Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La letteratura come folle esperienza

La letteratura come folle esperienza

di Claudio Ughetto - 06/05/2007

 

 

 

Oltre ad essere, assieme ad Antonio Moresco, uno degli scrittori più interessanti di questi anni, tra i pochi ad aver lasciato il segno con un romanzo (Il sopravvissuto, Bompiani), il napoletano Antonio Scurati è tra i pochi produttori italiani di letteratura che sembrano non avere timore delle idee generali e dell'interrogazione continua sulla funzione dello scrivere  e sul senso del romanzo nella società attuale. Ben lontano dal fenomenologismo emozionale di Ammaniti, e anche dal moralismo sentenzioso della Tamaro,  nei suoi scritti Scurati riesce ad incendiare i frutti di una solida formazione da ricercatore e farne torce per vagare in caverne piene di ombre, illusioni, fraintendimenti e suggestioni. Almeno questo avverto io, non sempre concorde con le sue conclusioni ma come lui tormentato da questioni confinanti tra letteratura e vita, scaturite con la modernità, onnipresenti in arte, e che oggigiorno si presentano in un'ennesima e tragica trasformazione.

Ha ancora senso scrivere nell'epoca della cultura visiva, quando i fatti arrivano e fuggono a velocità travolgente nel tentativo di cogliere l'attimo, puntualmente vanificato dal divenire? A questa domanda è ancora facile rispondere: anche se è l'immagine a predominare, la scrittura è essenziale. Noi continuiamo a comunicare anche nell'epoca di Internet, naturalmente con diversa qualità, serietà e persuasività. Possiamo interrogarci sulla permanenza di ciò che scriviamo, ma è inevitabile che il messaggio arriva. Comunichiamo, anche solo per un istante, attraverso la scrittura. E sebbene la Tv trasmetta prodotti “visivi”, essi sono almeno in parte il risultato di uno script, e lo stesso vale per il cinema: uno o più sceneggiatori mettono una storia sul foglio, toccherà al regista, agli attori e ai tecnici dare ad essa forma. Noi, uomini postmoderni, scriviamo ancora e forse scriveremo finché esisteremo.

Ha ancora senso scrivere romanzi in quest'epoca? Non è sconfortante constatare come qualsiasi altra forma narrativa arrivi al pubblico con maggior efficacia?  Inutile mettere in gioco il mercato. A questo proposito, Scurati ha considerazioni esaurienti: (è) “storia vecchia” che ormai abbiamo assunto il denaro a “metro esclusivo di misurazione del mondo”, al punto “che la Divina Commedia (può) essere scambiata sul mercato della mercificazione universale con la pubblicità delle sottilette”1. In sostanza, a mio avviso, non sono certo i libri o i film migliori a vendere: essi possono radicarsi in un pubblico incuriosito, fare da staminali per derivazioni persino dignitose, ma in cima alla classifica dei più visti e letti ci saranno sempre i prodotti di una stagione. Più interessante sarebbe chiedersi se la domanda non se la siano già posta tra la fine dell'800 e l'inizio del 900, quando lo scrittore comincia chiedersi se ha senso produrre romanzi “realistici”, d'interrogazione e conoscenza attraverso l'intrattenimento, per una borghesia incapace di comprendere che il mondo sta cambiando, la realtà si è complessificata, e quindi riparte con la necessità di forgiare nuovi strumenti linguistici, confrontandosi con quanto la modernità stava offrendo o imponendo. Joyce non amava la psicoanalisi, eppure se ne servì “esteticamente”, passando le sue immagini nel calderone teatrale di “Circe”; non lo spaventò l'arrivo del cinema, anzi: subito pensò che Ulysses, il suo capolavoro, poteva essere “ritradotto” con questo nuovo media. Storia vecchia anche questa: allora i romanzi erano trasformati in film, mentre adesso sono pensati come film.

Non è un caso che Antonio Scurati, in una recente polemica con Alessandro Piperno, convinto dell'inutilità della letteratura, finisca per rispondergli riattizzando un dibattito mai sopito da quegli anni inquieti. Riassumendo: rispetto allo scrittore ottocentesco, lo scrittore novecentesco si ritrova fuori dal corpus sociale e la sua scrittura diventa quindi “inutile” secondo i parametri mercantili della borghesia. Oggigiorno, potremmo aggiungere, è la letteratura stessa a entrare nella “mercificazione universale”2, perdendo sia la sua funzione di rappresentazione naturalistica della società, sia quella capacità di “critica costante” che ne caratterizzava gli aspetti migliori fino a qualche anno fa. Ben lo evidenzia Scurati, sebbene riferendosi ad altro, ne La letteratura dell'inesperienza, usando come esempio “Il codice Da Vinci”: “Dan Brown ha rivelato il più iniziatico dei segreti a una trentina di milioni di persone. Ha svelato a un pubblico planetario che Cristo era un uomo, il grembo della Maddalena il Santo Graal che ne raccolse la discendenza terrena e l'intera storia ufficiale del Cristianesimo un'enorme impostura. Pur con tutto ciò, a San Pietro non è saltata nemmeno una sola Santa Messa”3. Storia vecchia, anche questa, che contiene un'implicita e vecchia domanda: la letteratura ha mai cambiato il mondo? L'impossibilità di rispondere sembrerebbe dar ragione a Piperno, “ideologo dell'inutilismo criptoborghese”4, eppure Scurati non ci sta: già prima si è posto la domanda definitiva che possiamo riassumere così: Ha ancora senso scrivere storie quando i media e l'immaginario collettivo hanno annullato il senso dell'esperienza, negandola come valore rappresentativo e relegando tutti, scrittori e lettori, al ruolo di eterni spettatori?

Questo suo breve ma complesso saggio ha suscitato un certo scalpore in ambito letterario e culturale, smuovendo un panorama di solito impantanato su questioni accademiche o dibattiti più frivoli. Le obiezioni che gli sono state opposte sono talvolta condivisibili, tuttavia rimane la forza di una domanda che è riuscita a mettere in luce aspetti non solo letterari dell'attualità, rivelando a noi stessi una condizione di cui non dovremmo andare fieri. Strano che Scurati, ponendo le basi della sua interrogazione sul primo romanzo di Calvino e sull'essenza del neorealismo, di una letteratura che traeva ispirazione dall'esperienza individuale della guerra, non s'interroghi sulla parabola di Calvino scrittore, passato da “Il sentiero dei nidi di ragno” alla fantastoria (metaletteraria) de I nostri antenati, alla fantascienza de Le cosmicomiche fino ai borgesismi di Se una notte d'inverno un viaggiatore e Le città invisibili. Il saggio andrebbe quindi accostato a Il vulcano di Antonio Moresco5, libretto altrettanto smilzo e pregnante in cui l'autore de Gli esordi esprime tutte le ragioni che lo allontanano dal magistero di uno scrittore tramutatosi da “neorealista” (sui generis) a “domatore di cavallucci a dondolo concettuali”6. Che Calvino ci piaccia o meno, è indubitabile che “l'intellighenzia internazionale del nostro tempo si è innamorata del labirinto, si è smarrita negli spazi mentali di un labirinto rielaborato a propria immagine e somiglianza (...) per non doversi trovare a faccia col caos. Perché il loro labirinto imprigiona sì, ma anche, stilizzando, protegge”7. Se prima era impossibile non essere neorealisti, compreso Pavese che di neorealista aveva ben poco e, quando ha provato ad esserlo, ci ha dato le sue cose peggiori, in seguito sarà proprio Calvino a divulgare le proprie nuove passioni, facilitando8 i dettami di letterature emergenti che vanno da Borges a Perec, sfiorando il postmoderno senza però incarnarne l'essenza, e prendendo forme diversificate e spurie attraverso gli autori più disparati: da Eco a Baricco. La letteratura si reinventa, si fa midcult e diventa intrattenimento alto, citazionista ma evitando quella sfida alle convenzioni che l'ha spesso caratterizzata. Sono in molti a sapere che gli scrittori italiani davvero importanti, come sfida formale e linguistica, i coraggiosi, sono altri: Carlo Emilio Gadda, Elsa Morante, Stefano D'Arrigo, Anna Maria Ortese... non certo scrittori realisti, né istintivi e ignari di ciò che Calvino sa, eppure convinti che un romanzo sia sì un mondo a sé, con dentro qualcosa che, per dirla con Kundera, non potrebbe essere narrato diversamente, ma che proprio in quanto mondo deve contenere le asperità dei luoghi non facili che ci capita di affrontare nella vita.

Differenziando il divertimento dal piacere, lo psicoanalista James Hillman ha detto che andare su una giostra è divertente ma di per sé non porta ad alcuna evoluzione; viceversa, imparare a sciare può essere duro e frustrante, ma alla fine si ricava il piacere di un'esperienza che comporta un cambiamento9. Da questo punto di vista, potremmo concludere che leggere Se una notte d'inverno un viaggiatore è divertente, mentre affrontare Il porto di Toledo della Ortese è piacevole. Nel suo saggio Scurati ci parla dell'individuo cui i media hanno sottratto l'esperienza diretta delle cose, ma forse, prima ancora, c'è stato (e c'è) l'inganno midcult di una letteratura tanto pregevole quanto effimera, di un'arte che si evolve dal kitsch per spacciarsi migliore solo perché tutto il resto è scaduto perdendo il suo potenziale, oppure è stato dimenticato e quindi lascia spazio a imitazioni slavate. “Cajkovskij, Rachmaninov, Horowitz al pianoforte” scriveva Kundera10 a proposito del kitsch. Riguardo al midcult, Norah Jones e Diana Krall non mi danno minimamente le emozioni di Billie Holiday e Nina Simone, e nemmeno di Marianne Faithfull nei momenti migliori. Quando ho letto Neuromante11 mi sono subito reso conto d'essere di fronte a un'arte popolare inedita, ardua: l'esperienza di William Gibson a scriverlo è stata speculare al mio piacere di leggerlo.

“Oggi più viviamo più siamo inesperti della vita”12, scrive Scurati. Tuttavia, mi chiedo, gli scrittori del passato erano davvero esperti di qualcosa? In cosa e di cosa? Perché avevano fatto la guerra? Tutta la letteratura sarebbe scrittura di guerra? La letteratura è pregna di conflitti, non per forza di guerra. Forse ci sembra che la guerra avesse così importanza per loro perché oggigiorno essa è diventata onnipresente, eppure rarefatta in una bolla di mediatica inesperienza, almeno per noi uomini occidentali. La guerra ci ossessiona, ci entra nella testa, non possiamo fuggire al bombardamento massmediatico che ci mostra i Kossovari, gli Afghani e gli Iracheni sotto le bombe vere. Abbiamo perso il significato di quei massacri, nemmeno più ricordiamo cosa siamo andati a fare in Iraq, o meglio: non ricordiamo perché un governo ha mandato dei nostri concittadini in divisa a uccidere e farsi uccidere laggiù, siamo testimoni di una mattanza primordiale, rivestita di ragioni che non ci convincono troppo, e in quest'integrarsi di “archetipi e stereotipi” affidarsi all'esperienza della guerra è un modo per proteggersi dall'insensato. Eppure, anche nella realtà del passato ci sono stati scrittori come Franz Kafka che in guerra non ci sono andati ed hanno scritto di un'Amerika fantastica, cogliendo aspetti inediti dell'esistenza. E mi sembra valga poco opporre che egli morì nel 1924, sei anni dopo la Grande guerra.

Altrettanto poco mi convince la critica di Scurati all'”immaginario collettivo”, in quanto esso “tende a prevalere su tutto il resto, istituendo un regime confusivo di realtà e finzione (ma senza dichiararle) e quelle della coscienza individuale (senza risarcirle)”13. Posso concordare sui danni che l'immaginario collettivo sta portando attualmente all'esperienza individuale d'ognuno, ma essendo convinto che la letteratura sia di per sé dentro e fuori l'esperienza, possibilità d'esperienza essa stessa, penso che la cultura di massa possa diventare strumento letterario, trasformarsi in sterile gioco o in toccante nota esperienziale a seconda della qualità del libro e della scrittura. Ed è paradossale che proprio Scurati, ormai propenso a considerare ogni romanzo attuale un “romanzo storico”14, finisca per citare le opere di Wu Ming15: quale esperienza mi restituisce Manituana narrandomi degli Irochesi e della fondazione degli States? Più o meno quella di un film di Sergio Leone, secondo Wu Ming. A me non basta. A questo punto preferirei uno scrittore capace di stravolgere Nievo e narrarmi l'Unità d'Italia come non l'ha mai narrata nessuno: magari come la narrerebbe lo Steve Erickson di Arc d'X16. Per chi voglia togliersi lo sfizio di quanta esperienza si possa incontrare attraverso l'immaginario collettivo, consiglio le 550 pagine de La fortezza della solitudine di Jonathan Lethem17, romanzo di formazione a suo modo  e anche “romanzo storico”.

Seguo invece Scurati quando oppone a Piperno una una letteratura “sovrana”, nella quale lo scrittore si rifiuta di servire. Secondo Canetti, Kafka ci ha insegnato a resistere al potere, e questa resistenza implica sofferenza. Comporta danzare sull'orlo del vulcano, citando Henry Miller. Sfiorare la pazzia. Quest'esperienza non ce la può dare la televisione, cioè “il contrario dell'arte (poiché) ci mostra la vita grezza, nuda, lo sporco della vita”18. La Tv ci mostra la follia, porta nei talk-show coloro che saprebbero contenere i matti e rimediare alla depressione, talvolta è follia essa stessa; fa della follia qualcosa di sociologico (patetico) o caricaturale, di sofferenza ne traspare poca. La letteratura invece, quella vera, contiene l'esperienza della follia: non teme l'infelicità, né dovrebbe puntare a creare uomini utili a qualcuno o qualcosa. La letteratura è il matto che dice il vero, l'ubriaco che monologa al tavolo, il visionario che preferisce i propri sogni a quelli preconfezionati e alle fantasie di redenzione degli uomini utili. Non è un caso che il romanzo moderno inizi con un pazzo che si crede cavaliere in un'epoca di persone sensate, preferendo lanciarsi contro i mulini a vento anziché abbassarsi alle leggi dell'utilità.

Cervantes e il suo Hidalgo hanno molto da dirci tuttora: basta aprire il Don Chisciotte e abbandonarsi all'esperienza della lettura. 

 

                                                                                                    Claudio Ughetto

 

1. Antonio Scurati, La letteratura dell'inesperienza, Bompiani 2006

2. LA STAMPA, sabato 28 aprile 2007, Scrittore non essere servo, prima pagina dell'inserto TUTTOLIBRI.

3. La letteratura dell'inesperienza.

4. Scrittore non essere servo.

5.  Antonio Moresco, Il vulcano, Bollati Boringhieri 1999.

6. Ibid.

7. Ibid

8.  Sia la scrittura di Calvino sia quella di Pasolini sono, fin dall'inizio, unidimensionali e scorrevoli, non “semplici” ma “facili”(a differenza, ad esempio, di quella di Kafka, che è semplice ma non facile). Il vulcano.

9. Cito a memoria.

10. Milan Kundera, L'arte del romanzo, Adelphi 1988.

11. William Gibson, Neuromante, Mondadori

12. La letteratura dell'inesperienza.

13. Ibid.

14. Ibid.

15. Intervista di Loredana Lipperini, ora su LIPPERATURA del 30 aprile 2007.

16. Steve Erickson, Arc d'X, Fanucci 1999.

17. Jonathan Lethem, La fortezza della solitudine, Marco Tropea Editore 2004.

18. La letteratura dell'inesperienza.