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Francesco Petrarca e lo spirito della modernità

di Francesco Lamendola - 10/05/2007

 

 

 

 

 

Se qualcuno ci chiedesse di fissare il momento preciso in cui lo spirito della classicità greco-romana muore, senza esitare indicheremmo quel passo dell'Eneide in cui Virgilio, per bocca di Enea, davanti allo spettacolo delle anime che, nei Campi Elisi, si affrettano a reincarnarsi, non può trattenere un moto di sorpresa e di pena, quasi d'incredulo orrore:

   O pater, anne qualis ad caelum hinc ire pudandumst

   Sublimis animas iterumque ad tarda reverti

   Corpora? Quae lucis miseris tam dira cupido?

Ossia: "Padre, devo credere allora che alcune di queste /anime al mondo dei vivi risalgano e tornino / sotto il peso del corpo? Infelici, / cos'è mai questa brama funesta del giorno?" (Aen., VI, 719-721; trad. E. Cetrangolo). Parole impensabili nello spirito della classicità - basta confrontarle con quelle che l'ombra di Achille rivolge ad Ulisse in Odissea, XI, 488 sgg. - , giacché la vita vera, per esso, è quella terrena, e l'altra, seppure esiste, non è che un pallido riflesso di questa, in nulla a lei paragonabile e niente affatto preferibile. E ben per questo Virgilio è l'annunciatore di un mondo nuovo, di una civiltà basata su valori radicalmente diversi: un mondo ove il cristianesimo finì per imporsi proprio per la sua sostanziale affinità.

Allo stesso modo, se ci venisse domandato di indicare il momento preciso (in senso letterario) in cui compare con piena consapevolezza lo spirito della modernità, non avremmo molti dubbi: l'Epistola numero 1 del IV libro delle Familiari di Francesco Petrarca, quella in cui egli descrive l'ascensione al Monte Ventoso, in Provenza, effettuata il 26 aprile 1336. Era il giorno di Venerdì santo, e Petrarca - che sempre ama avvolgere persone ed eventi reali in un denso alone di misteriosi richiami e di ricercate analogie, certamente avrà voluto sottolineare il carattere penitenziale di quella esperienza, pervasa da un'ansia religiosa di redenzione e da una urgenza di decisioni morali irrevocabili, come nella celebre pagina del tolle et lege in cui sant'Agostino descrive, nelle Confessiones (genere letterario da lui praticamente creato ex nihilo) il momento culminante della sua conversione al cristianesimo. E poco importa se quelle decisioni irrevocabili sono continuamente e pomposamente evocate, ma sempre prudentemente rinviate, un po' come Svevo, nelle pagine de La coscienza di Zeno dedicate al vizio del fumo, ci narra dei comici e solenni "impegni" di smettere di fumare da parte del protagonista - tanto che, parafrasando Zeno Cosini, sul diario ideale di Petrarca potremmo immaginare scritto: "Oggi, 26 aprile 1336, ultimo giorno da uomo carnale: da domani, incipit vita nova". Nella lettera del Monte Ventoso, infatti, indirizzata al suo padre spirituale Dionigi da Borgo San Sepolcro, Petrarca esprime pienamente, pur fra le solite ambasce, indecisioni e gli abituali, martorianti sensi di colpa, quello che si può considerare forse il carattere proprio della modernità: la curiositas, come è stato rilevato anche da Eric J. Leed nel suo saggio La mente del viaggiatore. Dall'Odissea al turismo globale (Bologna, Il Mulino, 1992, pp 212 sgg.).

Già, la curiositas: sant'Agostino, san Bonaventura e san Tommaso l'avevano considerata un peccato, sia pure veniale; una "concupiscenza dell'occhio", un desiderio "non di godimento carnale, ma di acquisizione di esperienza personale attraverso la carne" (cfr. Zacher, Christian, Curiosity and Pilgrimage. The Literature of Discovery in Fourteenth Century England, Baltimora, 1976, p. 22). Agostino, e con lui la cultura tardo-antica e poi quella medioevale, si erano mostrati diffidenti verso la curiositas, in quanto essa tende ad allontanare l'anima dalla contemplazione del Creatore per ammirare la bellezza delle creature, invertendo così il giusto ordine dei valori.

"Et eunt homines admirari alta montium ed ingentes fluctus maris et latissimos lapsus fluminum et oceani ambitum et giros siderum, et relinquunt se ipsos" (Conf., X, 8, 15). È proprio il passo citato da Petrarca nella Epistola relativa all'ascensione del Monte Ventoso, in cui vorrebbe farci credere che, aprendo a caso il libro di sant'Agostino proprio in cima al monte, si sarebbe imbattuto: "E gli uomini se ne vanno ad ammirare gli alti monti e i grandi flutti del mare e i larghi letti dei fiumi e l'immensità dell'oceano e il corso delle stelle; e trascurano se stessi." Ora, poco importa se tale coincidenza accadde realmente, e se Petrarca la interpretò come un segno del destino; importa il fatto che volle citare proprio quel passo di Agostino a suggello della sua ascensione, un po' come, a suggello del Canzoniere, volle chiedere "pietà non che perdono" ai propri lettori, nel sonetto d'apertura, per il suo "primo giovenile errore", ossia l'amore per Laura. Sappiamo dunque in che conto tenere queste dichiarazioni solenni di Petrarca. Dobbiamo leggerle, in filigrana, come altrettante affermazioni di ciò che, esteriormente, vuol negare o come negazioni di ciò che ostenta di affermare. No, la sua parte più profonda non era affatto pentita del lungo amore per Laura - chiunque Laura sia stata e qualunque cosa con quel nome abbia egli voluto rappresentare, fosse pure l'amore per la terrena ricerca della felicità, nel senso più ampio dell'espressione. Allo stesso modo, non possiamo prendere troppo sul serio quella citazione di Agostino sulla vetta del Monte Ventoso: quel doppio uomo che è in Petrarca parla sempre un idioma cifrato e contraddittorio; la verità profonda è ben diversa da quella sbandierata ai quattro venti, fingendo di rivelarci il secretum della sua anima: e cioè un'immensa sete di gloria ed onori, una accesa sensualità, una curiosità divorante verso le cose mondane, e sia pure vissuta con cattiva coscienza - ma, appunto perciò, con delizioso rimorso - rispetto agli imperativi etici del Super-Io.

Sgombrato il campo dalle costruzioni artificiali che Petrarca ha voluto ricamare sui suoi istinti profondi, è sufficiente invertire la direzione dell'interpretazione che egli dà della propria curiositas per intenderne il senso genuino. Di quella curiositas, in sé stessa non condannabile, ma facilmente portata a smarrire la ricerca del Creatore per bearsi delle creature, Dante aveva già pronunciato la condanna senza appello nel canto del "suo" Ulisse (il XXVI dell'Inferno), travolto dalla tempesta al termine del folle volo verso i mari australi, simbolo del mistero di ciò che, nel mondo naturale, sta oltre: oltre le Colonne d'Ercole, ma anche oltre le possibilità di umana comprensione, proprio come l'Albero della Conoscenza del Bene e del Male. Per Dante, è evidente che la curiositas ("fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e cagnoscenza") costituisce il preambolo della hybris, del peccato della dismisura: il voler eccedere dalle umane possibilità, dai limiti umani, per abbandonarsi con orgoglio temerario alla sensazione dell'onnipotenza. Opposta è la disposizione d'animo di Petrarca, che nella curiositas, al contrario, vede il segno di una mente superiore, in quanto considera innato l'umano desiderio di "vedere luoghi nuovi", che però solo pochi sanno tradurre in atto. È la sua ben nota concezione aristocratica della cultura che lo spinge a plaudire ciò che il suo Agostino (ma anche san Bonaventura e lo stesso san Tommaso d'Aquino) bollano invece come peccato.

E così abbiamo individuato già due aspetti fondamentali della modernità traverso il prisma della filosofia di Petrarca: sete di conoscenza del mondo naturale e aristocratico disprezzo per il vulgo, sempre "odioso et inimico". Si dirà che, al contrario, è il democraticismo l'anima profonda della modernità, e non l'aristocraticismo; ebbene non lo crediamo. Dietro le apparenze, il democraticismo di matrice giacobina e, poi, liberale non è che la maschera di un profondo disprezzo nei confronti del "popolo". L'Umanesimo è aristocratico perché, sul modello dei classici, crede nelle qualità dell'uomo eccezionale, dell'eroe; per dirla con Machiavelli, crede nella Virtù del "Principe"; l'Illuminismo è aristocratico perché ritiene il popolo una massa ignorante e superstiziosa, incapace di autogovernarsi; quindi, con Voltaire, proclama la necessità di riforme, ma da parte di un potere assoluto: Voltaire sta a Machiavelli come Federico di Prussia sta a  Cesare Borgia. Infine il Positivismo (nella cui corrente più tarda noi siamo tuttora immersi) è aristocratico perché ha fatto suoi dèi la Scienza e la Tecnica, dunque solo il tecnico e lo scienziato "sanno" cosa sia vero e cosa sia giusto per la società. Se il volgo ignorante lo sapesse, non ci sarebbe bisogno di costringerlo, con la minaccia delle sanzioni di legge, alle vaccinazioni mediche obbligatorie; né lo si vedrebbe così di frequente protestare contro i portentosi ritrovati dell'apparato tecno-scientifico, siano essi alimenti geneticamente modificati o centrali per la produzione di energia nuclearte o linee ferroviarie ad alta velocità nel cuore delle valli alpine. Si noti che il marxismo-leninismo non è che una variante di questo aristocraticismo positivistico: solo il partito dei veri rivoluzionari (anzi, la ristretta cerchia dei suoi capi) sa che cosa è bene per il popolo; il popolo, da sé, non ragiona: è perfino capace, nelle elezioni dell'Assemblea Costituente russa del novembre 1917, di dare ai suoi veri rappresentanti (cioè i bolscevichi) un misero quarto dei membri, e tre quarti ad altre formazioni politiche, come i socialrivoluzionari. Inaudito!

Tornando a Petrarca, il terzo carattere fondante della modernità è - ancora - presente nell'Epistola del Monte Ventoso, e potremmo riassumerlo così: una crescita ipertrofica dell'Ego individuale. Infatti la curiositas di Petrarca è solo apparentemente estrovertita, cioè diretta al mondo naturale circostante: basta leggere anche frettolosamente quel testo per rendersi conto che non vi è nominata una sola specie di pianta o d'animale o di minerale, neanche la più comune, quella che perfino le persone più incolte erano in grado di riconoscere; che nulla vi si dice di pertinente sulle precedenti scalate di quel monte, o in generale sul rapporto storico fra esseri umani e montagne; nulla sulle risorse economiche, sulle coltivazioni, sull'allevamento, sull'estrazione dei minerali; nulla sul clima; nulla sull'altitudine; nulla sul senso filosofico del viaggio, della salita, della scoperta; insomma nulla di nulla di quanto pertiene a una sana curiosità e a un  normale spirito d'osservazione. Non del Monte Ventoso si parla, ma di Francesco Petrarca che ne sale le pendici, che si dilunga in sentieri sbagliati, che fatica verso la vetta, che si consulta col fratello Gherardo, con sant'Agostino e con la sua coscienza tormentata e lacerata, sopesa tra due mondi: l'antico al tramonto ed il nuovo, non ancora ben delineato. Sarebbe vano, leggendo quella lettera, cercarvi dei riferimenti naturalistici precisi: è un luogo dello spirito; ma non dello spirito in generale: dello spirito di Francesco Petrarca. Esattamente come sarebbe vano cercare nel Canzoniere qualche traccia del personaggio di Laura, dei suoi sentimenti, della sua individualità; Laura è un'astrazione, un miraggio, un sogno: ma un sogno voluttuosamente narcisistico. Quel che il Canzoniere non ci dice di Laura, ci dice in abbondanza del suo malinconico e onnipresente innamorato: come egli soffra per amore (ma soffre davvero?), come si strugga di tristezza, come invochi la morte e s'immagini di vedere l'amata impietosirsi sulla sua pietra tombale… Fantasie adolescenziali incredibilmente banali, spudoratamente ostentate e macroscopicamente artefatte, il cui monotono filo conduttore è l'Io sconfinato, incontenibile, patologico del poeta. Curiositas? Sì, ma di sé stesso: è come se la realtà esterna fosse una galleria di specchi, e in ciascuno di essi Petrarca contemplasse ed ammirasse sé stesso, ritratto sotto ogni angolazione possibile e immaginabile. E senza dimenticare la bella figura che vuol fare sugli altri : anche quando si rimprovera, anche quando si mortifica: come fa, appunto (oltre che nel Secretum), nella lettera in questione, diretta al frate Dionigi da Borgo San Sepoclro - ma diretta anche, e soprattutto, alla posteritas, affinchè nei secoli dei secoli gli uomini possano riconoscere e celebrare la grandezza del suo autore.

Di nuovo, si dirà che questo non è moderno: che moderno è Colombo nella traversata dell'Atlantico o Copernico nella costruzione della nuova immagine del cosmo. Al contrario, ci sembra evidente che in Colombo e in Copernico si verifichi esattamente la stessa inversione dell'immagine rappresentata: l'uomo moderno non cerca l'altro, bensì cerca l'altra parte di sé stesso. Per cui l'altro si riduce a pretesto per trovare la conferma del proprio Ego debordante: se la conferma ha luogo, allora l'altro è riconosciuto come una copia di sé (e lo si può tollerare, almeno fino a quando si rivelerà utilizzabile e manipolabile); se invece rappresenta una smentita, lo si rimuove e lo si elimina dall'orizzonte conoscitivo - e, all'occorrenza, fisico (come le popolazioni extra-europee sottoposte a genocidio o gli animali e le piante considerati "nocivi"). Vasco Nunez de Balboa, che nel 1513 - mentre marcia attraverso l'istmo di Panama alla scoperta del Pacifico - fa divorare vivi dai suoi mastini gli indios colpevoli di omosessualità, vuole uccidere quella parte inconfessabile che alberga nei recessi segreti del "virile" uomo bianco, così come il missionario protestante che, nel XIX secolo, vuole imporre abiti lunghi e "decenti" alla conturbante vahiné polinesiana non è che un analfabeta delle proprie pulsioni, cui reagisce aggredendo il corpo dell'altro. Non è un caso che spesso la modernità abbia coinciso con il moralismo sessuale (di cui la presente dissoluzione non è affatto segno di liberazione, ma solo l'altra faccia della medaglia); l'ipertrofia dell'Ego, che produce l'ipertrofia dei prolungamenti materiali del corpo egoico, cioè gli strumenti tecnologici, è direttamente proporzionale alla sua frustrazione sessuale. O sia ama il potere o si ama l'amore, tertium non datur: e se è vero che il potere logora chi non ce l'ha, è pur vero che il potere logora, anzi distrugge, la normale esplicazione dell'istinto sessuale e lo riduce a maschera sfigurata di sé stesso, pervertendolo in sadismo, masochismo e necrofilia.

Siamo così giunti al quarto aspetto fondante della modernità, di cui Petrarca appare esemplare anticipatore. Egli, infatti, è troppo innammorato di sé stesso per poter amare le donne; ha, nondimeno, una natura fortemente sensuale: non gli rimane altro da fare che "sublimare" (in realtà, deformare e stravolgere orribilmente) i suoi istinti sessuali, trasferendo tutta la sua libido in una continua e ossessiva ricerca di autocelebrazione. La sensualità, introvertita, si tende al massimo e rientra, non in una sintesi superiore - come in certe pratiche tantriche finalizzate al trattenimento del seme per attingere sfere superiori di libertà coscienziale - ma in una ricerca compulsiva di autoreferenzialità e di autoaffermazione (spesso, ma è un espediente che non inganna nessuno, travestita da autoflagellazione e da automortificazione). Il tutto - si badi - senza mai perdere di vista il proprio tornaconto immediato, il proprio utile spicciolo - a cominciare da quel beneficio ecclesiastico che gli consente la deliziosa sensazione della sicurezza economica, sia pure a prezzo di qualche compromesso con la sua coscienza e con la sua vita sociale e affettiva.

Ed eccoci giunti al quinto e ultimo elemento costitutivo della modernità: un opportunismo senza vergogna e senza limiti; una facoltà calcolante sempre desta dietro gli apparenti voli dell'anima romantica; un pragmatismo e un utilitarismo mai dimentichi di coniugare ciò che è "giusto" e ciò che è conveniente. I navigatori portoghesi e spagnoli che sfidano le rotte dell'Occidente e dell'Oriente cercano spezie, oro e pietre preziose, ma anche anime da convertire e da salvare; George Washington e Thomas Jefferson vogliono affermare i "diritti naturali" della persona umana - la proprietà non meno della vita - ma non li sfiora neanche l'idea di riconoscerli agli altri tipi umani: l'Indiano che abita appena oltre la foresta, e il Nero che lavora come schiavo nelle loro piantagioni. George Bush junior e Tony Blair vogliono portare la democrazia in Irak e in tutto il Medio Oriente (alleati, com'è perfettamente logico, alla monarchia saudita e allo sceicco del Kuwait, che ne sono illustri esempi) e anche, già che ci sono - why not? - mettere le mani su quel bendidio di pozzi petroliferi che scoppiano letteralmente di greggio. Due piccioni con una fava: l'utile e il giusto; anzi - James e Dewey docent - , l'utile che diventa criterio di giudizio e di verità, e dunque l'utile che diventa, appunto perché utile, anche giusto.

Riassumendo. Curiosità desacralizzata e volontà di dominio; profondo disprezzo del vulgus, sulla base di un aristocratismo non di matrice spirituale, bensì rozzamente materiale, e conseguente idolatria servile dell'esistente, cioè del più forte; ipertrofia dell'Ego spinta fino al delirio solipsistico (culminante nell'Idealismo hegeliano); perversione dell'istinto sessuale; cinismo e opportunismo senza limiti, spesso accompagnati da un moralismo d'accatto profondamente ipocrita: ecco i cinque pilastri della modernità che troviamo fedelmente anticipati in Petrarca e, specificamente, nella prima lettera del IV libro delle Epistole Familiari. È  proprio vero che, nell'essere umano e nelle sue opere, si trovano molte più cose di quante egli creda di possedere o di avervi poste deliberatamente. Si trovano quasi più indicazioni su quel che egli realmente è che non di chi egli pensi di essere; a dispetto dei suoi sforzi - con sé stesso e con gli altri - per apparire altro, per dare un'immagine onesta e rassicurante delle sue motivazioni e degli scopi verso i quali tende.