo vissuto sotto occupazione turca, britannica, giordana e israeliana, ma alle persone non è mai stato impedito di venire a pregare. È uno scandalo. Questa non è una barriera. È una frontiera. Perché non dicono la verità ? ».

Per rispondere all’argomento israeliano sulla necessità di costruire un muro che impedisca gli attentati suicidi palestinesi in Israele, padre Claudio fa il seguente commento :

« il Muro non separa i Palestinesi e gli Ebrei ; separa, piuttosto, i Palestinesi dai Palestinesi. » Lì vicino, vi sono tre conventi che presto saranno tagliati fuori dalle persone a cui servono. Quei 2 000 Cristiani hanno perduto il loro luogo di preghiera e il loro centro spirituale. Se il muro impedisce a 200 000 Palestinesi di Gerusalemme di accedere alle loro famiglie, alle loro proprietà, alle loro scuole e ai loro centri di lavoro, esso è concepito pure per completare l’accerchiamento di una Palestina gravemente mutilata. Una piccola parte della sua originaria dimensione, divisa in compartimenti, poi di nuovo divisa in cantoni, è occupata dalle forze di sicurezza israeliane e isolata dal resto del mondo. In più, viene costruita una rete particolare di autostrade attraverso quei frammenti della Cisgiordania per consentire di collegare il nuovo Grande Israele ad Occidente, con la valle del Giordano occupata, ad Oriente, dove vivono 7 000 Ebrei in 21 colonie fortemente protette in mezzi ai 50.000 Palestinesi ancora autorizzati a risiedervi. La parte lungo il fiume Giordano, ormai prevista come limite orientale dell’accerchiamento dei Palestinesi, è una delle zone palestinesi più ricche e più produttive dal punto di vista agricolo. La maggior parte dei suoi abitanti era stata cacciata nel 1967 e gli Israeliani non hanno autorizzato a ritornare quelle famiglie originarie. Le dogane israeliane conservano una lista dei nomi di tali famiglie e si preoccupano di impedire loro di attraversare le barriere internazionali per entrare nei territori occupati, dove potrebbero far valere i loro diritti sulle loro case e sulle loro terre.

Sembra evidente che non rimarrà alcun territorio tale da permettere ai Palestinesi di crearvi uno Stato vivibile, ma invece uno spazio completamente accerchiato dalla barriera e dalla valle del Giordano occupata. I Palestinesi non avranno alcun futuro possibile e quest’alternativa non sarà accettabile per la comunità internazionale. Le statuto di permanenza israeliano diverrà sempre più critico ed incerto, perché le persone oppresse e private dei loro diritti combatteranno l’oppressione, mentre la crescita demografica degli Ebrei diminuirà (se paragonata a quella degli Arabi) tanto all’interno di Israele che in Palestina. Questi fatti sono evidenti per la maggior parte degli Israeliani i quali pensano anche che si tratti di una deformazione dei loro valori. I recenti avvenimenti di Gaza e del Libano mostrano l’inevitabile montare della tensione e della violenza in Palestina e un accresciuto rancore e una maggiore animosità del mondo nei confronti di Israele e degli Stati Uniti.

Uno dei punti vulnerabili di Israele e una delle probabili cause di violenza è permanere di prigionieri. I militanti palestinesi e libanesi sanno che la cattura di un soldato israeliano o di un civile può servire sia da merce in uno scambio di prigionieri che da pretesto per un conflitto. Vi sono stati parecchi scambi di questo genere : 1 150 Palestinesi contro tre israeliani nel 1985 ; 123 Libanesi per i corpi di due soldati israeliani nel 1996 ; e 433 Palestinesi e altri contro un uomo d’affari israeliano e i corpi di tre soldati nel 2004.

Le organizzazioni internazionali dei diritti umanitari stimano che dal 1967 più di 630 000 Palestinesi (circa il 20% della popolazione totale) dei territori occupati siano stati detenuti, in un momento o nell’altro, dagli Israeliani, il che ha provocato vivo risentimento nelle famiglie di quei prigionieri. Benché la maggioranza dei prigionieri siano uomini, tra di loro vi è anche un gran numero di donne e di bambini. Trai dodici e i quattordici anni i ragazzini possono essere messi sotto accusa per un periodo fino a sei mesi e, dopo i quattordici anni, sono giudicati come adulti, in violazione del diritto internazionale.

In più periodi di incarcerazione, quelli preventivi possono essere piuttosto lunghi. La prevenzione può, secondo certe leggi israeliane, permettere di detenere un Palestinese a scopo interrogatorio per 180 giorni, durante i quali gli viene proibito di vedere un avvocato per periodi di 90 giorni. « Le detenzioni amministrative » sono indefinite e possono essere rinnovate secondo il regolamento militare. Le confessioni fatte sotto tortura sono ammesse dalle corti israeliane. In Cisgiordania, le persone accusate sono generalmente giudicate da tribunali militari e poi incarcerate in Israele. Ciò significa che le famiglie non hanno diritto di visita e non possono vedere gli avvocati nei periodi in cui la circolazione è difficile e limitata. La quarta convenzione di Ginevra condanna tale politica affermando : « Le persone accusate in custodia saranno detenute nel paese occupato e, se condannate, dovranno scontare lì la loro pena. ». Il ciclo di violenza è riemerso nel luglio 2006, quando dei Palestinesi hanno scavato un tunnel sotto la barriera che circonda Gaza, hanno attaccato alcuni soldati israeliani e catturato uno di loro. Hanno proposto di scambiare il soldato contro la liberazione di 95 donne e 313 bambini che figurano tra i circa 8 500 Palestinesi prigionieri nelle galere israeliane. Israele ha respinto tutti i negoziati e, per tentare di liberare il soldato e di fermare il lancio di razzi artigianali sul territorio israeliano, ha invaso una parte di Gaza, bombardando gli edifici del governo, distruggendo i ponti e l’impianto che fornisce l’elettricità e l’acqua. Vi sono state molte vittime e Gaza si è ritrovata ancor più isolata. Quando i capi di Hamas e di el Fatah hanno accettato, come simbolo della loro unione, una proposta del rispettato prigioniero palestinese Marwan Barghuti, Israele ha risposto arrestando 64 membri di Hamas in Cisgiordania, tra cui un terzo del Gabinetto ministeriale palestinese e 23 parlamentari. Gli ufficiali israeliani annunciavano che essi sarebbero rimasti in carcere finché i tribunali militari avessero deciso ulteriori sanzioni. Alla fine di agosto, si trovavano ancora in stato di arresto il primo ministro e altri sei membri del governo nonché trenta membri del parlamento, compreso il portavoce del parlamento Aziz Dweik. Proclamando il loro sostegno ai Palestinesi assediati, i militanti di Hezbollah, attestati in Libano, attaccavano in Israele degli automezzi di pattugliamento, uccidendo tre soldati e catturandone altri due. Il primo ministro Ehud Olmert annunciava che ciò corrispondeva ad una dichiarazione nazionale di guerra e imponeva un blocco marittimo per attaccare numerosi obiettivi su Beyruth e lungo tutta la frontiera meridionale del Libano. I capi di Hezbollah chiedevano la liberazione di prigionieri libanesi e il ritiro di Israele dalla rivendicata zona delle fattorie di Shebaa. Hezbollah lanciava poi una serie di razzi sulle città settentrionali di Israele.

Nel corso del primo mese di combattimento, oltre 800 civili rimanevano uccisi o dichiarati dispersi sotto le macerie e un milione – ossia un quarto della popolazione – doveva sfollare. Ventisette civili israeliani erano uccisi e un gran numero doveva abbandonare la propria casa nel nord di Israele vivendo nei rifugi per sfuggire ai bombardamenti di razzi di Hezbollah. Dalle due parti si verificava anche un numero imprecisato di vittime militari. Benché la maggioranza dei Libanesi condannasse la virulenza della provocazione di Hezbollah nel Libano meridionale, i capi della nazione formavano rapidamente un fronte unito in risposta agli attacchi israeliani. Il primo ministro libanese Fuad Siniora ripeteva senza posa che venisse stabilito un cessate il fuoco e chiedeva aiuti per il suo paese dicendo : « il paese è stato ridotto in frantumi. Il Libano merita di vivere. ». Commentando l’opposizione israelo-americana all’immediato cessate il fuoco, egli citava lo storico Tacito dell’antica Roma : « Hanno creato la desolazione e chiamano questo pace ». Saad Hariri, il cui padre era stato primo ministro e sarebbe stato assassinato da amici dei Siriani, urlava : « Che cosa fanno Israele e gli Stati Uniti ? Voi incoraggiate la democrazia e poi lasciate che venga distrutta. »

Questo ciclo di atti di provocazione da parte di militanti arabi e di risposte devastanti da parte di Israele mostra ancora una volta il permanere dei risentimenti che risultano dai conflitti non risolti nel Medio Oriente. La forza militare israeliana può, con il supporto e l’accordo degli Stati Uniti, distruggere l’economia di Gaza, del Libano o di altri paesi e produrre danni di grande portata. Ma, avvenuta la distruzione, i movimenti di guerriglia saranno sopravvissuti, saranno sempre più uniti e beneficeranno di un maggiore sostegno.

Un sondaggio effettuato tre settimane dopo i bombardamenti israeliani dal Centro di Ricerca e d’Informazione di Beyruth mostra che l’87% dei Libanesi sostiene Hezbollah. Questo comprende l’80% di Cristiani libanesi che, in generale, sono più favorevoli a Israele e politicamente opposti ai militanti musulmani.

Per cinque settimane, gli Stati Uniti hanno fortemente sostenuto Israele, incoraggiando il bombardamento del Libano, bloccando gli sforzi della Francia e di altri paesi per un immediato cessate il fuoco. Eppure i risultati di un tale percorso avrebbero potuto portare all’arresto dei combattimenti, al disarmo di Hezbollah, al ritiro delle forze israeliane dal Libano, comprese le fattorie di Shebaa, allo scambio di prigionieri e alla realizzazioni di una forza internazionale di interposizione. Alla fine, l’11 agosto, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato la risoluzione 1701, che prevede l’arresto dei combattimenti e lo schieramento al sud di una truppa di 15 000 Libanesi e di un equivalente numero di provenienza internazionale, mentre le forze di Hezbollah e quelle dell’esercito israeliano si ritireranno. Le questioni chiave sullo scambio di prigionieri, l’occupazione da parte di Israele delle fattorie di Shebaa e il disarmo di Hezbollah sono state rinviate, mentre Israele continua a saccheggiare i Palestinesi a Gaza. Mentre gli sguardi del mondo erano rivolti sul conflitto tra Israele ed il Libano, a Gaza venivano uccisi più di 200 Palestinesi, tra cui 44 bambini, mentre perdevano la vita tre soldati israeliani.

Quali sono state le ragioni e i risultati della guerra israelo-libanese ? Il conflitto è cominciato quando dei militanti di Hezbollah hanno attaccato due veicoli israeliani causando la morte di tre soldati e la cattura di altri due. Il loro fine annunciato era di sostenere i Palestinesi, bersaglio degli attacchi a Gaza, far ritirare le forze israeliane dai territori contesi e scambiare alcuni soldati catturati con prigionieri libanesi, come più volte accaduto in passato. Israele ha respinto tali richieste annunciando in maniera sorprendente di essere stato oggetto di un attacco dalla nazione libanese nel suo insieme. Di conseguenza, Israele ha lanciato un’offensiva aerea che ha colpito 7 000 bersagli in tutto il paese. Hezbollah ha risposto lanciando 4 000 razzi sul nord di Israele. Chi ha vinto e chi ha perduto ? Sebbene le due parti si siano dichiarate vincenti, sembra evidente che i grandi perdenti sono state le famiglie libanesi e israeliane le cui vite sono state prese con gli attacchi aerei, i lanci di missili e di razzi. Molti luoghi in Libano sono stati devastati. Molte voci si sono levate in Israele contro il governo per condannare tali distruzioni che alle fine non sono riuscite a sottomettere le forze di Hezbollah. I leader americani sono stati quasi universalmente condannati per aver incoraggiato e armato Israele e per aver rinviato un cessate il fuoco che avrebbe evitato una tale carneficina.

Benché inizialmente condannato dagli Stati arabi moderati, Hezbollah ha infine beneficiato del generale sostegno arabo e di una propaganda di vittoria per aver « difeso » il Libano, per aver fronteggiato gli attacchi aerei e terrestri di Israele e, infine, per aver fornito importanti somme di denaro per i risarcimenti. Secondo l’ex responsabile dei servizi segreti militari israeliani generale Yossi Kuperwasser, il responsabile di Hezbollah, lo sceicco Hassan Nasrallah, ha brillantemente giocato la carta dell’onore, così importante per la sensibilità degli Arabi e dei Musulmani. Secondo Kuperwasser, il suo fine era di «riconquistare la perduta fierezza...pronti a sacrificarsi e a soffrire ».

E’ tragico constatare che questo conflitto non è stato che un’altra ripetizione del ciclo di violenze legato all’assenza di una completa soluzione nel Medio Oriente, esacerbata da sei anni di assenza di sforzi per raggiungere il suo obiettivo. I temporanei cessate il fuoco e la presenza di forze internazionali nel Libano o in altri luoghi agitati non sono che dei «cerotti». Le radici del conflitto - l’occupazione di terre arabe, il pessimo trattamento inflitto alle popolazioni palestinesi e l’accettazione di Israele nelle sue frontiere legali – devono ancora essere trattate. Infatti, in settembre, il Primo Ministro israeliano Ehud Olmert ha autorizzato la costruzione di 690 nuove abitazioni nei territori occupati, malgrado le critiche della Casa Biamca e dei leader del proprio governo. Egli ha pure respinto un’offerta del Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan per negoziare uno scambio di prigionieri.

I responsabili delle due parti ignorano la voce della maggioranza che desidera la pace, lasciando spazio agli estremisti per distruggere violentemente ogni consenso politico. Uno degli ostacoli nella ricerca di progredire sta nella politica estera adottata da Washington la quale ritiene che il dialogo sulle questioni in sospeso sia un privilegio che non può essere accordato che come ricompensa per un atteggiamento servile, il che implica che non viene concesso a quelli che respingono le richieste americane. Saranno necessari degli impegni diretti con il leader palestinese Mahmud Abbas e con i responsabili del governo siriano se vogliamo trovare delle soluzioni negoziate. Evitare di rispondere alle reali questioni e non associarvi i responsabili chiave rischia di ingrandire il campo d’instabilità da Gerusalemme a Beyruth, passando per Damasco, Bagdad e Teheran. Uno studio realizzato dal Progetto degli Atteggiamenti Globali Pew e pubblicato lo scorso giugno ha messo in luce il fatto che i Musulmani hanno un’opinione degli Stati occidentali che si degrada in modo preoccupante. Per loro, la questione del conflitto israelo-palestinese è una delle cause principali del fallimento di una soluzione in un contesto di conflitto mondiale. Si sono potuti notare mutamenti notevoli e promettenti con l’adozione, e questo malgrado il conflitto in Libano, tra i responsabili di el Fatah, di Hamas e di altri piccoli gruppi del « Documento di Conciliazione Nazionale » elaborato da Marwan Barghuti e da altri prigionieri palestinesi. Vi sono grandi speranze che questo documento serve da base a un governo di unione nazionale che comprenderà rappresentanti dei gruppi maggioritari che rispettino tutti le clausole che la comunità internazionale esige per togliere l’embargo imposto al popolo palestinese. Questo comprenderebbe l’accettazione di una soluzione a due Stati, il riconoscimento dello Stato di Israele e un cessate il fuoco a lungo termine da parte di Hamas e lo stesso per Israele. Il Primo ministro di Hamas, Ismail Haniyeh, ha affermato in giugno : « Noi siamo d’accordo per uno Stato palestinese sovrano su tutte le nostre terre all’interno delle frontiere del 1967, per una vita in pace. ».


Dalla versione francese di Sandrine Mansour