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Albert Camus: l'uomo in rivolta

di Francesco Lamendola - 10/05/2007

 

 

 

 

 

 

 

Francesco Lamendola

 

 

 

 

 [Vengono mostrate con il proiettore alcune immagini fotografiche riguardanti la vita di Albert Camus.] Lo straniero, nell'edizione Bompiani, che vedete. La copertina si riferisce al film che fu tratto dal romanzo, di Luchino Visconti, del 1967. Gli interpreti furono Marcello Mastroianni, Anna Karina, Bernanrd Blier, Bruno Cremer. È un film di Visconti che ha fatto discutere; non è considerato tra i suoi capolavori. Perché? Be', per esempio il Mereghetti, uno dei nostri maggiori critici cinematografici, ha affermato che "Visconti ha scelto una sorta di realismo onirico, ma ha finito per trasformare Meursault in un Oblomov". Meurasult, il protagonsta di questo romanzo, è un personaggio caratterizzato da una sorta di indifferenza nei confronti della vita. Indifferente accoglie la notizia della morte della madre; indifferente intreccia una relazione con una ragazza;  con una sorta di apatia, di  "non capir beme come", uccide un Arabo su una spiaggia - siamo  in Algeria - e con indifferenza accoglie la  condanna a morte. Qui, appunto, c'è Marcello Mastroianni. 

     L'altro romanzo importante, che ha dato la celebrità - anche presso un pubblico europeo e mondiale - a Camus è La peste. Con La peste, in realtà, si passa da una dimensione di esistenzialismo nichilistico, da una  dimensione di assurdo esistenziale, di angoscia, di sofferenza, di solitudine alla dimensione della speranza. La peste - peste che va intesa in senso metaforico - è comunque descritta come una vera pestilenza. Una mattina gli abitanti di Orano, in Algria, si svegliano e scoprono numerosi topi morti, che sono immersi nel sangue e nel vomito. Da questo inizio, apparentemente quasi surrealistico, si passa a un'atmosfera sempre più drammatica, in cui la cittadinanza, e in particolare un gruppo di medici, sono sempre più coinvolti, e scoprono i valori della solidarietà, i valori dell'impegno collettivo; e quindi  questo romanzo è all'insegna di una visione dell'uomo e del mondo diversa da quella che si  vedeva ne Lo straniero. Si potrebbe paragonare  un po' il secondo romanzo al cosiddetto pessimismo agonistico di Lepardi; nel senso che, pur restandoi convinto dell'assurdità del tutto, Camus ne La peste rivolge un appello alla solidarietà umana, e  sostiene che dobbiamo combattere contro l'assurdo, cercando di dare noi un senso all'esistenza.

      Camus è stato anche un sostenitore della battaglia contro la pena di morte.. Insieme allo scrittore inglese Arthur Koestler si è impegnato  in questo senso, e ha scritto un saggio, Contro la ghigliottina, di cui vedete qui la copertina, in cui  - non in nome di un generico buonismo, non in nome di un filantropismo sdolcinato, ma ribadendo  la responsabilità degli atti umani, e quindi  ribadendo la necessità di sanzionare reati gravi - sostiene tuttavia che lo stato non può ergersi a giustiziere di quegli individui che commettono reati, che infrangono la legge morale, poiché lo stato  - che dispone di ben altri mezzi per far rispettare la giustizia e la convivenza -  se ricorre alla pena di morte, commette un abuso e una sorta d'imbarbarimento in nessun modo giustificabile.

      Qui abbiamo ancora una copertina de Lo straniero, nell'edizione successiva - sempre della Bompiani; un'altra foto di Camus, con l'inseparabile sigaretta. Questa è  una foto dell'ultimo peridodo, una delle ultime fotografie - è ancora la copertina de L'uomo in rivolta, sempre della Bompiani; e qui abbiamo alcune altre foto. Anche questa è una foto celebre. Qui abbiamo i festeggiamenti per l'indipenenza dell'Algeria, nel 1963.

     Camus teneva molto alla sua "algerinità". Quando suo padre mortì poco dopo la battaglia della Marna, nel novembre del 1914, egli scrisse in seguito che suo padre era morto "per un Paese che non era il suo. Camus ha sempre ribadito la propria dimensione "mediterranea", più che francese. E in effetti, aveva tentato di entrare nel giornalismo in Algeria; ma, avendo scritto un  articolo contro il governo, questo si adoperò perché nessun giornale algerino gli desse più la possibilità  di lavorare; e quindi fu letteralmente costretto a trasferirsi in Francia, dove cominciò a lavorare per Paris-Soir, per altri giornali, per altri quitidiani. Poi, durante la Resistenza, collaborò a Le Combat e fu anzi tra i principali animatori di questo importante foglio clandestino della resistenza anti-tedesca. Si può dire, pertanto, che il governo francese ottenne l'obiettivo opposto a quello che si era prefisso, quando aveva cercato di "falciargli l'erba sotto i piedi" in Algeria. Alcuni autori parlano a questo proposito di una dimensione - come possiamo dire - di inconscio coloniale in Camus. Segnalo in particolare la casa editrice Fayard che ha pubblicato Cultura e imperialismo di Edward Said, il quale sostiene che Camus, insieme a George Orwel,l è stato uno degli autori europei in cui il rapporto inconscio dell'Europa con il problema coloniale, il problema dell'imperialismo, è più sentito.

     Entrambi  furono celebri per la chiarezza e la semplicità del loro stile; entrambi videro nella guerra civile spagnola un laboratorio politico fondamentale; entambi furono impegnati  sul fronte antifascista; entrambi furono testimoni, a seconda guerra mondiale conclusa, dello sgretolamento degli imperi coloniali. La posizione di Camus fu una posizione  particolarmente delicata quando scoppiò, poi, la guerra per l'indipendenza algerina; perché - a differenza di Sartre, per  esempio, - Camus rifiutò di lasciarsi ingabbiare in una delle due alternative "sechche": o con il colonialismo francese, o con l'indipendenza radicale. Lui avrebbe auspicato una sorta di compromesso, una convivenza; anche perchè, nato  in Algeria - da genitori francesi, ma nato in Algeria - si sentiva anch'egli "algerino" e riteneva che i Francesi d'Algeria, insieme agli Algerini, avrebbero  dovuto formare una patria in cui le due due civiltà, le due culture, le due religioni potessero convivere.

     Qui abbiamo alcuni paesaggi algerini… La dimensione "mediterranea", comunque, è importante perché - come diremo tra poco -  ne L'uomo in rivolta egli dedica un ampio capitolo conclusivo a Il pensiero meridiano, inteso come il pensiero del  mezzodì, il pensiero mediterraneo, il pensiero della luce, del colore, della vita; contrapposto a un'Europa settentrionale, un'Europa dominata dallo storicismo tedesco che, invece, secondo  lui era il pensiero della mezzanotte, il pensiero delle tenebre.  E, come diremo tra poco, lui che ha sempre avuto nostalgia per il sole, per la luce, per i colori - c'è anche una sensualità nella sua dimensione mediterranea, anche a livello narrativo - e, del resto, lui disse che un  bambino povero (e lui ebbe un'infanzia povera; dicevamo che rimase orfano di padre  quando aveva meno di  un anno di età; la sua famiglia ebbe grossi problemi economici, lui poté studiare a fatica - problemi anche di salute, poi, come credo sappiate, tanto che dovette anche abbandonare il gioco del calcio, che era la sua grane passione - lui disse che anche un bambino povero, dove ci siano il mare e il sole, non trascorrerà mai un'infanzia veramente povera. Quindi questa dimensioione dei colori, dei profumi, della vegetazione, della luce del Mediterraneo è sempre presente nel suo pensiero - più avanti diremo  in che senso il pensiero meridiano lui lo vede come una possibile alternativa alla decadenza, alla crisi della modernità e alle ombre minacciose con cui la società europea si andava avviando  verso la propria autodistruzione. Questa, almeno, è l'analisi che egli fa.

    Questa è una delle ultime fotografie… Si è occupato molto anche di teatro - ha scritto Caligola, fra l'altro; si è occupato anche di riduzioni teatrali di altri autori; per esempio,  Requiem per una monaca di William Faulkner. I suoi  interessi, quindi, vanno dal giornalismo al romanzo, al saggio filosofico, al teatro.

     Questa foto di Nietzsche era appesa nel suo studio. Nietzsche costituisce un  punto di riferimento inderogabile del suo pensiero. Qui, ancora, abbiamo immagini della Kasbah… Insomma, una grande nostalgia per questa sua infanzia, per questa  sua dimensione mediterranea che non verrà mai smentita. [Qui finisce la proiezione delle fotografie; la conferenza prosegue liberamente.]

  

     Camus muore nel 1960, prima di poter assistere alla conclusione della drammartica guerra d'indipendenza algerina. Stavo dicendo che a quell'epoca Sartre  ha preso una posizione molto pù esplicita e molto più secca di Camus; ma in realtà, fra i due la rottura c'era già stata, nel 1951-52; perché nel 1951 esce L'uono in rivolta, e questo testo  segna la rottura che poi si approfondisce; perché  - estremamente in sintesi - la posizione di Camus viene accusata da Sartre, sostanzialmente, di essere piccolo-borghese, di essere una scelta ambigua; perché, invece di fare una chiara scelta di classe, Camus preferisce parlare non dentro le masse, ma a nome delle masse. In particolare,  quello che Sartre non accettava era la diffidenza, per non dire la critica spietata che Camus fa del concetto stesso di rivoluzione; in quanto Camus sostiene che la rivolta dell'uomo per costruire una società migliore  è sempre approdata a esiti disastrosi, che hanno creato condizioni ancora più oppressive; e questa sua sfiducia nelle rivoluzioni, a Sartre è sembrata una specie di diserzione dal campo della sinistra. Ricordiamo che Camus si era iscritto - per un breve periodo, in verità - al partito Comunista Francese; ma aveva sempre mantenuto una sua posizione critica, anche nei confronti della politica dell'U.RS.S., per esempio. E, se da un lato si era dimesso da un posto governativo nell'UNESCO, per protesta, quando l'O.N.U. aveva accettato l'ingresso della Spagna franchista,  perché Camus riteneva illegittimo che un governo come quello di Franco venisse accolto nelle Nazioni Unite - tuttavia non risparmiò critiche alla politica sovietica, in particolare alla repressione dei moti, delle rivolte operaie scoppiate a Berlino Est nel 1953.

     Stavamo dicendo che il percorso  da Lo straniero a La peste è un percorso dal nichilismo esistenzialistico  alla dimensione della solidarietà e della speranza. Meursault, il protagonista de Lo straniero - è un  po', se vogliamo, una specie di "uomo senza qualità" nel solco di quegli anti-eroi dei primi anni del Novecento che da Rober Musil a Franz Kafka, allo stesso Proust, allo stesso Joyce, passando per Thomas Mann, per Pirandello e Svevo, arrivano all'esistenzialismo. Negli ultimi giorni, in attesa della condanna a morte, Meursault riceve la visita del prete della prigione, il quale cerca di  convertirlo; ma Meursault lo respinge sdegnosamente, gli dice che non ha tempo per Dio proprio perché gli rimane poco tempo da vivere. Vi leggo l'ultima pagina - il romanzo fu pubblicato nel 1942.

     "Partito lui, ho ritrovato la calma.  Ero esausto e mi son gettato sulla branda. Devo aver dormito, perché mi son svegliato  con delle stelle sul viso. Rumori di campagna giungevamo fino a me. Odori di notte, di terra e di sale rinfrescavano le mie tempie. La pace meravigliosa di quell'estate assopita entrava in me come una marea. In quel momento, e al limite della notte, si è udito un sibilo di sirene. Annunciavano partenze per un mondo che mi era ormai  indifferente per sempre. Per la prima volta dopo tanto tempo ho pensato alla mamma. - Infatti il romanzo si apre con Meurasult che riceve la notizia della morte della mamma  e si reca per assistere al funerale. Ma la mamma è già morta; era  da tempo ricoverata in una casa di riposo, in un ospizio. - Mi è parso di comprendere perché, alla fine di una vita, si era preso un "fidanzato"; perché aveva giocato a ricominciare.  Laggiù, anche laggiù, intorno a quell'ospizio dove vite si stavano spegnendo, la sera era come una tregua melanconica. Così vicina alla morte, la mamma doveva sentirsi liberata e pronta  a rivivere tutto. Nessuno, nessuno aveva il diritto di piangere su di lei. E anch'io mi sentivo pronto a rivivere tutto, come se quella grande ira mi avesse purgato dal male, liberato dalla speranza. Davanti a quella  notte carica di segni e di stelle, mi aprivo, per la prima  volta, alla dolce indifferenza del mondo. Nel trovarlo così simile a me, finalmente così fraterno, ho sentito  che ero stato felice, e lo ero ancora. Perché tutto sia consumato,  perché io sia meno solo, mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori, il giorno  della mia esecuzione; e che mi accolgano con grida di odio." Questa era la conclusione de Lo straniero.

     Passerei direttamente a L'uomo in rivolta, che è il saggio filosofico a cui  vorrei dedicare il nucleo di  questa conversazione. L'uomo in rivolta: in rivolta contro chi? Riisponde Camus: "Che cos'è un uomo in rivolta? È un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi. Uno schiavo che in tutta la sua vita ha ricevuto ordini, giudica ad un tratto inaccettabile un nuovo comando. Qual è il contenuto di questo no?

     Significa, ad esempio, "le cose hanno durato troppo", "fin qui sì", al di là no", "vai troppo in là" e anche "c'è un limite oltre il quale non andrai". Insomma, questo no afferma l'esistenza di una frontiera. Si ritrova la stessa idea di limite nell'impressione dell'uomo in rivola che l'altro "esageri", che estenda il suo diritto al di là di un confine oltre il quale un altro diritto gli fa fronte e lo limita. Così, il movimento di rivolta poggia, ad un tempo, sul rifiuto categorico di un'intrusione giudicata intollerabile e sulla certezza confusa di un buon diritto, o più esattamente sull'impressione, nell'insorto, di avere "il diritto di…". Non esiste rivolta senza la sensazione d'avere in qualche modo, e da qualche parte, ragione. Appunto in questo lo schiavo in rivolta dice ad un tempo di sì e di no."

     Nel saggio L'uomo in rivolta ritorna più volte la figura di Ivan Karamazov. Per chi ha presente il romanzo di Dostoevskij, si tratta del fratello medio della famiglia Karamazov. Più grande di Alioscia, più piccolo - di poco - di Dimitrij, è l'intellettttuale dei tre. È colui che fa il "gran rifiuto" nei confronti di Dio, che pronuncia il  "no definitivo" nei confronti di Dio, sostenendo che anche soltanto la sofferenza di un bambino sarebbe un motivo sufficiente per rifiutare il paradiso e per rifiutare Dio, con tutta la sua promessa di paradisi: perché la salvezza o è per tutti, oppure non ha senso. 

     "Il dramma di Ivan - scrive Camus - nasce dall'esservi troppo amore  senza oggetto. Quest'amore che, negato Dio, rimane inutilizzato, ci si decie allora a trasferirlo sull'essere umano in nome di una generosa complicità."

     Mettiamo un po' di carne al fuoco per avere anche più spunti di riflessione.

      "La rivolta metafisica - scrive Camus - è il movimento per il quale un uomo si erge contro la propria condizione  e contro l'intera creazione.  È metafisica perché contesta i fini dell'uomo  e della creazione. Lo schiavo protesta  contro la condizione che gli viene fatta all'interno del suo sato: l'insorto metafisico contro la condizione che gli viene fatta in quanto uomo.  Lo schiavo ribelle afferma che c'è qualche cosa in lui  che non accetta il modo in cui lo tratta il suo signore; l'insorto metafisico si dichiara frustrato  dalla creazone. Sia per l'uno che per l'altro, non si tratta soltanto di una pura e semplice  negazione.  In ambedue i casi, troviamo  infatti un giudizio di valore in nome del quale  l'insorto rifiuta la sua approvazione  alla condizione che gli è propria.

     Lo schiavo che si erge contro il signore non si cura, notiamolo, di negare questo signore in quanto essere. Lo nega in quanto padrone.  Nega che abbia il diritto di negare lui, schiavo, in quanto esigenza.  Il signore è decaduto nella misura stessa in cui non risponde ad une'sigenza che trascura. Se gli uomini non possono riferirsi a un valore comune, riconosciuto da tutti in ciascuno,  allora l'uomo è incomprensibile all'uomo.  Il ribelle esige che tale valore sia chiaramente riconosciuto  in lui perché sospetta o sa che, senza questo principio, il disordine e il delitto regnerebbero sul mondo. Il movimento di rivolta appare in lui come una rivendicazione di chiarezza e d'unità.  La più elementare ribellione esprime, in modo paradossale, l'aspirazione a un ordine.

     Parola pe rparola, questa descrizione conviene all'insorto metafisico. Egli si erge su di un mondo in frantumi per rivendicarne l'unità, oppone il principio di giustizia che sta in lui al principio d'ingiustizia che vede all'opera nel mondo.(…)

    La storia della rivolta metafisica non può  dunque confondersi con quella  dell'ateismo. Sotto un certo aspetto, anzi, essa si confonde con la storia contemporanea  del sentimento religioso. Più che negare, l'uomo in rivolta sfida. Primitivamente almeno, non sopprime Dio, gli parla semplicemente da pari a pari. Ma non si tratta di un dialogo cortese. Si tratta di una polemica animata dal desiderio di vincere. Lo schiavo comincia col reclamare giustizia e finisce per volere la sovranità. Ha bisogno di dominare a sua volta. La sollevazione contro la condizione si coordina in una spedizione smisurata contro il cielo per ricondurne un re prigioniero di cui si pronuncerà dapprima la destituzione, e poi la condanna a morte.

     Qui viene in mente la figura di Prometeo, che infatti Camus tratta specificamente come tipica figura del  titanismo ribelle; e qui possiamo vedere anche, se volete, una dimensione tardo-romantica o psot-romantica presente in Camus. Nei suoi slanci di titanismo prometeico, viene in mente lord Byron; vengono in mente anche altri autori del romanticismo - per  certi aspetti anche, come dicevo prima, Leopardi.

     Arrivo al pensiero meridiano, che è la parte finale del saggio, in cui Camus cerca  di fare una proposta. Contro le tenebre della modernità, che tendono a gettare una buia notte sull'Europa, Camus propone, come rimedio, quello che egli chiama il pensiero meridiano, cioè il pensiero della luce, il pensiero solare. Un pensiero di tradizione mediterranea che incomincia con i presocratici e arriva, su su, fino alla grande stagione  rinascimentale del naturalisno: di Bernardino Telesio, Giordano Bruno e Tommaso Campanella. Nel capitolo intitolato Il pensiero meridiano, egli afferma:

      "La ricolta cozza instancabilmente contro il male, dal quale non le rimane che prendere un nuovo slancio. L'uomo deve signoreggiare in sé tutto  ciò che deve essere signoreggiato. Deve riparare nella creazione tutto ciò che può essere riparato. Dopo di che, i bambini moriranno sempre ingiustamente, anche in una società perfetta. Nel suo sforzo maggiore, l'uomo può soltanto proporsi di diminuire aritmeticamente il dolore del mondo. Ma ingiustizia e sofferenza perdureranno, e, per limitate che siano, non cesseranno di essere scandalo. Il "perché" di Dimitri Karamazov continuerà a risuonare, l'arte e la rivolta non moriranno se non con l'ultimo uomo.

     "C'è un male, senza dubbio, che gli uomini accumulano nel loro desiderio forsennato di unità. Ma un altro male sta all'origine del loro  movimento disordinato. Davanti a questo male, davanti  alla morte, l'uomo dal più profondo di sé grida giustizia. Il cristianesimo storicista non ha risposto a questa protesta contro il male se non con l'annuncio del regno, poi della vita eterna, che richiede la fede. Ma la sofferenza logora la speranza e la fede; rimane allora solitaria, e senza spiegazioni. Le folle del lavoro, stanche di patire e di morire, sono folle senza Dio. Il nostro posto è quindi al loro fianco, lontano dai vecchie dai nuovi dottori. Il cristianesimo storico rinvia oltre la storia la guarigione del male e dell'omicidio che sono tuttavia sofferti nella storia. Anche il materialismo contemporaneo crede di rispondere a tutti gli interrogativi. Ma, servo della storia, accresce il dominio dell'omicidio storico e insieme lo lascia senza giustificazione tranne nell'avvenire il quale, anch'esso, richiede la fede."

     Mi pare molto acuto come qui Camus ha colto quella dimensione non solo storicistica, ma anche escatologica, presente nello stesso marxismo. Questa è, sostanzialmente, la ragione della rottura con Sartre: perché se Sartre, da buon marxista, crede nella dialettica della storia, cioè crede che quando  l'ultimo dominio di classe sarà stato infranto, allora verrà restaurato il regno di Dio sulla terra - il regno di Dio storicizzato, cioè Dio che è diventato la Storia (del resto questa derivazione da Hegel la vediamo anche nell'idealismo, la vediamo in Croce, in Gentile). Camus, invece, non ci crede; Camus la considera una grande menzogna; ed è convinto che - purtroppo - la tendenza  dell'uomo al dominio  sull'uomo sia una tendenza astorica, e sia una tendenza che risiede nella sua stessa natura.   

    In ambedue i casi bisogna aspettare -in ambedue i casi, cioè sia nel caso della fede religiosa, sia nel caso della fede marxista - e intanto l'innocente non cessa di morire. Da venti secoli a questa parte, la somma complessiva del male non è scemata nel mondo." - Questo è un discorso radicalmente anti-progressista. - "Nesuna parusia, né divina né rivoluzionaria, si è compiuta.  Un'ingiustizia rimane inerente ad ogni sofferenza, anche la più meritata agli occhi degli uomini.  Sempre grida il lungo silenzio di Prometeo davanti alle forze che l'opprimono.  Ma nel frattempo, Prometeo ha visto gli uomini volgersi anch'essi  contro di lui, e schernirlo. Costretto tra il male umano e il destino, il terrore e l'arbitrio, non gli resta che la rivolta per salvare dall'omicidio quanto ancora può essere salvato, senza cedere all'orgoglio della bestemmia.

     "Si comprende allora che la rivolta non può fare a meno di uno strano amore.  Coloro che non trovano quiete né in Dio né entro la storia  si danno a vivere per  quelli che, come loro, non possono vivere; per gli umiliati. Il movimento più puro della rivolta si corona allora del grido lacerante  di Karamazov: "Se non sono salvi tutti, a che serve la salvezza  di uno solo!"

     Qui vediamo, per esempio, il protagonista de La peste. Il protagonista de La peste è uno che non trova quiete né in Dio - per parafrasare queste righe - né nella storia. E tuttavia sente forte, invincibile, il desiderio di spendersi per quelli che "non possono più vivere", gli umiliati - e gli offesi (aggiungiamo noi) per usare un'espressione, ancora, dostoevskiana.

     Per quello che riguarda il pensiero meridiano c'è un bel saggio, che vi segnalo, di Mario Alcaro, uno studioso italiano, Filosofie della natura, in cui si prende particolarmente in esame l'aspetto della proposta del pensiero meridiano. Mario Alcaro, passando in rassegna le pagine dedicate al pensiero meridiano, osserva che Camus, per giungere alle sue conclusioni sul pensiero meridiano, in qualche modo prende posizione contro la modernità, contro la tarda modernità.

     "La rivoluzione del XX secolo sostituisce a Dio la storia. Quest'ultima viene divinizzata; essa cancella la misura delle cose e dell'uomo, perché riconosce solo il principio dell'efficacia e del successo, e quindi ci consegna solo un  mondo - sono parole di Camus - dominato dai mercanti; una cultura, quindi, intrinsecamente nichilista. La storia cancella la misura delle cose. Gli uomini dell'Europa, abbandonati alle ombre, si sono distolti dal punto fisso e irraggiante. Credono ormai solo alla potenza e alla storia e non si accorgono che questa loro unica fede si converte in un meccanismo omicida e smisurato, contro cui diviene sacra una  nuova rivolta, in nome della misura e della vita. Non credono più a ciò che è, al mondo e all'uomo vivo. L'Europa non ama più la vita: questo è il suo segreto."

      Pensate che parole profetiche, nel 1951: L'Europa - non l'Occidente; ripeto: l'Europa, non l'Occidente: c'è una dimensione specifica, che oggi si tende ad annacquare per una serie di ragioni; ma l'Europa è l'Europa; l'Europa non è gli Stati Uniti - l'Europa non crede più alla vita, non ama più la vita; questo- dice Camus - è il suo segreto.

    "Per questo hanno voluto cancellare la gioia  dalla scena del mondo. Negando la giusta grandezza della vita, hanno dovuto  puntare tutto sulla loro eccellenza." Ecco qua: il maximum e non l'optimum. "In mancanza di meglio, hanno divinizzato sé stessi, e la  loro sciagura ha avuto inizio." Sembrano parole di San Paolo, dall'Epistola ai Romani. "E la loro sciagura ha avuto inizio."

     E poi, ancora: "Allorquando Dio viene espulso dall'universo storico, nasce l'ideologia tedesca - lo storicismo tedesco - nella quale l'azione non è più perfezionamento, ma pura conquista, cioè tirannia."

     Che cosa si conclude da questo ragionamento? Si conlcude: primo, che la madre di tuti i problemi della modernità è una manipolazione sconfinata, da parte del pensiero strumentale, del pensiero calcolante; la quale richiede che si faccia di nuovo  ricorso alla natura come a un suo limite e a una sua misura. Il ritorno alla natura come ritorno al senso del limite, da parte di una umanità che ha smarrito - di una cultura europea che ha smarrrito - il senso del limite e il senso della misura. Secondo: Camus vede nel XX secolo  un contrasto profondo fra la storia divinizzata e la natura: da una parte manipolazione tecnologica e dall'altra istanze basilari della vita ed equilibrio naturale; e individua  nel Mediterraneo, nel pensiero meridiano, il possibile antidoto a questa degenerazione. Guardare al Mediterraneo, dunque, come a un possibile antidoto alla volontà di potenza  e di dominio dell'uomo occidentale.

 

      Adesso svogliamo noi qualche riflessione. "L'uomo, certo, non si riassume nell'insurrezione - sono ancora parole di Camus; ma la storia di oggi ci costringe a dire che la rivolta è una delle dimensioni essenziali dell'uomo: è la nostra realtà storica. A meno di fuggire la realtà, dobbiamo trovare in essa i nostrio valori. Si può, lungi dall'universo religioso e dai suoi valori assoluti, trovare una regola di condotta? È questa la domanda posta dalla rivolta."

     È ancora la grande lezione di Nietzsche. All'annuncio di Nietzsche "Dio è morto", l'uomo è in grado di elaborare dei valori relativi che possano sostituire i valori assoluti del Dio che è morto, oppure no? Questa è la grande sfida, sulla quale Camus gioca la sua partita. La rivolta trae l'uomo dalla sua solitudine: celebre la frase di Camus "mi rivolto, dunque siamo"; che, parafrasando e capovolgendo il senso del cogito cartesiano - mi rivolto, dunque siamo -  opera la scoperta della fraternità, della solidarietà, della uscita dalla condizione di isolamento, di finitezza, di solitudine  dell'io. A questo punto, però, ci possiamo chiedere se sia proprio così. Ancora Camus: "Al Dio personale, la rivolta può domandare personalmente dei conti. Non appena questi regna, la rivolta si aderge  nella sua più fiera risolutezza, a pronunciare il no definitivo"; e cita Caino, cita Prometeo, cita Ivan Karamazov. "Il no definitivo"; quindi Camus, in nome di un umanismo integrale, è colui che pronuncia il no definitivo ai valori assoluti e all'idea di Dio.

    Il no definitivo è un "no" romantico. Prima abbiamo ricordato Byron; possiamo ricordare anche un certo Leopardi, il Leopardi che scrive l'Inno ad Ahrimane.  È un inno quasi satanico, nella sua celebrazione del non-senso del mondo. Nell'Inno ad Ahrimane Leopardi, praticamente, identifica Dio con il Male. Infatti c'è quella famosa pagina dello Zibaldone in cui scrive: "Tutto ciò che esiste è male; e l'unica cosa buona è il non esistere." Camus è figlio di questa concezione del mondo.

      Il "no definitivo" lo abbiamo visto, a livello metafisico, in Nietzsche; lo vediamo, a livello scientifico, in Darwin, in Marx, in Freud: i grandi "no" di fine Ottocento e del primo Novecento. Darwin che, oltretutto, muove da una visione religiosa - sapete, lui studiava per diventare pastore anglicano - in base alla teoria dell'evoluzione è arrivato alla conclusione che, pur sforzandosi di vederla, la Provvidenza non riesce a vederla, nel meccanismo dell'evoluzione; quindi arriva alla conclusione di un mondo senza Dio. Marx - be', è inutile dire; Freud, con la sua visione di un inconscio che ribolle dentro di noi, carico di pulsioni vergognose, di forze distruttive, di desideri inconfessabili. Cosa hanno prodotto questi "no definitivi", anche solo nel campo della discussione, nel campo delle opinioni?

     Be', a me pare che il darwinismo abbia prodotto- attraverso il darwinismo sociale - lo sfruttamento di classe, l'imperialismo, le due guerre mondiali, la giustificazione della violenza, ora di classe, ora degli stati; il marxismo, attraverso l'odio di classe, ha prodotto l'universo concentrazionario, l'Inquisizione "rossa"; la psicanalisi  ha portato lacerazioni, dubbi, impotenza, disperazione  perfino all'interno dell'io - la scissione dell'io, la disgregazione dell'io, e ci ha consegnato l'immagine di un uomo stravolta, delirante, letteralmente "ossessa" da forze infere, come diceva il filosofo Evola. Non abbiamo assistito alla nascita del tanto auspicato Über-Mensch nietzschiano, dell'Oltre-uomo (malamente tradotto con "Super-uomo"); bensì abbiamo assistito, nel corso del Novecento, alla comparsa di uno schiavo della sua stessa volontà di dominio, di uno schiavo che - dopo aver adorato la Storia, come Hegel o Croce, e la scienza da essa prodotta (lo scientismo, il positivismo, il pragmatismo, l'utilitarismo, tutti questi "-ismi" che hanno divinizzato scienza e tecnica) - si è fatto servo e strumento della tecnica stessa, cioè di un Logos strumentale e calcolante che bada unicamente alla razionalità dei mezzi e non si pone il problema della razionalità dei fini. C'e,  nel razionalismo contemporaneo, questa tragica contraddizione: che il Logos strumentale ha saputo, e sa, calcolare perfettamente l'efficacia e la potenza  dei mezzi, ma  non si pone il problema dei fini. Dove stiamo andando? Perché stiamo facendo queste cose?

     Ancora Camus: "In realtà la rivolta, senza pretendere di risolvere tutto, può almeno fronteggiare. Da quell'istante, il meriggio zampila e scorre sul movimento stesso della storia."  Ancora, dunque, l'idolatria della storia?

     Camus: "La sola regola che sia oggi originale: imparare a vivere e a morire e, per essere uomo, rifiutare di essereDio." Ancora: "Il mondo resta il nostrio primo e ultimo amore." Ripeto: "Il mondo resta il nostro primo e ultimo amore." Ancora: "Noi dobbiamo condivere le lotte e la sorte comune"; e ancora: "Rifaremo l'anima di questo tempo e, in Europa, creeremo un mondo che non escluderà nulla."

     Possiamo chiederci: ma è proprio così? Quando Camus afferma che "il mondo resta il nostro primo e ultimo amore" - che è poi la lezione di Nietzsche: la "fedeltà alla terra", l'amor fati - se intendiamo "terra" e "mondo" come entità auto-sussistenti, se le identifichiamo con l'Assoluto (una forma di pantesmo, come pensava Spinoza) -, se le divinizziamo, compiamo una vera e propria inversione di valori. "Lo Spirito - cito Paramahansa Yogananda, il grande mistico indiano - è diventato materia attraverso processi di materializzazione; la materia, dunque, procede dalllo Spirito; è un'espressione parziale dello Spirito; è l'Infinito, che ha l'apparenza del finito; è l'Illimitato che appare limitato. La materia è lo Spirito in una sua ingannevole manifestazione: non esiste di per sé." Non esiste di per sé: la fisica post-einsteniana, la fisica quantistica - curiosamente - si sta avvicinando alle stesse conclusioni. C'è una convergenza tra il pensiero mistico orientale - e, in particolare, indiano - e le ultime acquisizioni della fisica dei quanti. Assolutizzare il mondo significa, quind, invertire radicalmente l'ordine delle cose; innalzare l'illusione, il nulla, al livello ontologico dell'essere; fondare, cioè, una vera e propria religione del nichilismo nel senso più proprio del termine; costruire una visione del mondo basata su una illlusione radicale.

     Per filosofi come Severino è la stessa metafisica che porta al nichilismo, perché proietta l'Essere a distanze irraggiungibili. Ma non è vero: non è la metafisica a fare questo, bensì l'aver assolutizzato il dualismo apparente della metafisica. Il "mondo" di cui parlava Camus, inteso - in qualche modo - come una cartesiana res extensa - è apparenza e nulla; l'Essere è invece l'Assoluto, cioè il Tutto. La società contemporanea è nichilista non perché la tecnica sia il risultato inevitabile della metafisica, come afferma Severino; ma perché abbiamo perduto il vero senso della metafisica: che non è quello - quantitativo - di fare da pendant alla fisica, al "mondo" (di qua la fisica, di là la metafisica); bensì quello - qualitativo- di ricondurci all'Oikos, alla vera casa dell'Essere; che è dentro di noi, non fuori. È relativamente facile, mediante la tecnica, esercitatare forme di domino sulla realtà esterna, materiale; molto più complesso, perché presuppone una crescita spirituale lunga e paziente, esercitare il dominio su noi stessi, lottando contro le tentazioni della hybris, della "dismisura". Ecco qua la dismisura; ecco qua da dove ha inizio la smania di dominio da parte dell'uomo occidentale moderno - moderno, intendo post-cartesiano, post-galileiano, post- rivoluzione scientifica del 1600. Ma non era di qui che aveva preso le mosse il pensiero meridiano di Camus? Possibile che egli non si sia accorto della contraddizione? Possibile  che non abbia visto che, amando solo il mondo, si ricade inesorabilmente  nell'idolatria dell'esistente: cioè della storia, cioè della scienza, cioè della tecnica, cioè della mera quantità. Come diceva René Guénon: il Regno della Quantità - e non della Qualità.

    Insomma: c'è un filo  rosso che lega, a mio parere, il titanismo post-romantico, anche di Camus, all'umanesimo assoluto, a una sorta di ebbrezza della dismisura i cui esiti ultimi sono, al limite, stregoneria, satanismo nel senso profondo della parola, cioè come autoidolatria oggettivante. Ricordiamo che nel mito platonico di Atlantide - nel Timeo e nel Crizia - si sostiene che quella civiltà, pur così progredita e così saggia, andò in rovina proprio per un eccesso di hybris, di dismisura; e, specificamente, per aver praticato - meglio, perché i suoi sapienti avevano praticato la magia nera: metafora di questa rivolta  di un mondo chiuso in sé stesso, auto-referenziale, che diventa autoidolatria oggettivante.

      Tutti i tentativi di creare valori in qualche modo  -come si può dire -, creare valori in una esistenza limitata al concetto di  "mondo" chiuso in sé stesso, fanno capo al funzionalismo, a ciò che è funzionale. Il mondo diviene tragico perché unicamente rivolto nella direzione dell'utile, dell'utilitario. Ecco la negazione definitiva espressa da Karl Jaspers - non so se pronuncio bene il tedesco - "Das Scheitern is das Letze, "far fiasco è l'ultima parola". Queste tremende parole di Karl Jaspers, il grande maestro dell'esistenzialismo tedesco, "far fiasco è l'ultima parola", risuonano come un monito nei confronti della hybris occidentale. Questa citazione di Jaspers è presente in un altro autore francese contemporaneo:  François-Albert Viallet, nel libro Lo Zen: l'altro versante, del 1971.

     Insomma: se la trascendenza  è resa impossibile dal titanismo, cede i suoi caratteri alla storia, che diventa il  vero Deus absconditus della modernità; e quindi si ricade in quella idolatria  della materia, del Logos calcolante, della scienza e della tecnica, da cui si era creduto di poter evadere.

 

    Cerchiamo ora di delineare un paesaggio di speranza, perché il pessimismo di Camus è raggelante, anche se è apprezzabile la sua dimensione agonistica, la sua dimensione di rivolta disincantata, cioè la sua consapevolezza che storicamente, oltre che metafisicamente, la rivolta non ha prodotto altro che universi concentrazionari e, come lui dice, "volonterosi carnefici umanisti", che nei sotterranei celebrano i loro tristi trionfi. Probabilmente si riferiva, per esempio, alla purghe stalinane, ai milioni di Europei che hanno trovato la morte in nome di uno stato e di un modello sociale che voleva sostituirsi a Dio; e con lo stesso puritanesimo - movimento che ha avuto origine, secondo Camus, col giacobinismo e con la Rivoluzione francese. E con lo stesso puritanesimo feroce con cui l'Inquisizione medioevale mandava al rogo gli eretici, la stessa cosa è  stata fatta nel Novecento in nome  di un mondo migliore basato sulla Storia, la Storia chiusa in sé stessa.

     Possiamo individuare  margini di speranza e sentieri di fiducia nel futuro e indicare alle giovani generazioni percorsi  di speranza nel futuro, dopo aver delineato un quadro così cupo, se perfino un uomo  dal rigore morale indubbio, come Camus, non ha saputo sottrarsi all'attrazione di un immanentismo chiuso in sé stesso, che finisce per diventae il contrario di quell'umanesimo che aveva auspicato? Bene, anche solo restando nel campo della cultura francese - che, probabilmente, è anche quello da voi meglio conosciuto, poiché nell'ambito della AllianceFrançaise, suppongo che ci sia un'attenzione specifica per questa cultura - sono almeno tre gli autori che potrebbero darci una parola di conforto: Emmanuel Mounier, Michel Foucault e Gabriel Marcel.

      La lezione di Mounier - che poi è stata ripresa da un grande pensatore trevigiano, ingiustamente non abbastanza conosciuto: Luigi Stefanini, e quindi dal personalismo stefaniniano - mi sembra essere questa: noi dobbiamo recuperare il concetto di persona, e più precisamente di persona finita, che riconosce la propria finitezza, ma anche - nel campo del sensibile - la propria assolutezza e universalità; cioè che non vi è nulla al sopra della persona - nel campo del sensibile - se non la persona stessa. E, contemporaneamente, questa persona finita aspira a tradscendere la propria finitezza, in una perenne  tensione verso la Persona Infinita. È un movimento che cerca di tornare all'origine: dall'Assoluto ha preso inizio, e all'Assoluta desidera ritornare.

     Michel Foucault ha individuato  nel cambiamento moderno dell'episteme uno dei più grandi drammi del linguaggio, e quindi anche della cultura moderna. Cioè, Foucault sostiene che il linguaggio sempre più ha  divorziato dalle cose, per diventare il linguaggio del pensiero. Noi dobbiamo quindi recuperare, secondo la lezione di Foucault, e ricucire lo iato fra res cogitans e res extensa, mediante la riscoperta di un linguaggio che non esprima solo il pensiero, ma anche le cose; un linguaggio significante che torni ad aderire alle cose, che torni a evocare le cose, a coinvolgere le cose. Per cui noi, oggi, siamo spiritualmente chiusi in una specie di circolo, in una specie di cerchio asfittico, di una epsteme autoreferenziale, solipsistica. Per reagire a ciò, dobbiamo, in qualche modo, reagire al mito onnipervasivo di una razionalità analitica e riscoprire - come nella poesia - il valore ontolgico  della parola-cosa. Qui c'è tutta la lezione di Heidegger - dobbiamo, cioè,