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50 grammi d'epos

di Federico Magi / Léon - 02/05/2007

 

 

Se tutto quanto è stato già detto / allora in principio fu il proverbio

Già dal titolo, 50 grammi d’epos, l’esordio del poco più che ventenne poeta
romano Alessandro Riccioni, cerca di insinuare nel lettore la curiosità di
scoprire un mondo che richiama certamente un altrove che si incontra e si
scontra con le controverse dinamiche del presente. Ed in effetti Alessandro
Riccioni rilegge il suo e il nostro presente attraverso la lente d’
ingrandimento emotivo-emozionale fornitagli dall’attualità. Opera tripartita,
in cui i 50 grammi del titolo vengono suddivisi in dosi: 20 grammi, la dose più
massiccia, per cantare la disillusione, evidentemente autobiografica, rispetto
al sentimento amoroso e all’universo femminile, fotografato attraverso immagini
forti e dirette, ora caustiche e ora malinconiche. Il vissuto personale
sovrasta una possibile visione ideale o idealistica dell’amore (Il tempo
disinfetta ogni ferita / ma a te auguro l’alcol di un rimpianto), eppure,
nonostante tutto, l’amore salva o, quantomeno, lascia la sensazione di
possibilità, nonostante i rischi e i possibili abbagli, di una catarsi
estemporanea ma irrinunciabile (L’inganno è stato abbaglio d’occhi forse / ma
ho visto i tuoi sorrisi galleggiare / sfidando questo mare di comparse). Si
nota che manca l’assolutezza che si riserva al sentimento principe, forse
propria ancora ai suoi coetanei, nonostante una realtà che non invita alla
fiducia, al sogno, alla rivolta.

La seconda dose, 15 grammi, si concentra sull’attualità, con atteggiamento
sospeso, tra estraneità e disincanto, malessere e sarcasmo restituito
attraverso immagini ora realistiche e ora allegoriche, nelle quali il progresso
si palesa come principale imputato cui derivano malesseri, nonsensi e
inquietudini esistenziali. Ricordandoci che il passato, oramai percepito in
modo fiabesco, è quasi assente dalla comune memoria condivisa (I re e le
principesse dove sono? / Dove le alte torri e i bastioni? / Qui la tempesta
ingorda del progresso / ha seppellito tutto come un cane). Questa seconda
parte, a mio personale avviso la più ispirata, concentra e fortifica la
disillusione che aleggia in tutta l’opera del Riccioni, quantunque mai
restituita piangendosi addosso, ma facendo uso di punte di fiele e di ironia,
pur evidentemente malinconica (E scusami se rido anche del sesso / ma trovo
alquanto ironico tappare / il vuoto della vita con un buco). Fino a trovar l’
immedesimazione, non risparmiando l’artista, travolto anch’esso dal vuoto e
dall’aridità del nostro tempo (oramai non credo più all’ispirazione / chi
scrive è solo un abile architetto: / con la malinconia ci fa un castello).

Terza dose, una sorta di resa dei conti, ancora 15 grammi per un primo, pur
giovanissimo, bilancio esistenziale. I temi dell’assoluto, di Dio, della morte
e della memoria connotano questi ultimi slanci poetici, nei quali la vena
pessimistica si fa più evidente, ancorché volutamente ostentata, tutt’altro che
rassegnata concedersi alle maree e ai venti impetuosi che spirano da ogni dove.
Eppure, l’incipit, l’ingresso nella sfera esistenziale del poeta, avviene
attraverso queste parole apparentemente inequivocabili: quello che non uccide
ci rende più morti. E continua su toni da pessimismo cosmico (la morte ci
desidera / ma in fondo non ha fretta / siamo come tante sigarette / che tiene
tra le labbra mentre fotte). Sulla medesima falsariga lo troviamo anche qui:
Niente più pensieri / oramai sono sicuro / che vivere nel vuoto è più pulito.
Ma arrivano gli ultimissimi versi a darci la misura dell’atteggiamento del
poeta nei confronti di una realtà decisamente buia e insostenibile: La morte
bara e Dio serve le carte / se perdo dite che ho giocato forte. Nessun dubbio,
dunque, che Alessandro Riccioni si giocherà fino in fondo, senza risparmiarsi,
la contesa più lunga che noi tutti siamo invitati a vivere: la vita.

Libretto agile, dalla struttura circolare, da leggere tutto d’un fiato, 50
grammi d’epos è un’opera d’esordio interessante, certamente viva, che si
sfilaccia qua e là soprattutto quando si dilunga o quando privilegia la ricerca
del suono a quella dell’immagine. È infatti uno stile aforistico, fors’anche
epigrammatico, non incline alla ricerca di musicalità e assonanze, al contrario
orientato a costruire quadri emotivi d’impatto forte e immediato, figli d’una
spontaneità affatto artificiale cui non serve una particolare metrica per
trovare l’efficacia. Ma, nonostante ciò, la ricerca di uno stile c’è e si vede,
come evidenzia nella prefazione il professor Giuseppe Elio Ligotti, il quale a
conclusione del suo intervento ci ricorda anche che l’epos non è morto. Ne
siamo più che convinti, e ben vengano giovani poeti che cercano di tenere
questa fiamma – trovando un’epica possibile del presente - sempre accesa.