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La fine del Paradiso. Gli indigeni e il mutamento climatico

di Wolfgang Mayr - 26/04/2007

Fonte: gfbv

 

Pescatore dell'isola di Baffin Il cambio climatico provocato dai paesi industrializzati e dal boom dei paesi emergenti (Brasile, Sud Africa, Messico, India e Cina) ha conseguenze distruttive per le regioni indigene del mondo, indipendentemente da frontiere geografiche e politiche. 27 miliardi di tonnellate di CO2 fuoriescono dalle ciminiere industriali, dai tubi di scappamento e dagli impianti di riscaldamento di tutto il mondo e danneggiano a lungo termine i sistemi climatici e, come si legge sulle pagine economiche di "Die Zeit" dei primi di agosto 2006, "i danni non sono riparabili". Nonostante le conoscenze ottenute dalla ricerca e dalle conferenze climatiche, le emissioni sono oggi un quarto in più rispetto a 15 anni fa. Allora fu fondata l'Alleanza per il clima, che siglava l'intento congiunto delle città dell'Europa occidentale e degli Indigeni dell'Amazzonia di fermare l'effetto serra.

Attualmente non si intravede nessuna inversione di tendenza, al contrario. Secondo le stime di diverse agenzie internazionali per l'energia, entro il 2030 le emissioni di anidride carbonica aumenteranno fino a raggiungere i 38 miliardi di tonnellate annue. Le prime drammatiche conseguenze di questo sviluppo sono già evidenti: i ghiacciai diminuiscono perché i loro "ghiacci eterni" si stanno sciogliendo, i banchi di ghiaccio di Artide, Antartide e della Groenlandia si assottigliano (attualmente i ghiacciai montani diminuiscono di 50 cm annui, il doppio rispetto al 1980), i venti tropicali si trasformano in violente tempeste alluvionali (nascono con temperature marine di 27 gradi, più sono caldi i mari maggiore è la forza distruttrice delle tempeste), mentre in Africa e in Asia centrale la terra si inaridisce per la progressiva mancanza di acqua (sostenuta anche dall'intensivo allevamento di bestiame: per produrre un chilo di carne ci vogliono 10.000 litri di acqua). La cronica mancanza di acqua colpisce ormai un terzo della popolazione mondiale. Il mondo diventa sempre più inospitale e invivibile e a milioni di persone viene sottratta la propria base vitale. Secondo la United Nations University di Bonn è prevedibile che nel 2010 ca. 50 milioni di persone tenteranno di lasciare il proprio paese per sfuggire alla distruzione ambientale.

Anche gli ultimi territori indigeni sono minacciati. Gli Inuit della Groenlandia, del Canada e degli USA, i Sami scandinavi e i "piccoli popoli" della Siberia devono prendere atto, impotenti, del lento ma inesorabile scongelarsi del permafrost. Lo scongelamento del permafrost libera il metano contenuto nel terreno, cioè uno dei gas che contribuisce all'effetto serra. La frenesia con cui l'economia di questi paesi rincorre lo sfruttamento delle risorse contribuisce ad accelerare le devastazioni ambientali. Se il freddo nord era una terra difficile, il cambio climatico lo ha reso semplicemente invivibile.

La situazione non cambia nel caso delle foreste in costante diminuzione, che siano quelle dell'Amazzonia, del Congo o del sudest asiatico, tutte accomunate anche dalla forte presenza di popolazioni indigene. Il britannico Hadley Center teme che il previsto riscaldamento terrestre, che in cento anni è aumentato di 0,8 gradi ma che potrebbero diventare sei e più nei prossimi anni, possa causare la morte di ogni forma di vita delle foreste. La scarsità di acqua si fa sentire anche nelle foreste tropicali, e prima o poi mancherà del tutto. La moria delle foreste libera ossido di carbonio che a sua volta contribuisce ad aumentare la temperatura terrestre.

Sappiamo già che le regioni della Savana, anch'esse abitate da popolazioni indigene, si trasformeranno in deserti. Le elevate temperature e la mancanza d'acqua hanno già dato inizio alla scomparsa di piante e addirittura di alberi. L'economia locale, basata sull'agricoltura, lamenta una perdita dei raccolti del 30% e ne risulta direttamente minacciata la sussistenza dei contadini. Dopo una serie di incidenti mortali i cacciatori dell'Artico hanno dovuto constatare l'impossibilità di continuare a vivere della caccia. I sentieri di caccia attraversano i banchi di ghiaccio che, assottigliandosi, non reggono più il peso delle persone. Il leggero aumento della temperatura permette alla Gronlandia con i suoi 2,5 milioni di km3 di ghiaccio, spessi fino a 3.400 m, di coltivare patate e broccoli nelle baie riparate. Verso fino agosto "Der Spiegel" riportava il programma agricolo del governo provinciale groenlandese, reso possibile dal cambio climatico. Secondo "Der Spiegel" le temperatura in Groenlandia sta aumentando al doppio della velocità rispetto al resto d'Europa, tant'è che lo scorso anno si sono sciolti più di 200 m3 di ghiaccio. "Der Spiegel" infine cita Kenneth Hoegh, consigliere agricolo del governo groenlandese, secondo il quale la fase di crescita in Groenlandia è ormai lunga quanto quella dell'arco alpino ad un'altezza di 1.500 m.

Il noto Protocollo di Kyoto era il tentativo dell'ONU di fermare il cambio climatico. I risultati finora sono stati più che scarsi. Nonostante tutti i paesi europei abbiano responsabilmente annunciato la diminuzione delle emissioni a effetto serra e, a differenza dei "cattivi" Stati Uniti abbiano ratificato il Protocollo, è cambiato davvero poco. Nella liberale era di Clinton, i Repubblicani sono da un lato riusciti a far passare inosservato il Protocollo di Kyoto negli USA e dall'altro sono però risultate fondate le loro preoccupazioni per i cosiddetti paesi emergenti. La Cina comunista continua a scaldare a carbone mentre il Brasile, come altri paesi emergenti, continua a ignorare i vincoli ambientali che tra l'altro andrebbero a vantaggio soprattutto della popolazione. L'India, l'Australia, il Canada e la Russia rifiutano una politica climatica e riescono con successo a ostacolare qualsiasi politica ambientale che possa fermare la distruzione ambientale.

Nel frattempo hanno iniziato ad arrivare segnali positivi dagli USA: riscuote attenzione la campagna a favore del clima dell'ex vicepresidente Al Gore mentre nella California del governatore repubblicano Arnold Schwarzenegger una disposizione prevede la diminuzione entro il 2020 del 25% delle emissioni a effetto serra. Obiettivo questo a cui saranno tenuti a collaborare anche i produttori di automobili. Undici stati federali hanno annunciato di voler intraprendere passi verso una politica climatica e 21 stati federali hanno già emanato leggi che incentivano l'utilizzo di forme di energia pulita. Oltre 200 sindaci intendono applicare il Protocollo di Kyoto a livello comunale. Servono a poco le accuse dell'ambientalista indiana Sunita Narain del Centre for Science and Environment di Nuova Delhi secondo la quale gli unici responsabili del cambio climatico sono i paesi del nord del mondo. La sua critica risparmia la Cina e l'India, in rappresentanza di tutti quei paesi economicamente emergenti del sud del mondo. A ragione Narain chiede che le risorse siano distribuite in modo equo, ma né la Cina né l'India costituiscono esempi da seguire in tal senso. Come tutti, anche questi due paesi ignorano le richieste legittime soprattutto delle popolazioni indigene e ne violano i diritti. Entrambi i paesi puntano su una crescita veloce e libera da vincoli ambientali e si ergono a esempio di molti altri paesi del sud del mondo.

La fame energetica cresce di anno in anno. Nonostante lo sfruttamento selvaggio, la terra ha ancora sufficienti riserve di olio, gas e carbone, soprattutto nelle più isolate regioni dei popoli indigeni. Quando l'umanità inizierà a consumare anche queste risorse energetiche, altri 18.000 miliardi di tonnellate di CO2 entreranno nell'atmosfera. La fine di ogni paradiso ancora rimasto.

Indigeni / Artico
Mondo bianco sporco - Le prime vittime del cambio climatico [ su ]

Sarah Reinke e Kerstin Veigt

Pescatore dell'isola di Baffin Il cambio climatico mette a repentaglio i popoli indigeni dell'Artico che rischiano la distruzione e il saccheggio delle loro risorse. Le gravi conseguenze del cambio climatico si ripercuotono già oggi sulla vita degli Inuit, Evenchi, Yakuti, Nenet e di altri popoli. Ora anche i governi occidentali, gruppi petroliferi e industriali vogliono approfittare del cambiamento climatico per sfruttare economicamente i territori polari. Questo distruggerebbe sistematicamente ogni fondamento di vita della popolazione indigena e rappresenterebbe un colpo di grazia per oltre 400.000 indigeni dell'Artico. A più di dieci anni dall'inizio del decennio internazionale per popoli indigeni proclamato dalle Nazioni Unite, l'incombente saccheggio dell'Artico dimostra che la comunità internazionale non ha voluto imparare niente dalle pesanti conseguenze dello sfruttamento delle risorse naturali per i popoli indigeni dell'Amazzonia.

Secondo diverse stime, nell'Artico si trova circa un quarto delle risorse petrolifere e di gas metano mondiali ancora da sfruttare. Così nel nord della Norvegia, a Hammerfest, è in costruzione un impianto per la liquefazione del metano, in modo da poter esportare il metano del Mare di Barent negli USA e in altri stati. La Russia sta esplorando un gigantesco giacimento di metano nel nord della penisola di Kola grazie al sostegno di grandi gruppi imprenditoriali del settore energetico francesi, statunitensi e norvegesi. La Cina, sempre affamata di energia, ha istituito una stazione di ricerca a Spitzbergen, in Norvegia. Il governo degli USA esplora nuovi giacimenti petroliferi nel nord dell'Alaska senza alcun riguardo né per le popolazioni indigene né per il delicato equilibrio ecologico del territorio. Di fatto, tutti i grandi gruppi petroliferi internazionali stanno valutando possibili investimenti nella regione polare.

È anche preoccupante che i paesi vicini vogliano estendere i loro territori nazionali per assicurarsi il controllo di possibili giacimenti. Secondo la Convenzione internazionale marina, l'appartenenza territoriale di un'area marina si determina a partire dall'estensione dello zoccolo continentale. Visto il progressivo scioglimento dei ghiacci e il conseguente affiorare di terra ferma, Russia, USA, Danimarca e Canada hanno già avviato le misurazioni dello zoccolo continentale in modo da poter reclamare i propri presunti diritti su futuri territori nuovi. La Russia si è addirittura azzardata a dichiarare metà del territorio artico come parte del proprio territorio nazionale. Oltre alle risorse naturali, ai paesi limitrofi interessano anche la vasta presenza di pesci e granchi e la possibilità di aprire nuove vie navigabili nel nord del Canada e della Russia, che, libere da ghiaccio, renderebbero il trasporto di merci meno costoso e più veloce.

Gli interventi umani nell'ambiente artico sono quindi molteplici e minacciano in diversi modi la sopravvivenza dei popoli artici. Il cambiamento climatico non deve essere sfruttato per saccheggiare le risorse artiche, recita l'appello dell'APM al Consiglio Artico, riunitosi a Potsdam nel marzo 2006 per decidere sull'Anno Internazionale Polare 2007/2008. Il Consiglio Artico è un'organizzazione interstatale, costituito dagli otto paesi limitrofi dell'Artico e dai rappresentanti dei popoli indigeni della regione polare.

Nella regione artica il cambiamento climatico avviene dalle due alle tre volte più velocemente che nella media globale. Provoca lo scioglimento dei cosiddetti ghiacci eterni e trasforma irrimediabilmente le condizioni di vita delle persone, la flora e la fauna. I popoli indigeni dell'Artico sono i primi a subire le conseguenze dirette e indirette della politica petrolifera globale.

L'estrazione spietata di petrolio e metano

La Germania riceve il 30% delle sue 35 milioni di tonnellate di petrolio importato e il 40% dei 35 miliardi di metri cubi di metano dalla Russia, e precisamente dalle regioni nelle quale vivono le popolazioni indigene. Le conseguenze dell'estrazione di petrolio e gas metano nelle regioni indigene della Siberia a partire dagli anni '60 sono le terre inquinate, laghi e fiumi avvelenati e inquinamento atmosferico dovuto dalla combustione dei gas secondari. A causa della distruzione ambientale molte persone hanno dovuto abbandonare il loro stile di vita tradizionale, le conseguenze sono state il diffondersi di alcolismo e disoccupazione. Sono inoltre aumentate le malattie come la tubercolosi e il cancro e la speranza di vita è di circa 20 anni inferiore alla media russa.

Tuttora si stanno esplorando nuovi territori da rendere accessibili all'estrazione di petrolio e di gas metano. Il progetto minaccia direttamente la vita di circa 3.500 Nivci, Evenchi, Nanai, Orochi dell'isola di Sakhalin: è prevista la costruzione di un oleodotto dal sud al nord dell'isola che nel suo percorso attraverserebbe 1.103 fiumi e ruscelli e i pascoli delle renne. Trattandosi di un territorio a forte rischio sismico c'è il pericolo concreto di danni all'oleodotto, e qualsiasi incidente o fuga di petrolio avrebbe conseguenze catastrofiche per il delicato sistema ecologico.

Il cambio climatico distrugge il sistema di vita tradizionale

I popoli indigeni di tre continenti - dai Sami in Lapponia agli Evenchi in Siberia, dagli Yup'ik e Gwich'in in Alaska agli Inuit in Groenlandia - subiscono quotidianamente le conseguenze del cambiamento climatico. Sono minacciati nel loro diritto alla salute, a procurarsi il cibo e a vivere secondo la propria cultura. Risulta minacciata la sicurezza delle loro abitazioni e la loro stessa incolumità fisica. Molti muoiono semplicemente percorrendo le abituali vie sui ghiacci che, con gli inverni più corti e più caldi, si sono assottigliati e non reggono più il peso delle persone. L'erosione costiera e l'intensità inusuale delle tempesta ha costretto interi villaggi a trasferirsi altrove. Se le nazioni industriali non si decidono ad adottare finalmente delle politiche energetiche responsabili e coerenti e non ridurranno le emissioni di anidride carbonica, allora agli abitanti della regione artica vedranno letteralmente sciogliersi il suolo sotto i piedi.

La regione artica tramite i paesi del circolo polare (Norvegia, Svezia, Finlandia, Islanda, Canada, Russia, Danimarca e USA) conta una popolazione complessiva di quasi quattro milioni di persone, di cui circa 400.000 appartengono a più di 30 popoli indigeni quali i Sami in Lapponia, gli Inuit in Groenlandia, i Gwich'in, gli Athabasken e gli Yup'ik in Alaska o gli Evenchi in Siberia. I popoli indigeni hanno una precisa conoscenza del loro territorio e sanno bene che sotto il ghiaccio non sempre c'è terra, ma spesso si nasconde l'Oceano artico. Attualmente i popoli indigeni dell'intera regione artica sono seriamente preoccupati per i drastici cambiamenti dell'ambiente e delle condizioni climatiche osservati.

Da decenni ormai le popolazioni indigene artiche si oppongono all'estrazione di gas e petrolio sul loro territorio e soprattutto alle conseguenze dell'estrazione per l'ambiente e la loro salute. Ora le conseguenze delle attività petrolifere e industriali obbligano le popolazioni indigene ad affrontare delle sfide esistenziali mai conosciute prime. Per generazioni queste popolazioni hanno saputo adattarsi perfettamente a un ambiente estremo, ma adattarsi alle nuove condizioni climatiche è difficile se non impossibile, sia per la velocità del mutamento in corso, sia perché contrappone i popoli indigeni ai complicati rapporti di potere a livello globale. Per le popolazioni indigene il cambio climatico rappresenta una vera e propria violazione dei diritti umani che irrompe in ogni settore della loro vita e distrugge loro la base per la sopravvivenza.

Attivi contro il cambio climatico

Se i paesi industrializzati non si decidono a cambiare in modo coerente e responsabile la loro politica energetica e a ridurre le loro emissioni di anidride carbonica, il suolo artico si scioglierà sotto i piedi delle persone.

Dai Sami della Lapponia agli Evenki in Siberia, dagli Yup'ik e Gwich'in dell'Alaska fino agli Inuit della Groenlandia, i popoli indigeni di tre continenti lottano insieme per fermare la minaccia del cambio climatico. Organizzazioni quali la Inuit Circumpolar Conference, il Saami Council, la RAIPON russa oppure l'Inuit Tapiriit Kanatami continuano a sensibilizzare l'opinione pubblica mondiale sulla minaccia che incombe sui popoli indigeni dell'Artico. Nel maggio 2005 i delegati di diversi popoli indigeni hanno visitato l'UE a Bruxelles per chiedere ai paesi europei di impegnarsi contro il cambio climatico e di sostenere i popoli artici nella loro lotta. La presidentessa della Inuit Circumpolar Conference, Sheila Watt-Cloutier, sottolinea il fatto che gli Inuit non si considerano affatto delle vittime impotenti. Infatti Sheila Watt-Cloutier continua a parlare ai grandi attori internazionali e a chiedere una politica climatica cosciente e maggiore potere per i popoli indigeni in tutti i processi decisionali politici.

Durante la Conferenza per il Clima dell'ONU a Montreal nel 2005 (28 novembre - 9 dicembre) gli Inuit hanno consegnato alla Commissione Interamericana per i Diritti Umani (IACHR) una petizione firmata da 63 Inuit del Canada e dell'Alaska nella quale essi accusano esplicitamente gli USA di essere i principali responsabili dei disastri climatici mondiali. Gli USA infatti sono i responsabili del 25% delle emissioni mondiali di gas nocivi, si rifiutano di firmare il protocollo di Kyoto nonché di prendere altre misure atte a limitare gli effetti del cambio climatico. Alla Commissione Interamericana per i Diritti Umani gli Inuit chiedono anche sostegno per difendersi contro le violazioni dei diritti umani commesse dagli USA con il loro rifiuto di fermare il cambio climatico. Gli Inuit chiedono alla Commissione di indagare sulle conseguenze del cambio climatico per la popolazione degli Inuit e di stabilire quindi se la politica climatica del governo USA leda la "American Declaration on the Rights and Duties of Man" e altri accordi internazionali di diritto dei popoli. In questo modo gli Inuit cercano di convincere gli USA a cooperare finalmente con la Comunità Internazionale e a ridurre velocemente ed efficacemente i loro gas serra nei limiti previsti dalla Convenzione quadro sul Clima dell'ONU. La cultura e le risorse degli Inuit devono essere tutelati da un programma che inquadri la tutela della terra, dell'acqua, della neve, della flora e della fauna. Gli USA dovrebbero infine impegnarsi a collaborare con gli Inuit per evitare tutti i danni irreversibili.

"Questa petizione non ha a che fare con il denaro", specifica la presidentessa Sheila Watt-Cloutier , "si tratta invece di incoraggiare gli Stati Uniti a seguire la Comunità Internazionale e a impegnarsi per una forte diminuzione dei gas a effetto serra, com'è di fatto necessario per la sopravvivenza dell'ambiente artico e della cultura degli Inuit, e, in ultima analisi, per tutto il globo terrestre. ... Non presentiamo questa petizione con l'intenzione di giungere a un confronto, non è questo il modo di fare degli Inuit, ma con la speranza di ottenere un dialogo con gli USA nell'ambito della Convenzione per il Clima. ... Invito gli USA a rispondere in modo positivo alla nostra petizione, e invito le organizzazioni governative e non-governative di tutto il mondo a sostenere la nostra petizione e a non dimenticare che il cambio climatico riguarda di fatto i diritti umani."

Nonostante i popoli indigeni artici siano le prime vittime del cambio climatico e anche le vittime maggiormente colpite, essi sono però coloro che meno responsabilità hanno nel determinarne le cause. I popoli indigeni artici hanno troppo poco potere per poter influire sulle cause e i processi che determinano il cambio climatico e le sue conseguenze, ormai drammaticamente visibili, e sono perlopiù esclusi da tutti i processi decisionali importanti.

Fonte: www.gfbv.de/dossier.php?id=32

Strade e abitazioni distrutte

Ciò che una volta erano vie sicure che attraverso il ghiaccio collegavano tra di loro diversi comuni e territori di caccia, oggi sono diventate strade pericolose, segnate da spaccature nel ghiaccio e superfici troppo sottili per essere percorse. Nella regione autonoma canadese del Nunavut si sono già verificati i primi morti tra gli Inuit sprofondati nell'acqua gelida durante la caccia e la pesca a causa dello strato di ghiaccio divenuto troppo sottile.

Per i 600 Inupiat di Shishmaref (Alaska) il suolo che nel vero senso della parola si scioglie sotto i piedi è già realtà e sono costretti ad abbandonare l'isola al largo delle coste dell'Alaska settentrionale, abitata da oltre 4.000 anni. Il costante aumento delle temperature a Shishmaref ha causato la comparsa di tempeste marine e un'inarrestabile erosione delle coste. Lo scioglimento dei ghiacci e il disgelo del permafrost ha causato la distruzione di abitazioni, condutture dell'acqua e di altre infrastrutture. Molte case hanno dovuto essere trasferite verso l'interno dell'isola e un villaggio è stato in parte travolto e spazzato via da una tempesta. In Alaska altre 184 comunità sono in pericolo a causa dell'erosione e delle inondazioni.

Deterioramento della base alimentare

Come in altre zone artiche, anche gli abitanti di Shishmaref sono preoccupati per il proprio approvvigionamento. Lo scioglimento dei ghiacci marini impedisce loro di raggiungere la terraferma dove cacciavano alci e caribù per il proprio sostentamento. Il golfo si è ormai trasformato in un mare aperto. Ma non è solo l'accesso al cibo a preoccupare i popoli indigeni che vivono della caccia, pesca, della raccolta e dell'allevamento di renne. In seguito alle nuove condizioni climatiche molti animali hanno cambiato le proprie abitudini e itinerari. Le greggi diminuiscono e rischiano progressivamente l'estinzione. Diminuiscono anche le fonti alimentari vegetali visto che alcune piante e bacche non si adattano alle nuove condizioni climatiche. Sono comparse nuove specie di insetti, pesci e uccelli, prima sconosciuti nella zona. In cambio sono a rischio d'estinzione le foche, gli orsi polari e i trichechi. Con il progressivo sciogliersi del ghiaccio, il loro habitat si riduce sempre più.

Identità culturale minacciata

Il mondo animale e il mondo vegetale non forniscono unicamente alimenti, ma costituiscono anche la base dell'identità sociale, culturale e spirituale delle popolazioni indigene. Tutte le feste, cerimonie, mitologie e tradizioni rispecchiano il significato che l'ambiente artico riveste per i suoi abitanti. Per questo il cambiamento climatico minaccia anche la sopravvivenza culturale dei popoli artici, per i quali il cambio climatico viola gravemente il loro diritto a poter scegliere autonomamente il proprio stile di vita.

Deterioramento sanitario

Il deterioramento della catena alimentare ha comportato un cambiamento del regime alimentare e una progressiva insufficienza alimentare, che a loro volta hanno portato all'aumento di malattie tra le popolazioni indigene. Il sole e i raggi UVA giungono provocando scottature e malattie della pelle prima sconosciute. L'aumento della temperatura ha anche reso possibile il diffondersi di nuove malattie infettive.

Via libera da Spitzbergen al Polo Nord

Lo scioglimento dei ghiacci artici assume dimensioni sempre più preoccupanti. Le fotografie satellitari di fine agosto 2006 convincono l'organizzazione spaziale europea ESA a parlare di prime "drammatiche aperture" in quelli che si credevano gli eterni ghiacci del Nord. Gli scienziati sono esterrefatti: le crepe nella banchisa si estendono per un'area maggiore delle Isole Britanniche. "E' pensabile che una nave possa tranquillamente navigare da Spitzbergen in Norvegia o dalla Siberia settentrionale fino al Polo Nord attraversando una zona che dovrebbe esser coperta da ghiaccio eterno", ha dichiarato l'esperto marino dell'ESA Mark Drinkwater. Lo scienziato sottolinea che si tratta di un fenomeno mai visto negli ultimi decenni. Con l'inizio dell'autunno artico in settembre le crepe nel ghiaccio si sono, per ora, richiuse.

Verso metà settembre anche gli scienziati statunitensi hanno dato l'allarme a causa del veloce sciogliersi dei cosiddetti ghiacci permanenti dell'Artide. Gli scienziati ora temono una spirale di riscaldamento climatico nel nord. Secondo gli scienziati USA tra il 2004 e il 2005 si sono sciolti circa 720.000 km2 di ghiaccio, che corrispondono a un settimo del ghiaccio permanente e all'incirca alla grandezza dello stato americano del Texas. Nel settembre 2005 il ghiaccio artico aveva raggiunto il livello più basso mai registrato dal 1978, quando si iniziò a lavorare con le riprese satellitari.

Lo scioglimento dei ghiacci riguarda soprattutto l'Oceano artico orientale, il Mare glaciale artico orientale, al di sopra dell'Europa e dell'Asia. Per Drinkwater, "se continuasse questa tendenza anomala, il passaggio a nordest tra l'Europa e l'Asia potrebbe restare aperto per diverso tempo e si può ipotizzare che tra dieci o vent'anni sia possibile circumnavigare il mondo passando in estate attraverso il Mare artico." Lo scioglimento dei ghiacci causato dall'effetto serra e dal riscaldamento terrestre preoccupa gli scienziati perché va a influenzare direttamente la corrente del golfo che a sua volta è responsabile del clima moderato di ampie zone dell'Europa occidentale. Lo scioglimento dei ghiacci non solo minaccia la sopravvivenza di animali come l'orso polare e la foca, il cui ciclo vitale dipende dal ghiaccio, ma comporta anche conseguenze di natura geopolitica. Canada, Russia e USA rivendicano già, ognuno per sé, i diritti su un futuro passaggio attraverso il Polo Nord.

Fonte: APA, 20 settembre 2006.

Siberia
Tragedia per gli Amur Evenchi, successi per i popoli indigeni di Sakhalin [ su ]

Sarah Reinke

Accampamento di allevatori di renne Ciukci Nel corso del 2006 l'Associazione per i Popoli Minacciati (APM) ha continuato a ricevere notizie contrastanti dalla Siberia. Mentre le proteste delle popolazioni indigene di Sakhalin contro il progetto petrolifero Sakhalin II possono segnare alcuni primi successi, la situazione delle altre popolazioni della regione è preoccupante, in particolare quella degli Amur Evenchi.

Dei 35.527 Evenchi distribuiti in tutta la Russia (censimento 2002), 1.501 vivono nella provincia di Amur. La maggior parte vive dell'allevamento di renne. Nella primavera 2005 Elena Kolesova, presidente dell'associazione dei gruppi indigeni della regione di Amur, si è rivolta per la prima volta all'associazione RAIPON per raccontare le violazioni dei diritti dei gruppi indigeni commesse nella sua regione da parte dei boscaioli, cercatori d'oro, operai impegnati nella costruzione di strade e da parte dell'amministrazione locale. "Nel 2000 è iniziata la costruzione della strada Umnak-Elga, che attraversa proprio la nostra terra. In seguito sono arrivati i tagliaboschi, i cacciatori di frodo e i cercatori d'oro. Nel 2002 i lavori di costruzione della strada sono stati interrotti, ma ciò nonostante è stato costruito un centro commerciale nel bel mezzo della nostra terra, proprio là dove le renne femmine si ritiravano per partorire. I nostri allevatori hanno tentato di condurre gli animali in un altro luogo, ma non ci sono riusciti. Poi i boscaioli hanno iniziato a sparare agli animali. La prima volta hanno ucciso 8 renne, la volta successiva erano già 14. Quando abbiamo tentato di richiamarli alle loro responsabilità ci hanno semplicemente risposto che non si erano accorti che si trattava di renne addomesticate. Le nostre renne però sono tutte segnate da campane al collo e nastri colorati, ma soprattutto i boscaioli non posseggono licenze di caccia."

Dopo questo primo confronto tra gli indigeni e i boscaioli, questi ultimi hanno iniziato a minacciare l'allevatore di renne a cui avevano ucciso gli animali. Le vessazioni hanno continuato finché Vadim, l'allevatore, non si è suicidato. Da quando sono arrivati gli stranieri sono morti molti allevatori. Prima c'erano grandi mandrie e 22 giovani allevatori. Nessuno di loro è rimasto. Il marito di Elena Kolesova è morto d'infarto. Aveva avuto un primo infarto quando la polizia ha fatto irruzione in casa alla ricerca di non si sa che cosa, dopo che Elena aveva iniziato a scrivere lettere di protesta alle autorità. Le autorità stesse hanno più volte minacciato Elena. Suo figlio maggiore si è suicidato nell'inverno 2005 lasciando la moglie e una figlia, e il figlio minore ha subito un processo irregolare che si è concluso con una condanna a 10 anni di reclusione. Durante una visita di Elena a sua figlio in carcere, questo le ha detto che la severità della condanna era dovuta in primo luogo all'impegno di Elena a favore dei diritti degli Amur Evenchi. Altri giovani allevatori si sono suicidati o sono morti per avvelenamento da alcol e di malattie.

Anche Arkadij Ochlopov, presidente dell'associazione "Aborigen" del distretto Selemdzhin nella regione di Amur, si è rivolto con appelli urgenti all'opinione pubblica. Egli accusa i cercatori d'oro di trasformare i pascoli degli allevatori di renne in deserti. Gli Evenchi, disperati e defraudati della loro base esistenziale, hanno minacciato il suicidio collettivo. Arkadij Ochlopov stesso è disposto a sacrificare la sua vita per aiutare gli Evenchi. L'associazione di raccolta dei popoli indigeni RAIPON ha finora tentato di aiutare gli Evenchi spedendo lettere di protesta alle autorità competenti. Il prossimo passo sarà l'invio nella regione di un giurista competente per verificare e documentare gli abusi compiuti.

Che la resistenza possa comportare cambiamenti positivi è invece l'esperienza fatta dai gruppi indigeni dell'isola di Sakhalin, nell'estremo est della Federazione russa. A Sakhalin confluiscono i maggiori investimenti del settore petrolifero. Le proteste della popolazione indigena sono iniziate in gennaio 2005 e si rivolgono soprattutto contro il progetto Sakhalin II che prevede la costruzione di un oleodotto dal sud al nord dell'isola. Per i gruppi indigeni, diretti dal presidente del Consiglio dei Popoli Indigeni di Sakhalin Aleksej Limanso, era chiaro fin dall'inizio che non sarebbero riusciti a impedire la costruzione dell'oleodotto. Le proteste dei gruppi indigeni, sostenute a livello internazionale da Greenpeace, dal WWF e ovviamente dall'APM, hanno comportato che i rappresentanti del Consorzio Sachalin Energy, il cui azionario maggioritario è la Shell britannica, dovessero prendere in seria considerazione la popolazione indigena. Dopo una serie di colloqui è stato organizzato, dal 26 al 30 maggio 2006, un seminario a Mosca, dal titolo "Tutela dei diritti delle popolazioni indigene di Sakhalin e sfruttamento industriale di territori tradizionali". Al seminario hanno partecipato i rappresentanti del consorzio, dei gruppi indigeni e osservatori internazionali. Parallelamente al seminario è stato avviato un programma di sviluppo per la popolazione indigena di Sakhalin, il cui obiettivo è di minimizzare le conseguenze negative dovute al progetto Sakhalin II e contribuire al benessere della popolazione indigena.

Il consorzio Sakhalin Energy, il Consiglio dei Popoli Indigeni e l'amministrazione politica di Sakhalin hanno firmato un accordo, secondo il quale Sakhalin Energy investirà 300.000 dollari USA in progetti sociali. La realizzazione di questi progetti sarà supervisionata da un comitato a maggioranza indigena. Precedentemente, in marzo, vi era stata a Mosca un'udienza sulla questione Sakhalin, a cui avevano partecipato ONG e finanziatori quali la Banca Europea per la Ricostruzione, e altri. Era importante riconoscere che il programma di sviluppo adottato non è un intervento caritatevole da parte di Sakhalin Energy, ma è invece un intervento previsto dalla legislazione russa e internazionale che avrebbe dovuto essere intrapreso già all'inizio dei lavori per Sakhalin II.

Maggiori informazioni attuali sulla situazione in Siberia nella nuova edizione dell'Ansipra Bulletin (www.npolar.no/ansipra/english/index.html).

Il diritto al freddo
Il cambio climatico come violazione di un diritto umano. Le conseguenze per i popoli indigeni [ su ]

Theodor Rathgeber

Siberia: la minaccia all'ecosistema è anche una minaccia della cultura Nel 2004 e 2005 Françoise Hampson, esperta della sottocommissione ONU per la tutela dei diritti umani e membro del gruppo di lavoro dell'ONU per i popoli indigeni (WGIP), ha presentato un rapporto sulle popolazioni indigene che si trovano a lottare per la propria sopravvivenza a causa dei cambiamenti climatici e dell'ambiente. Françoise Hampson riferisce di terre indigene in procinto di scomparire e di popoli cacciati dalla propria terra oppure costretti a lasciarla in seguito a emergenze ambientali. Questi cambiamenti ambientali così incisivi sono dovuti all'innalzamento del livello del mare, che a sua volta è la conseguenza del riscaldamento atmosferico, dell'aumento dell'acqua salata a scapito di quella dolce e della vera e propria desertificazione di ampie zone in seguito allo sfruttamento particolarmente aggressivo delle risorse naturali.

Particolarmente colpiti risultano i territori indigeni con ecosistemi sensibili, come l'Artico, le foreste boreali e tropicali, i territori montani, le isole del Pacifico, dei Caraibi e dell'Oceano Indiano. Le isole più a rischio sono Tuvalu, Nauru, Kiribati, le Isole Salomone, le Maldive e le Bahamas. Anche il Bangladesh rischia di perdere ampie masse terrestri. Al vertice sul clima di Montreal del 2005 Ian Aujare-Zazao, rappresentante degli indigeni delle Isole Salomone, ha usato parole durissime per mettere in guardia dalle imminenti inondazioni.

Il riscaldamento atmosferico si ripercuote direttamente sulla vita degli Inuit del mare polare settentrionale. Sheila Watt-Cloutier, presidentessa della Inuit Circumpolar Conference (ICC), ha inoltrato presso l'ufficio di Washington della Commissione per i Diritti Umani una denuncia per violazione dei diritti umani per l'incontrastata emissione di gas serra, soprattutto da parte degli USA. L'intento della denuncia è quello di convincere gli USA a fissare dei livelli massimi per le emissioni e ad avviare finalmente una collaborazione internazionale sulla questione. Gli Inuit infine sperano di riuscire a impegnare gli USA nell'elaborazione congiunta di un progetto che miri ad attenuare le già visibili conseguenze del cambio climatico.

Sul lato indiano dell'Himalaya, le conseguenze dello scioglimento dei ghiacciai diventano evidenti soprattutto nella stagione secca quando viene a mancare un sufficiente approvvigionamento con acqua potabile di tutta la zona rurale adiacente, che è anche zona di ritiro dei pochi Adivasi ("primi abitanti") rimasti. La mancanza di acqua si ripercuote poi sulla biodiversità della zona e va quindi a minare anche l'approvvigionamento alimentare delle comunità.

Se anche il governo indiano stesse studiando delle possibili soluzioni, lo fa senza la partecipazione e neppure la consultazione degli Adivasi. Al contrario, nello stato del Arunachal Pradesh ci sono già stati i primi dislocamenti di popolazione locale su territorio degli Adivasi, senza essersi preventivamente consultati con la popolazione indigena. Il governo indiano sembra prendere ad esempio la strategia indonesiana degli anni '70, quando il governo approfittò di catastrofi naturali per evacuare fette di popolazione e trasferirle in territori indigeni, come ad es. la Papua occidentale, e soppiantare così le comunità indigene presenti.

Le devastazioni e i cambiamenti climatici regionali persistenti nel continente americano sono dovuti soprattutto allo sfruttamento di risorse naturali. La Peabody Western Coal Company in Arizona non solo rovina il territorio sacro del Black Mesa dei Dineh e degli Hopi, ma interviene anche profondamente nell'equilibrio ecologico dell'intera regione e mette in pericolo la sopravvivenza culturale e fisica delle popolazioni locali. L'estrazione di petrolio e gas in Guatemala, Ecuador, Colombia, Perù o Bolivia avvelena per decenni l'ambiente in cui vivono e di cui sopravvivono decine di comunità indigene. Per le future generazioni la distruzione degli ecosistemi comporta l'impossibilità di pianificare la propria vita secondo le abitudini tradizionali. La migrazione dei giovani verso le città e verso altre zone è inevitabile.

Ritroviamo lo stesso quadro in Siberia, dove la distruzione ambientale è aggravata dalla privatizzazione sostenuta politicamente in tutta la Federazione Russa delle risorse naturali quali l'acqua e i boschi. La privatizzazione delle risorse e il loro conseguente sfruttamento incontrollato rende impossibile qualsiasi progetto di vita autonomo e in armonia con la propria cultura e tradizione di popoli quali i Nivci, Nanai o gli Ulta di Sakhalin.

Oltre alla perdita di terra, di luoghi sacri e di risorse per le generazioni a venire, si pone anche il problema della normativa legale. Cosa succede a chi è costretto a fuggire e a chi è dislocato più o meno forzatamente in termini di status legale? Da un punto di vista antropologico sicuramente resteranno un popolo indigeno, ma da un punto di vista legale, è probabile che nel nuovo luogo di insediamento saranno considerati un minoranza, con diritti completamente diversi da quelli di un popolo indigeno autoctono. Non esiste finora una regolamentazione internazionale capace di rispondere a questo tipo di problematica.

Tutte le devastazioni avvenute o incombenti di un ambiente che rende possibile la vita umana sono il frutto di un processo di cui l'essere umano è largamente corresponsabile. Fintanto che si continua ad avviare processi distruttivi dell'ambiente si continua anche a violare i diritti umani.

Le vittime dirette non sono più disposte a sopportare tutto ciò. Da diversi anni i rappresentanti delle popolazioni indigene partecipano alle conferenze seguite al Protocollo di Kyoto. Al vertice sul clima del 2005 a Montreal hanno partecipato rappresentanti indigeni provenienti dall'Artico, dagli USA e dal Canada, dal Messico, Ecuador, Panamá, Norvegia, Russia, Groenlandia, India, Nuova Zelanda e da diverse isole del Pacifico. In migliaia sono scesi in strada a fianco degli ambientalisti per protestare non solo contro le politiche governative ma anche contro il modo di procedere delle grandi industrie che contribuiscono in modo determinante al cambio climatico indotto dall'uomo. Durante la conferenza stessa i rappresentanti indigeni hanno però trattato soprattutto con delegato dei diversi governi per decidere veloci misure adatte a attutire perlomeno gli effetti dei gas serra.

Le Nazioni Unite e le sue organizzazioni speciali hanno iniziato a occuparsi del problema anche dal punto di vista delle violazioni dei diritti umani. Françoise Hampson sta elaborando un meccanismo di controllo e tutela che renda possibile denunciare almeno le limitazioni più estreme alle condizioni di vita delle popolazioni indigene e che possa esortare o addirittura costringere i governi a intervenire. In linea teorica i governi dovrebbero essere particolarmente interessati a tale sistema di allarme poiché le possibili migrazioni di intere popolazioni non solo possono comportare conflitti culturali ma possono seriamente minacciare la pace di intere regioni. Ma per i governi del mondo tanta saggezza e visione per il futuro costituisce un'eccezione più che la norma, non dovremmo quindi affidare questo compito ai soli governi.

Cambiamento climatico
Popolazioni in fuga dalla desertificazione [ su ]

A essere maggiormente colpiti dal cambio climatico sono i più poveri tra i poveri, sono i senza terra, i contadini con appena qualche pugno di terra, gli abitanti delle bidonville che sprofondano nel fango quando piove. Milioni di persone in tutto il mondo sono già in fuga. Sono persone che hanno perso tutto a causa del maltempo e delle tempeste. Tra le vittime figurano anche le popolazioni indigene che tuttora vivono in posti isolati, dall'ambiente ancora intatto. La loro ricchezza è data anche dalle molte lingue e culture, dalla saggezza delle loro religioni e dalla sostenibilità ambientale del loro modo di vivere. Si stima che vi siano attualmente 350 - 400 milioni di persone che appartengono complessivamente a circa 5.000 popoli indigeni sparsi in 75 paesi.

Nonostante la Convenzione ILO 169, entrata in vigore nel 1991 e finora ratificata da soli 17 paesi, i popoli indigeni sono indifesi di fronte alle politiche messe in atto nei diversi paesi in cui vivono. In 44 articoli la ILO 169 definisce gli standard minimi dei diritti delle popolazioni indigene. Una particolare importanza è ricoperta dal diritto all'identità culturale e alle strutture comunitarie e tradizionali, dal diritto alla terra e alle risorse, al lavoro in condizioni dignitose, dal diritto al processo consultativo in quanto tale e dal diritto a partecipare alle decisioni riguardanti lo sviluppo nel proprio territorio. In ambito europeo la Convenzione funge da traccia per la pianificazione e l'attuazione di progetti di sviluppo. Nel 1994 il Parlamento Europeo ha chiesto ai governi europei di aderire alla Convenzione ILO 169. Nel 1998 la Commissione dell'UE ha approvato un programma strategico per la cooperazione allo sviluppo con le popolazioni indigene che si basa esplicitamente sulla Convenzione ILO 169. Nello stesso anno un simile documento è stato approvato anche dal Consiglio dei Ministri dell'UE.

Italia, Austria e Germania fanno parte della maggioranza dei paesi europei che non hanno ratificato la Convenzione. Nonostante se ne discuta da tempo e in particolare la Germania dell'allora governo Kohl abbia dichiarato già nel 1996 che non vi erano impedimenti giuridici internazionali, ancora non c'è stata ratifica. Sempre nel 1996 il Ministero tedesco per la cooperazione economica e lo sviluppo promulgò una carta programmatica secondo la quale la politica estera, economica e di sviluppo tedesca avrebbe dovuto basarsi sul rispetto della Convenzione ILO 169. Il Ministero tedesco si è accontentato di questa dichiarazione d'intenti e la mancata ratifica della Convenzione è motivata con l'assenza di popolazioni indigene entro le frontiere dei paesi in questione. Ciò nonostante la ratifica della ILO 169 sarebbe importante perché le politiche economiche e di sviluppo dei paesi europei influenzano fortemente le condizioni di vita delle popolazioni e comunità indigene nel mondo. La partecipazione di imprese e istituti bancari europei alla costruzione di dighe, di progetti di costruzione di oleodotti o di importazione di gas dovrebbe obbligare gli stessi paesi ad assumersi la responsabilità sulle conseguenze che questi progetti comportano. Tra i progetti a fortissimo impatto ambientale risultano p.es. quello della costruzione di un gasdotto attraverso il Mare Baltico, concordato tra l'ex cancelliere Gerhard Schröder e il presidente russo Vladimir Putin, che servirà per l'esportazione di gas proveniente dai territori delle popolazioni indigene siberiane e di cui beneficeranno molte imprese tedesche, oppure l'estrazione di petrolio nella selva amazzonica ecuadoregna con la partecipazione dell'italiana ENI.

Ecuador: Huaorani travolti dalle imprese del legname e dalle multinazionali del petrolio

I circa 2.500 Huaorani vivono in una zona dell'Amazzonia ecuadoregna che in parte coincide con il famoso parco naturale di Yasuni. Grazie all'incredibile ricchezza di specie presente, il parco di Yasuni venne istituito già nel 1979. Nel 1989 l'UNESCO assegnò al parco lo status di riserva di biosfera. Alcuni gruppi di Huaorani come i Tagaeri e i Taromenane hanno deciso di restare isolati e rifiutano qualsiasi tipo di contatto con il mondo esterno. Attualmente gli Huaorani si trovano a dover affrontare loro malgrado l'invasione di imprese del legname non autorizzate e di multinazionali del petrolio quali la brasiliana Petrobas e la argentino-spagnola Repsol YPF. Negli anni lo sfruttamento selvaggio delle risorse è stato imposto anche con la violenza e i ripetuti massacri di persone appartenenti alla popolo degli Huaorani sono rimasti tutti impuniti. Taglialegna non autorizzati disboscano nei territori Huaorani e imprese petrolifere dividono le zone in blocchi da esplorare e sfruttare. Le forze militari ecuadoregne sono schierate a protezione degli impianti di estrazione petrolifera e reagiscono in modo determinato contro le proteste per la contaminazione causata.

Ciò nonostante una parte degli Huaorani che vive in 37 comunità distribuite nelle province di Orellana, Napo e Pastaza, tenta di fermare la distruzione della base vitale con la resistenza politica. L'Associazione degli Huaorani ONHAE, fondata nel 1990, chiede alle imprese petrolifere di ripulire le zone lasciate contaminate e critica il governo ecuadoregno per il fatto di fare affari con le multinazionali petrolifere senza coinvolgere gli Huaorani nelle decisioni riguardanti proprio la loro terra. Gli Huaorani non ricevono nessun indennizzo per la distruzione del loro ambiente o per i problemi di salute che ciò comporta né per la perdita delle loro terre e la contaminazione delle loro fonti alimentari. I cambiamenti subiti hanno però diviso le comunità Huaorani. C'è chi lavora con i taglialegna per garantirsi la sopravvivenza con un certo introito in denaro e c'è chi, come i Tagaeri e i Taromenane, ha deciso di ritirarsi nelle zone più interne dell'Amazzonia e di tagliare ogni contatto con chi è interessato solo alla distruzione e allo sfruttamento delle risorse. Ma l'avanzamento delle imprese petrolifere minaccia ormai anche gli angoli più reconditi dell'Amazzonia dove queste comunità di Huaorani si sono rifugiate. Finora il problema maggiore è rappresentato dai taglialegna illegali che sfruttano le strade aperte dalle imprese petrolifere e commercializzano il legname attraverso la Colombia.

Africa Centrale: i Pigmei trattati come sottospecie umana

Nei paesi centrafricani 250.000 membri di popolazioni indigene vengono collettivamente definiti con l'espressione denigratoria di "Pigmei". Batwa, Efe, Mbuti, Baka e altri gruppi vivono nell'attuale Repubblica Democratica del Congo, nel Congo Brazzaville, in Gabon, Camerun, Ruanda, Burundi, Uganda e Repubblica Centrafricana. La deforestazione dei boschi nei quali per millenni hanno vissuto di caccia e raccolta come semi-nomadi ha privato i Pigmei della loro base vitale e li ha costretti a lasciare la terra nativa. Per la società essi sono una "sottospecie umana" da discriminare e sfruttare. Completamente ignorati nelle politiche sanitarie ed educative, essi costituiscono i gruppi più poveri e vulnerabili delle varie società, e come tali sono maggiormente esposti alla violenza e alla guerra. Molti governi non riconoscono loro nemmeno la cittadinanza.

Le culture indigene di cacciatori e raccoglitrici dell'Africa centrale appartengono da millenni all'ambiente della foresta pluviale. Per i Pigmei l'esistenza della foresta è la condizione indispensabile per poter continuare a mantenere il proprio stile di vita, ma le foreste centrafricane si riducono sempre più, disboscate dalle grandi imprese multinazionali, come p.es. l'impresa svizzero-tedesca Danzer (Reutlingen), la tedesca Feldmeyer (Brema), l'olandese Wijma e le ditte francesi Rouchier, Thanry e Becob. Mentre la maggior parte del legname finisce sul mercato europeo, i Pigmei sono costretti a lasciare le proprie terre e a vivere ai margini di una società a loro estranea e privati delle loro tradizioni e culture. Anche laddove sono stati istituiti parchi naturali e riserve non è stata considerata la tutela delle popolazioni indigene. Negli otto paesi menzionati le popolazioni pigmee sono viste come "sottospecie umana, incivile e arretrata".

Mali e Niger: Nomadi minacciati dalla fame

3,5 milioni di nomadi Tuareg e Peulh vivono tra il Niger e il Mali. Le società nomadi sono minacciate da periodiche carestie, dalla moria delle loro greggi, da conflitti con i contadini per la terra e i pascoli, da impoverimento e mancato sostegno da parte delle istituzioni. In molte regioni caratterizzate da costante siccità il nomadismo è l'unico sistema economico sostenibile che non inaridisce ulteriormente e per sempre le terre. La grande flessibilità dei nomadi e i bassi costi di mantenimento delle greggi sono stati molto tempo un vantaggio economico che ha reso possibile lo sviluppo di questo ramo economico. Un quarto della terra mondiale è tuttora usato da società nomadi le cui 20 milioni di famiglie producono il 10% del fabbisogno mondiale di carne. Le crescenti necessità igieniche, la diminuzione della domanda di prodotti lattiero-caseari e la crescente concorrenza delle importazioni di carne a basso costo proveniente dai paesi industrializzati mettono sempre più in pericolo la base economico-vitale dei nomadi.

Per decine di migliaia di Tuareg e Peulh la carestia dell'estate 2005 ha significato la perdita di tutto, anche della speranza per il futuro. In alcune regioni del Niger, l'80% del bestiame era morto o ha dovuto essere macellato a causa della siccità. La macellazione di un numero così massiccio di capi di bestiame ha portato alla caduta del prezzo della carne mentre la siccità e la speculazione hanno fatto aumentare il prezzo di cereali ed altri alimenti. Per i Nomadi ciò ha significato una drastica riduzione delle entrate derivanti dalla vendita di carne e l'impossibilità di comprare sufficienti alimenti per i mesi a venire.

Non è la prima volta che le popolazioni nomadi del Sahel vedono minacciata la propria sopravvivenza. Dopo le gravi carestie degli anni 1973/74 e 1984/85 i Tuareg aspettarono invano l'arrivo degli aiuti umanitari promessi fino a quando, nella primavera 1990, presero le armi per ribellarsi ai governi del Niger e del Mali. Nella primavera 2006 il progressivo impoverimento e la mancanza di aiuti statali ha portato a una nuova ribellione dei Tuareg nel nord del Mali. Grazie alla mediazione dell'Algeria il conflitto è stato presto risolto e il 3 luglio 2006 il governo del Mali ha siglato un accordo con i ribelli nel quale sono stati loro assicurati maggiori aiuti. Anche gli aiuti dell'estate 2005 sono arrivati ai destinatari con molte difficoltà e lentezza nonostante si trattasse di una catastrofe annunciata. Già nell'autunno 2004 molte organizzazioni umanitarie avevano messo in guardia dalla progressiva siccità e mancanza di alimenti.

Borneo: il disboscamento minaccia i Penan

Penan: Negli anni '90 sono stati abbattuti almeno 2,7 milioni di ettari di foresta pluviale. Foto: Bruno Manser Fond, www.bmf.ch Nella provincia malese di Sarawak sull'isola di Borneo vivono 27 diversi gruppi etnici. Gli Orang Ulu o Dayak, come vengono chiamati complessivamente tutti i gruppi etnici, costituiscono il 5,5% dei 2,2 milioni di abitanti di Sarawak. I popoli indigeni Penan, Punan, Iban, Bidayuh, Kayan, Murut, Kenyah e Kelabit sono tutti minacciati dal progressivo disboscamento e dalla conseguente distruzione della loro base vitale. A partire dagli anni '80 i Penan tentano di difendere il proprio spazio vitale con azioni di bloccaggio dei taglialegna, ma nonostante la resistenza dei Penan negli ultimi 15 anni è stata abbattuta la maggior parte della foresta. Attualmente solo una piccola parte dei circa 10.000 Penan continua a vivere in condizioni di semi-nomadismo. In seguito alla distruzione della foresta e alla riduzione dello spazio vitale, la maggior parte dei Penan ha optato per la vita sedentaria. Oltre ai Penan ci sono anche altri popoli indigeni, come i circa 5.000 Punan, che continuano a vivere da semi-nomadi nella provincia di Sarawak.

Negli anni '90 almeno 2,7 milioni di ettari di foresta pluviale malese sono andati persi per il disboscamento. Il paese del sudest asiatico ha così perso in pochi anni il 13% dei suoi boschi e solo il 20% delle foreste malesi è tuttora intatta. Lo spazio vitale delle popolazioni semi-nomadi è in continua diminuzione, e insieme ai boschi spariscono anche le fonti alimentari dei semi-nomadi, come il cinghiale, le scimmie, gli uccelli e i frutti di bosco che raccoglievano. Tradizionalmente i Penan non si nutrono di verdure o radici ma di farina di sago, e non si fermano per più di qualche settimana in un posto. Costruiscono piccole capanne fatte di tronchi e foglie di palma e una volta abbattute le palme di sago più vecchie, da cui ricavano la farina e la legna, e raccolti i frutti selvatici si spostano in un'altra area. La scarsità di animali e frutti selvatici hanno costretto molti Penan a diventare sedentari e ad abbandonare lo stile di vita tradizionale. Il disboscamento quindi non solo ha distrutto l'equilibrio ecologico della foresta ma anche la base vitale delle popolazioni indigene.

Le imprese del legname operano anche nelle regioni di Sungai Bareh e Magoh che le autorità hanno assegnato ufficialmente ai Penan. Le imprese disattendono sistematicamente la legislazione malese ma ciò nonostante le autorità non intervengono. Anzi, a sostegno delle imprese del legname appoggiano l'introduzione di una certificazione di garanzia per tutte le esportazioni di legname dalla Malesia che dovrebbe assicurare i compratori esteri sulla compatibilità ecologica dei disboscamenti su grandi aree e sul rispetto dei diritti umani dei popoli indigeni.

Anche i Kelabit continuano a resistere all'invasione dei taglialegna nel loro territorio. I Kelabit vivono nell'altipiano di Bario vicino al fiume Baram, una delle ultime porzioni di foresta rimaste agli indigeni. Purtroppo però anche questa zona resisterà poco visto che l'impresa malese Samling è appena riuscita ad assicurarsi i diritti sul disboscamento di vari milioni di ettari di foresta.

Fonte: GfbV-Menschenrechtsreport: "Indigene Völker - ausgegrenzt und diskriminiert".