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Le banche hanno troppo potere

di Andrea Angelini - 05/05/2007




La misura deve essere davvero colma se un liberista doc come, Mario Monti, rettore della Bocconi ed ex commissario europeo alla concorrenza, ha lanciato un preciso allarme: in Italia le banche hanno troppo potere e ci sono troppi intrecci tra affari e politica. Ad un convegno su Riccardo Lombardi, una delle figure storiche del vecchio Psi, Monti ha sottolineato i rischi della “politicizzazione dell'economia” e i pericoli della “maggiore confusione tra politica e affari” di questi anni. A suo avviso è “allarmante sentire parlare di amicizie tra imprenditori e banchieri. In passato – ha ricordato - si diceva che lo Stato fosse una sorta di banca occulta, data la grande attività finanziaria che svolgeva. Oggi si guarda alle banche come una forma di governo occulto che porta ad una discutibile divaricazione rispetto a una logica di mercato”. Quasi volesse rispondergli, il presidente di Intesa-San Paolo, Giovanni Bazoli, intervenendo all’assemblea della banca che ha ratificato la decisione di entrare in Telco, la società che comprerà il pacchetto di controllo di Telecom, ha affermato: “Abbiamo deciso in modo assolutamente autonomo da qualunque pressione politica”. Una maniera per smentire che l’intervento delle banche in Telecom sia stato determinato da spinte ricevute da ambienti politici vicini a Romano Prodi e per ribadire che esso risponde invece a valutazioni di carattere esclusivamente finanziario ed industriale. Resta il fatto però che, pur essendo privata, Intesa-San Paolo è considerata molto vicina al capo del governo anche per quella cultura politica cattolico-democratica che accomuna Bazoli e Prodi. Ed anche Unicredit e Capitalia, che si sono però tenute fuori da Telecom, sono considerate molto vicine a tali ambienti e alle loro strategie di potere politico ed economico. Anche per il fatto di essere banche ex pubbliche. Mentre il Monte dei Paschi di Siena si è caratterizzato per la sua stretta vicinanza ai Ds. Tutte queste commistioni si faranno sicuramente sentire nella costruzione del Partito Democratico e nei suoi equilibri interni che per forza di cose dovranno avere dei terminali nella cosiddetta società civile. In tal senso le parole di Monti riflettono un dato di per sé evidente, quello del peso soffocante delle banche ma hanno il difetto di arrivare in notevole ritardo. Questo peso delle banche nella realtà italiana era facilmente prevedibile quando l’Italia su pressione dell’Unione Europea, mise mano alla riforma della Legge Bancaria varata dal governo fascista di Mussolini nel 1936. Una riforma che, dopo alcuni interventi settoriali, si concretizzò nel 1993 con il varo del Testo unico in materia bancaria e creditizia che reintrodusse nel nostro paese il “modello tedesco”. Il nocciolo di tale controriforma fu la possibilità data alle banche di credito ordinario di diventare azioniste delle imprese e quindi di non limitarsi più al solo prestito di denaro. Allo stesso tempo le imprese furono autorizzate ad entrare nel capitale delle banche. Una svolta storica che portava in sé le premesse del disastro attuale. La proibizione a imprese e banche di avere rapporti azionari, prevista dalla Legge Bancaria del 1936, era infatti motivata da quanto successo in Italia nel primo dopoguerra, quando l’Ansaldo dei Perrone e la Fiat di Agnelli, obbligate a riconvertire i propri impianti da una economia di guerra ad una di pace, e allo stesso tempo oberate di debiti con le banche, l’Ansaldo con la Banca Commerciale e la Fiat con il Credito Italiano, pensarono bene di comprare in Borsa e a più riprese le azioni delle banche loro creditrici. Una manovra che venne sventata dal governo dell’epoca e che lasciò comunque non pochi danni dietro di sé e che divennero macerie quando scoppiò la crisi di Wall Street del 1929. Da quella crisi nacque la Legge Bancaria che proibì commistioni fra le imprese e le banche di credito ordinario, quelle che concedono credito a breve termine. Le uniche che potevano investire in azioni di società erano le banche a medio e lungo termine che si finanziavano attraverso l’emissione di obbligazioni. Nel secondo dopoguerra questa funzione fu svolta in via quasi esclusiva da Mediobanca che su essa basò il proprio enorme potere politico svolto però a tutto vantaggio di una ristretta cerchia di aziende, Fiat e Pirelli in testa. La svolta a cavallo degli anni ottanta e novanta trascinò il nostro paese verso il modello tedesco nel quale una banca può svolgere sia l’attività di credito ordinario che di investimento, sia il prestito alle imprese che la presenza nel loro capitale azionario, ed all’impresa è consentito essere azionista delle banche. La conseguenza inevitabile di questo stato di cose è di legare indissolubilmente, a causa degli incroci azionari, il destino e le strategie di entrambe. Ed oggi le banche sono di fatto proprietarie delle più grandi aziende del paese, tutte fortemente indebitate con loro. Tali intrecci evidenziano altri motivi di preoccupazione per la libertà dei cittadini a causa dei legami tra banche e aziende a cui si sono aggiunte le imprese editoriali proprietarie di giornali e di televisioni. E’ infatti evidente che se un imprenditore è azionista di un giornale non gradirà che questo parli male della sua azienda e quindi pregiudichi il valore delle azioni quotate in Borsa o di quelle che vi dovranno essere collocate. E potrà reagire togliendogli la pubblicità e quindi tagliandogli i ricavi. Allo stesso modo una banca azionista di un’impresa, oltre che sua creditrice, non si farà molti scrupoli nel partecipare al collocamento di tali azioni sul mercato attraverso la vendita ai propri clienti-correntisti, anche quando tali azioni siano prive di un reale valore ma anzi costituiscano un’autentica truffa.