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Introduzione alla filosofia di George Berkeley

di Francesco Lamendola - 10/05/2007

  

 

1.    La vita e le  opere.

2.    Il percorso filosofico.

3.    Piccola antologia berkeleiana.

4.    Berkeley e la filosofia moderna.

 

 

 

1.     LA VITA E LE OPERE.

 

      George Berkeley nasce il 16 marzo 1685 a Dysert Castle, presso Thamstown (contea di Kilkenny), in Irlanda, da una famiglia di origine inglese e di fede anglicana. A quindici anni entra nel Trinity College, l'università di Dublino, e vi studia matematica, logica, filosofia, latino, greco ed ebraico. Promosso magister artium, nel 1707  diviene membro del Collegio (fellow) e poi docente di greco; dal 1710, terminati gli studi di teologia, è ordinato sacerdote.

     In quegli anni legge il Saggio sull'intelligenza umana di Locke, da cui rimane profondamente colpito. Comincia a concepire fin da allora un vasto disegno filosofico il cui scopo è reagire al pensiero di Locke e di Newton che, fondando la credenza in un mondo materiale esterno all'uomo, governato come un rigido meccanismo da leggi matematiche, a suo giudizio getta le basi dell'ateismo in quanto rende superflua l'esistenza di Dio creatore. L'originalità dell'operazione culturale cui Berkeley dedicherà tutta la vita sta nel fatto che egli persegue tenacemente questa battaglia radicale per salvare l'Europa (e il mondo) da un incipiente processo di scristianizzazione, servendosi delle armi dialettiche messe a sua disposizione dal libero pensiero, non di rado adoperate con disinvolta spregiudicatezza.

      Per capire l'opera di questo filosofo, dunque, è importante tener sempre ben presenti i seguenti punti: 1) l'autosufficienza della materia non può che portare alla perdita delle fede in Dio; 2) la ragione deve smantellare la credenza in una materia indipendente dal soggetto pensante; 3) la realtà vera è fatta di idee, non di cose concrete, che sono percepite dalle menti finite, e create dalla Mente Infinita. La preoccupazione di fondo del pensiero di Berkeley non è filosofica, ma religiosa: salvare le basi di una concezone cristiana della vita e del mondo. La sua concezione immaterialistica reca fin dagli inizi, implicito, un elemento platonizzante; nella seconda parte della sua vita il platonismo diverrà sempre più esplicito, anche se non è possibile parlare di "svolta", poiché lo sviluppo è sostanzialmente coerente con le premesse. Punto d'arrivo di questa visione platonizzante della realtà è la Siris, sebbene in Berkeley si debba sempre distinguere fra un empirismo gnoseologico e un idealismo estremo a livello ontologico.

     Il primo libro pubblicato dal nostro Autore è il Saggio per una nuova teoria della visione, del 1709, in cui prende posizione contro la moderna scienza fisico-matematica. Negando che la percezione della distanza sia opera semplicemente della vista, come voleva il sensismo, egli dimostra invece che la collocazione degli oggetti nello spazio è una complessa operazione spirituale, una specie di "giudizio" in cui il ricordo di esperienze tattili passate si fonde con la percezione dei dati visivi attuali. Dietro le apparenze del classico saggio scientifico settecentesco, si intuisce la volontà di Berkeley di gettare le basi per una nuova visione del mondo, di carattere essenzialmente religioso.

      Nel 1710 dà alle stampe il Trattato sui princìpi della conoscenza umana, il cui contenuto, rielaborato ma soprattutto esposto in forma più semplice e divulgativa, ma anche letterariamente molto curata, verrà ripresentato nel 1713 con il titolo Dialoghi tra Hylas e Philonous. Ora il pensiero di Berkeley ruota attorno alla formula esse est percipi, esistere è l'essere concepito: cioè tutto quello che esiste si riduce all'essere percepito da un soggetto conoscente. Le qualità primarie (numero, figura) e secondarie dei corpi (colore, sapore, ecc.) non esistono in un indimostrabile mondo esterno, ma nella nostra mente, dentro la nostra mente; e fuori della nostra mente non v'è altra realtà (materiale).

     Trasferitosi a Londra nel 1713, dove dà alle stampe i Dialoghi (che, a differenza del Trattato) ottiene un discreto successo, anche se in buona parte di scandalo, comincia a frequentare gli ambienti mondani e culturali, grazie alla presentazione di Jonathan Swift, altro grande figlio dell'Irlanda e futuro autore dei Viaggi di Gulliver. Nel 1713-14  è in viaggio per l'Europa quale cappellano al servizio di un nobile inglese, Lord Peterborough, nominato ambasciatore straordinario dalla regina Anna  per l'incoronazione del duca di Savoia a re di Sicilia.  A Parigi s'incontra con Malebranche; in Italia si porta fino in Sicilia, dopo aver soggiornato a Torino, Genova, Firenze, Roma, Napoli e in Puglia.

      Dal 1716 al 1721 ripete il viaggio in Italia al seguito del figlio di George Ashem, da cui è stato assunto come precettore. Tra l'altro, assiste a Napoli all'eruzione del Vesuvio e ne scrive un articolo che verrà pubblicato sulla rivista Philosophical Transactions nel 1717: segno di un interesse per il mondo della natura che non verrà mai meno lungo tutto il corso della sua vita, e che riemergerà prepotente nell'opera più originale e controversa della maturità, la Siris. Difficile pensare, al tempo stesso, che nella genesi dello scritto sull'eruzione del Vesuvio non abbia avuto una parte la reminiscenza della famosa lettera, di analogo soggetto, compresa nell’epistolario di Plinio il Giovane (relativa alla tragica eruzione del 79 d. C. che distrusse Ercolano, Pompei e Stabia), come pure – forse – l’Aetna, poemetto pseudo-virgiliano della Appendix vergiliana. Si direbbe che nella personalità culturale di Berkeley la viva presenza di un imponente bagaglio di filologia classica si sposasse con un’acuta curiosità intellettuale per il dato sensibile, tipica della cultura settecentesca, in un tutto armonioso e di notevole fascino. Se a ciò si aggiungono i suoi interessi per il mondo dell’arte - fu amico di pittori, collezionista appassionato e per cinque anni, in Irlanda, ebbe ospite un famoso cantante italiano - bisognerà concludere che egli fu una personalità estremamente poliedrica, un vero e proprio uomo del Rinascimento imprestato al “secolo dei Lumi”.

      Rientrato a Londra, nel 1721 scrive un trattato in latino, il De Motu, per criticare ancora una volta le teorie di Newton e per contestare i concetti fisici di spazio e di tempo "assoluti", sostenendo che esistono solo spazi, tempi e movimenti "relativi". Di qui una netta distinzione fra la scienza (filosofia naturale)  e la metafisica (filosofia prima): la prima limitata allo studio delle cose sensibili, la seconda rivolta alle cause efficienti delle cose e alla Causa prima del mondo.

      Nominato nel 1724 decano della cattedrale di Derry (carica che gli assicura una delle migliori rendite d'Irlanda), Berkeley comincia a concepire quello che si può considerare - secondo i punti di vista - il più stravagante e il più audace dei suoi progetti: fondare un collegio, in qualche luogo selvaggio del Nuovo Mondo, ove i figli degli Indiani possano ricevere una educazione cristiana in vista di una futura rigenerazione morale dell'umanità. Data ormai per irrimediabile la decadenza dell'Occidente, ove i germi corrosivi del libero pensiero avevano messo in crisi l'idea di Dio e, di conseguenza, le stesse basi morali della società, egli spingeva avanti il suo sguardo nello spazio e nel tempo e si preoccupava di salvare, come alla vigilia di un nuovo Medioevo, il nucleo cristiano della nostra civiltà. Pensava che solo gli indigeni americani, non ancora contaminati dal dubbio corrosivo del meccanicismo materialistico, avrebbero potuto ricevere quel seme e svilupparlo per le generazioni future. Era anche convinto che la marcia della civiltà sarebbe proseguita sempre più a Occidente: è per questa ragione che la città più occidentale degli Stati Uniti d'America, protesa sull'immensità dell'Oceano Pacifico, è stata battezzata con il suo nome (nel 1866, due anni dopo la sua fondazione nella contea di Alameda, in California). Per la precisione, la frase di George Berkeley recita: "Westward the course of empire takes its way", che si potrebbe tradurre: il destino dell'impero (della civiltà)  prende la strada dell'Ovest.

      Come luogo per la fondazione di tale collegio, egl individa le isole Bermude, scelta piuttosto bizzarra se si considera che esse erano prive di una popolazione indigena e che sono poste nel bel mezzo dell'Atlantico, a più di 1.000 chilometri dalle coste orientali del Nord America. Comunque il Parlamento britannico sembra seriamente interessato al progetto, per il quale viene votato un cospicuo stanziamento finanziario (20.000 sterline). Berkeley, che nel frattempo si è sposato con Anne Forster (di quindici anni più giovane di lui), nel 1728 salpa per l'America e si stabilisce a Newport, nel Rhode Island, insieme alla famiglia e a un gruppo di discepoli. Del gruppo fa parte anche un pittore di talento, John Smibert, che ritrae in una celebre tela, The Bermuda group, questo cenacolo di amici idealisti e pieni di fervore missionario, di cui fa parte anche la dama di compagnia della moglie, Miss Hancock. La sosta avrebbe dovuto essere temporanea, in attesa di proseguire per le Bermude e passare alla fase operativa del suo progetto. Chissà che la scelta di quelle isole non gli sia stata suggerita dalla Tempesta di Shakespeare, dove il selvaggio Calibano rappresenta le forze primordiali del Nuovo Mondo, che il mago Prospero mette al servizio di una buona causa.

      Berkeley fa sul serio, poiché intende incominciare una nuova vita in quella terra selvaggia e incontaminata (una versione ante litteram del mito rousseiano del "buon selvaggio"?). Il Parlamento Londra, invece, - nonostante le potenti conoscenze del filosofo, contratte all'epoca della sua amicizia con Swift - trascina la cosa sempre più in lungo: evidentemente qualche rotella dell'ingranaggio deve essersi inceppata. Comunque, Berkeley non spreca certo il suo tempo e durante il soggiorno a Newport, ancora tutto fresco di entusiasmo, compone i sette dialoghi di quella che è considerata, dal punto di vista letterario, la sua opera più affascinante: Alcifrone. Concepita esplicitamente come un'apologia della religione cristiana "contro quelli che sono detti liberi pensatori", verrà data alle stampe nel 1732, dopo il suo rientro in Europa. Per virtù stilistiche, l'Alcifrone è stata ritenuta degna di occupare un posto di prim'ordine nel "secolo d'oro" della letteratura inglese, il secolo XVIII. L'opera è infatti pervasa da un senso vivissimo delle bellezze naturali e la struttura dialogica è svilupata con insuperabile maestria: si può dire senza esagerare che, dopo i dialoghi di Platone, quelli di Berkeley sono i più notevoli sotto il riguardo della veste letteraria. Dal punto di vista del contenuto, si tratta di un attacco senza quartiere contro deisti e liberi pensatori, accusati di preparare le basi - anche se non esplicitamente - di una concezione ateistica e, quindi, di un irrimediabile decadimento della civiltà europea. Due sono, in particolare, i personaggi contemporanei da lui velatamente messi sotto accusa e accomunati alla turba dei "minuti filosofi": Mandeville e Shaftesbury. Ma il pensiero di entrambi sembra essere stato deliberatamente frainteso a causa degli intenti polemici dell'opera: il primo (autore della famosa Favola delle api) è ingenerosamente presentato come un immoralista, il secondo come l'autore di un arrischiato tentativo di emancipare la morale dalla religione, foriero di conseguenze negative.

      Nel 1731 Berkeley si decide a ritornare in Inghilterra, apparentemente per sveltire le lungaggini burocratiche e sbloccare il progetto arenato delle Bermude; in realtà, resosi conto che non resta nulla da fare, non farà più ritorno in America. In compenso, forse anche per le benemerenze acquisite con la pubblicazione dell'Alcifrone (in quell'opera, tuttavia, ammetteva la schiavitù con il sostegno delle Sacre Scritture, e sosteneva che i bambini indiani dovevano essere rapiti per poterli adeguatamente istruire nei valori cristiani), viene nominato dalla Chiesa anglicana vescovo di Cloyne, in Irlanda. Vi resterà dal 1734 fino quasi alla morte,  per circa diciotto anni, mostrandosi uomo di larghe vedute, capace di dialogare con la stragrande maggioranza cattolica della popolazione: e questo in un'epoca in cui, con buona pace del "secolo dei Lumi", come disse un notabile anglicano, "i sudditi cattolici della Corona non esistono davanti alla legge". Le sue riflessioni e proposte per migliorare le tragiche condizioni socio-economiche dell'Irlanda, tormentata da uno stato di cronica miseria e sconvolta da fequenti carestie (sul cui sfondo si collocano i tentativi giacobiti di restaurazione dei cattolici Stuart, cui Berkeley sempre si oppose) trovano espressione nei tre volumi del Querist.  In quest'opera, che per alcuni versi precorre le teorie economiche di Adam Smyth, Berkeley - uomo d'ingegno quanto mai versatile - propone fra le altre cose, per risollevare le condizioni dell'isola, l'istituzione di una Banca nazionale.

      È pur vero che egli rimase sempre un uomo d'ordine e che sembra abbia fatto propri molti dei pregiudizi allora diuffusi tra gli Inglesi nei confronti degli Irlandesi, a cominciare dalla convinzione che la loro inferiorità politica fosse una conseguenza della loro  pigrizia e arretratezza. Ad essi consigliava, quindi, pazienza e sottomissione: un po' come - la similitudine è di Mario Manlio Rossi - avrebbe potuto fare un cappellano militare nel bel mezzo di un territorio nemico conquistato e sottomesso. Eppure gli va riconosciuto il merito di aver preso atto che una questione irlandese esisteva (quando molti, a Londra, preferivano negarlo) e di essersi sempre sentito piuttosto Irlandese che Inglese.

      Durante questi anni Berkeley non smette mai di condurre la sua battaglia dichiarata contro i liberi pensatori. Nel 1737, ad esempio, pronuncia un discorso al Parlamento di Dublino, in cui chiede e ottiene che la magistratura metta fuori legge la sacrilega società dei "Distruttori" (Blusters), che insieme ad altre del genere mina a suo vedere le fondamenta stesse dell'ordine sociale.

     Durante una epidemia di vaiolo e di dissenteria, causata dalla carestia, Berkelkey ha modo di sperimentare su numerosi parenti, amici e parrocchiani un rimedio da lui conosciuto durante il soggiorno in Nord America, una sorta di panacea universale: l'acqua di catrame. Avendola trovata efficacissima contro ogni genere di mali, finisce per prescriverla regolarmente a una quantità di pazienti della sua diocesi. In quegli anni, la preparazione e l'uso dell'acqua di catrame stimolano in lui un rinnovato interesse per le scienze naturali, per la chimica e per la medicina. Questo tipo di studi, unito a una ripresa della grande lezione di Platone circa i fondamenti idealistici del suo immaterialismo, lo portano a scrivere la più curiosa delle sue opere, quella che godette - lui vivente - del successo maggiore anche presso un vasto pubblico di non specialisti: la Siris.

      Partendo dalle virtù prodigiose dell'acqua di catrame, quest'opera di difficile catalogazione sviluppa una serie di temi di argomento scientifico, alchemico,  teosofico e teologico, approdando a una visione neoplatonista in cui Dio agisce sulle cose per mezzo di una materia sottilissima, l'etere, una sorta di fuoco universale che pervade ogni cosa.   

       Trasferitosi ad Oxford con la moglie e i figli, muore il 14 gennaio 1753. "La famiglia radunata per il tè si accorse che era morto sdraiato sul suo divano, in silenzio, senza dar segno. La fine d'un credente: non aveva trovato una nuova filosofia, ma aveva trovata la pace" (Mario M. Rossi). Viene sepolto nella cappella del Christ Church College; gli sopravvivono solo tre dei suoi sette figli.

 

       Prima di passare al percorso filosofico, vogliamo spendere ancora qualche parola sui meriti di Berkeley come scrittore. Mario Praz, uno dei massimi studiosi italiani di lettereatura inglese, nella sua ormai classica Storia della letteratura inglese, lo definisce "terso ed elegante prosatore che porta a perfezione il dialogo filsofico" e giunge, nella Siris,"vicino all'idealismo magico dei romantici (e l'influsso di Berkeley si sentirà nelle poesie di Coleridge e nelle teorie di Shelley)". H. V. Routh, nell'altrettanto classica (presso il pubblico britannico) A History of English Literature, Londra, Nelson, 1923, pp. 324-25) così parla dello stile di Berkeley:

      "He realized that the agnostic of that age was not so much a moral rebel as an incomplete thinker - one who needed to be enlightened rather than converted or condemned; so he set himself to put philosophy and metaphysics (as then understood) within the reach of the average layman. He exposed what he claimed to be the falklacy of believing that the soul depended on the senses and faculties for its existence. He showed how often a man's view of life becomes hard and materialistic, because he is blind to its true pleasures. With the nicest touch of wit he described a visit to St. Paul's, and symbolized the freethinker as a fly on one of the pillars, who can detect the inequalities in a piece of stone, but has notthe slightest idea of the symmetry or usefulness of the building. With admirable justness he showed how erudition, whether derived from Plato or from astronomy, conduces to religion, unless the scholar loses sighit of the true object of study and acquires knowledge as the miser hoards gold. In his lighter vein, he represented himself as enable to see into the pineal gland (then believed to be the seat of the soul), and while studying that of a freethinker he saw vanity head an army of passions and of obsolete notions to attack what looked like a formidable castle, but which, when cleared of the mists of prejudice, turned out to be nothing more harmful than a church."

 

       Da parte sua, R. Brimley Johnson, nella medesima opera, si esprime in questi termini sul medesimo argomento:

       "Yet genius never grew out of opportunity alone, and Berkeley's was a master mid, a master style. He was supremely well-bred and urbane; ready for a gay, honest fight with any adversay; subtly responsive to delicacies of feeling; at once limpid, logical and imaginative; never petty or provoking. His noble eloquence was phrased to precision without frigidity; his 'ornaments' and illustrations are always well-chosen and dramatic, never trivial or deceptive. He was reverent by instinct and unerring in tast; few men ever said better what was so well worth saying."

 

 

2.     IL PERCORSO FILOSOFICO.

 

      Il probema principale che si dibatte fra gli storici della filosofia è se si debba parlare di due distinte fase della filosofia del nostro Autore, prima e dopo la Siris: empiristica l'una, platonizzante la seconda. Diciamo subito che la maggior parte di essi ha risolto la questione riconoscendo il carattere fondamentalmente lineare, progressivo e unitario della filosofia di George Berkeley. Citiamo, come conclusiva in proposito (conclusiva nei limiti in cui la storia della filosofia è in grado di tracciare alcuni essenziali punti fermi, restando aperta la discussione sugli aspetti collaterali), la pacata conclusione di S. Del Boca, autore di un saggio del 1937, significativamente intitolato L'unità del pensiero di Giorgio Berkeley:

       "L'affermazione del carattere della Divinità sempre una e medesima di contro al variare e fluttuare delle cose è quella che domina l'ultima parte della Siris. Questa concezione platonica è parsa in contrasto con l'empirismo delle opere giovanili. E innegabilmente, mentre le opere giovanili insistono sulla conoscenza delle idee, la Siris si dilunga a descrivere i gradi per cui ci stacchiamo da questa medesima conoscenza sensibile per giungere a Dio. Una differenza dunque esiste, ma la pretesa opposizione empirismo-platonismo non è un contrasto radicale. La visione della realtà è sempre la medesima: le cose sensibili sono sempre per il Berkeley i segni di un linguaggio divino. Soltanto, in un primo tempo egli si indugia a parlare di questi segni per far notare che essi non sono altro che idee nella mente. In un secondo tempo, descrive i gradi per cui lo spirito ascende, dalla percezione sensibile dei segni, alla visione della realtà divina che essi significano. La lettura delle opere platoniche può aver orientato la sua attenzione in questa nuova direzione. Ma l'intuizione fondamentale è rimasta la stessa. È sempre lo stesso prisma, di cui semplicemente è stata messa in luce una faccia prima lasciata in ombra." (op. cit., Firenze, Sansoni ed., 1937, pp. 104-105).

      Per l'esposizione dettagliata del percorso filosofico di Berkeley, ci serviamo del testo di Giovanni Baravalle L'uomo e i suoi problemi (vol. 2, Dall'Umanesimo a Kant, Cuneo, Bertello ed., 1988, pagg. 219 223). La ragione di questa scelta è che esso, pur nella sua semplicità aliena da sottigliezze speculative e filologiche, si presenta esemplare per chiarezza, linearità e comprensibilità, anche a un lettore non specialista; può essere fruito, quindi, anche da chi non possieda uno specifico bagaglio storico-filosofico. Si tratta di un pregio, a nostro avviso, non secondario, in un panorama culturale dominato sovente da un eccesso di tecnicismo intellettualistico, e che va nella direzione di quel "ritorno della filosofia verso la vita concreta" auspicato da Kierkegaard ma rimasto, nei fatti, troppo spesso disatteso sia dalla cultura scientifica che da quella filosofica.

 

      Prima di proseguire, però, dobbiamo segnalare, per scrupolo di completezza, che un autore passato inosservato e contemporaneo del Nostro, Arthur Collier, nel 1713 aveva stampato a Londra un libro dal titolo Clavis universalis, il cui sottotitolo recita: Nuova ricerca intorno alla verità come dimostrazione dell'inesistenza o impossibilità di un mondo esterno. Anche il Berkeley ne ebbe notizia, tanto è vero che ne scrisse in una lettera a Lord Percival del giugno 1713, in questi asciutti termini: "Un ecclesiastico del Wiltshire ha pubblicato recentemente un trattato in cui prospetta una tesi resa nota da me tre anni fa nei Principi della conoscenza umana".

       Scrive in proposito Antonio Casiglio, autore della traduzione, dell'introduzione e delle note dell'edizione italiana della Clavis universalis edita dalla Cedam di Padova nel 1953 (pp. V-VI): "Nel 1717 un'esposizione, breve ma abbastanza fedele, della Clavis universalis appariva nei Supplementi agli Acta eruditorum editi a Lipsia e nella riserva conclusiva sui "paradoxa" del Collier il suo nome era opportunamente accostato a quello del Berkeley." Nel 1756 uscì a Rostock la traduzione tedesca della Clavis, ad oprera di Johannes C. Eschenbach, professore in quella università, il quale la pubblicò in un volume miscellaneo insieme con i Dialoghi del Berkeley; dopo di che l'opera è scivolata praticamente nell'oblìo.

      Sembrerebbe perciò, se è vero che Collier giunse alla sua concezione immaterialistica indipendentemente da Berkeley, che ci troviamo qui in presenza di una di quelle coincidenze nella storia del pensiero umano, di cui un celebre esempio è la teoria dell'evoluzione delle specie attraverso la selezione naturale, formulata contemporaneamente da Alfred Wallace e da Charles Darwin intorno alla metà dell'Ottocento, sulla base delle osservazioni naturalistiche da loro effettuate indipendentemente l'uno dall'altro - anzi, addirittura all'insaputa l'uno dell'altro. Segnaliamo tale curiosa coincidenza e procediamo oltre, riservandoci di riprenderne l'approfondimento in altro tempo e in altra sede.

 

      E passiamo al quadro storico-filosofico delineato da Giovanni Baravalle, insegnante di filosofia nei licei, e ricordato nel romanzo di Cesare Pavese La casa in collina con il nome fittizio di Padre Felice.

 

      Un filosofo missionario.

 

       "La filosofia è, per Berkeley, una via di salvezza ed uno strumento di apostolato religioso.

       È caratteristica della prima metà del '700 inglese la polemica intorno al deismo. La tesi fondamentale del deismo è che le verità religiose non hanno bisogno di rivelazione alcuna e si riducono a poche affermazioni razionali, come la fede nell'esistenza di Dio, creatore e reggitore del mondo, e l'opportunità di una ricompensa o di una punizione in una vita futura. I deisti erano gli eredi dei libertini e scettici francesi ed erano influenzati dallo spinozismo che, con la sua visione unitaria del reale, Deus sive natura, aveva finito col vanificare l'idea di Dio persona, propugnando una concezione impersonale della divinità.

      Mentre il meccanicismo cartesiano non aveva messo in discussione la prospettiva religiosa, il deismo apriva una nuova problematica, nella quale si era impegnato anche Newton che, pur descrivendo l'universo in termini matematici, aveva posto l'esigenza di un Dio trascendente che lo governi.

      Oppositori del deismo furono gli ecclesiastici della Chiesa anglicana, di cui parleremo.

      Fra essi emerge Berkeley, per il quale il deismo apre inevitabilmente la porta all'ateismo. Berkeley ha quindi una preminente preoccupazione religiosa. Per rendere efficace la sua difesa del teismo, egli intende servirsi degli strumenti critici e metodologici più aggiornati, quali erano quelli usati da Locke. Al sensismo, tendenzialmente materialistico, di Locke egli intende opporre un sensismo immaterialistico.

 

      L'immaterialismo.

 

       "La filosofia di Berkeley assume pertanto, come punto di partenza, l'empirismo lockiano, nei suoi due elementi fondamentali: il problema critico e la necessità di partire da ciò che immediatamente sperimentiamo.

      Riconnettendosi attraverso Locke con la teoria cartesiana dell'idea chiara e distinta, egli conduce una lotta implacabile all'idea di materia, giudicata idea confusa ed inintelligibile. La meta da raggiungere è l'eliminazione di ogni residuo di realismo materialistico, per culminare nella dimostrazione dell'immaterialismo teistico.

 

      Contenuto della coscienza.

 

      "Procedendo col metodo psicologico, Berkeley analizza il contenuto della nostra coscienza e vi trova un duplice ordine di realtà:

- le impressioni, prodotte attualmente dai sensi;

- la percezione delle impressioni e delle passioni dell'anima o riflessione, che produce le idee.

     L'analisi della coscienza rivela dunque due termini correlativi: il percepito ed il percipiente; da una parte vi è l'idea, come oggetto presente alla coscienza, dall'altra vi è un soggetto attivo, cioè una mente.

     Le idee, qualora nulla vi si aggiunga, sono rappresentazioni o immagini concrete, ricevute passivamente.

     Esse nulla affermano di una realtà esterna alla coscienza. Vi è quindi una una sola esperienza, cioè quella interiore: sperimentare vuol dire percepire le idee che sono nella nostra mente. L'idea non è che la cosa stessa presente nella mente, con gli stessi caratteri di singolartità e di determinatezza.

      Perciò è evidente che ogni idea è determinata e particolare: è questa idea. Non posso rappresentarmi un triangolo che non sia o isoscele o rettangolo o scaleno. Perciò ogni idea è particolare: non esistono idee generali astratte, capaci di rappresentare l'universale (nominalismo).

       Vi sono dei nomi comuni che diciamo idee generali , capaci di riassumere un certo numero di caratteristiche individuali, ma il contenuto intelligibile di queste idee è solo una percezione concreta, un "questo qui", che può essere ridotta a una o più idee semplici.

 

      Esse est percipi"

 

      "Accettando il principio cartesiano, già fatto suo da Locke, Berkeley ritiene che oggetto della conoscenza sono solo le idee. Quando diciamo di conoscere una mela, noi cogliamo solo un certo colore, un certo odore, una determinata figura, che si trovano insieme, cioè conosciamo una certa collezione di idee.

      Ora le idee, per esistere, hanno bisogno di essere in una mente, cioè di essere percepite. La loro realtà consiste nell'essere percepite: esse est percipi. Quindi le idee non possono esistere fuori di una mente che le percepisca.

      Tutti ammettono la validità di questa conclusione per quello che riguarda le idee della riflessione, come il volere, il pensare, l'immaginare. Ma si rifiutano di accettarla per le idee della sensazione. Essi credono che queste idee o collezioni di idee, che sono le cose sensibili, esistano fuori della mente. Si crede che un uomo, un tavolo, ecc., abbiano un'esistenza reale, distinta dalla percezione della mente, e si distingue l'essere percepito di una realtà dal suo essere. Ma Berkeley osserva che è impossibile l'esistenbìnza di una cosa sensibile distinta dalla percezione che se ne ha, perché se la cosa è interna alla percezione non può essere fuori di essa. Una cosa che sia insieme percepita (interna alla percezione) e fuori della percezione è un assurdo.

      Quindi anche per le cose corporee vale il principio esse est percipi! Se affermo che il tavolo, su cui scrivo, esiste, voglio solo dire che lo vedo e lo tocco; se fosse fuori del mio studio, direi ancora che esiste perché c'è qualche spirito che attualmente lo percepisce. L'indipendenza delle cose da questa o quella mente non è in causa.

      Che cosa rimane pertanto dei corpi? Solo quello che viene attestato dalla esperienza del senso interno. I corpi e le cose sono solo aggregati di idee, cioè gruppi stabili di fenomeni del senso interno.

      La natura fisica è totalmente ridotta ad un mondo di fenoemeni, senza nessun originale o causa inesperibile. Viene eliminata la "opinione della doppia esistenza della realtà", cioè fenomenica ed in sé, come dirà Hume.

 

      Le qualità

 

      "Questa conclusione è confermata dall'analisi della distinzione lockiana delle qualità primarie e secondarie, Le qualità secondarie sono soggettive,come già aveva affermato Locke, cioè sono solo modificazioni del soggetto senziente. Ma anche le qualità primarie sono soltanto percezioni concrete del senso della vista e del tatto. Come tali, esse vengono percepite mediante le qualità secondarie; ad es. l'estensione è il limite del colore. Da ciò Berkeley deduce che anche le qualità primarie sono soggettive.

 

      La materia

 

       "Ne segue che, se le qualità non esistono formalmente fuori del soggetto pensante, è inutile ricercare il sostrato materiale della natura corporea; cade perciò la ragione per cui tale sostrato era stato ammesso da Locke.

       Quindi non esiste la sostanza materiale.

       Il sostrato materiale che, per definizione, dovrebbe essere diverso dalle idee sensibili, non è oggetto della nostra percezione, non se ne può dimostrare l'esistenza. La materia è l'idea più astratta, quindi è la più irreale.

       Negata la materia, Berkeley pensa di aver distrutto la base del materialismo, e quindi dell'ateismo che ne seguiva. A questo scopo tendeva, si è detto, la sua speculazione filosofica.

 

       Lo spiritualismo.

 

       "La conclusione, cui vuole pervenire l'immaterialismo berkeleiano, non è il solipsismo, ossia l'affermazione dell'esistenza del solo soggetto. Un'attenta analisi del mondo ideale conduce a ben altra conclusione.

       È evidente che le idee non hanno un'esistenza assoluta, non possono esistere per se stesse: si presentano come molteplici, variabili,  passive; sono fatti che si rivelano dagli effetti; sono prodotte e periscono, si succedono le une alle altre. Il perceptum è il contenuto della perceptio e la perceptio esige un percipiens. Deve quindi esistere un principio che sostenga le idee, le riceva e le combini. Deve esistere una sostanza. Poiché la sostanza materiale non esiste, deve esistere una sostanza spirituale. Questa sostanza è l'anima, l'anima del singolo individuo.

       L'essenza dell'anima è l'attività, infatti, per intuizione immediata, cogliamo la nostra anima come forza, perché la sentiamo capace di imprimere movimento all'organismo e di suscitare idee, combinandole diversamente.

       Con ciò ci formiamo l'idea della causalità. Solo lo spirito può essere causa efficiente. Ne consegue che lo spirito, in quanto autocoscienza, è volontà: volontarismo spiritualista. Per una certa analogia col procedimento con cui giungiamo ad affermare l'esistenza e la natura della nostra anima, affermiamo pure l'esistenza e la natura dell'anima in altre collezioni di idee, che chiamiamo uomini.

 

      Il teismo

 

      "Il nominalismo, l'immaterialismo, lo spiritualismo volontarista non sono il fine ultimo cui tende Berkeley: sono solo mezzi che gli servono per l'affermazione del teismo. 

       La causalità efficiente del nostro io ci rivela la limitatezza del nostro spirito. Fra le nostre idee, quelle che diciamo sensazioni esterne non sono prodotte dal nostro spirito, perché di fronte ad esse noi siamo passivi: le riceviamo secondo un ordine di successione che ci si impone. Poiché la sostanza materiale non esiste, solo uno spirito può produrre delle idee: perciò è necessario concludere che esiste uno spirito sapiente ed onnipotente, il quale opera secondo leggi che egli ha fissato, o complessi di sensazioni ordinate, che ci fanno supporre un mondo esterno.

      Questo spirito è Dio. Perciò esiste Dio. Questo movimento di pensiero costituisce la cosiddetta prova gnoseologica dell'esistenza di Dio. Nel senso spiegato Berkeley difende energicamente la realtà dei corpi e del mondo, i cui avvenimenti e le cui leggi costituiscono il discorso di Dio all'umanità.

      Lo studio della natura assume un profondo significato religioso: scoprire le leggi della natura significa decifrare il linguaggio attraverso cui Dio manifesta a noi i suoi attributi. La scienza della natura si ferma alla considerazione dei segni del linguaggio divino; la filosofia vede, attraverso essi, la grandezza e la bontà del creatore.

 

      La rivelazione

 

      "Neppure il cosiddetto secondo periodo della speculazione berkeleiana, che si può far iniziare con il De motu del 1721, rinnega questa prospettiva teistica, sebbene assuma  nuovi motivi ispiratori dal neoplatonismo. Dio è sempre considerato come la mente ed il principio informatore dell'universo, ma l'orizzonte si allarga.

      La difesa del teismo aveva condotto Berkeley a una religione naturale ma, nell' Alcifrone,  essa appare insufficiente ed esige di essere integrata dalla rivelazione. La religione naturale non può mai fondare una vera fede religiosa, che si esprima nella preghiera e negli atti esterni di culto. Per garantire una religione, capace di influire sul pensiero, sulle azioni e sui costumi, occorre la garanzia della rivelazione. Di qui la difesa del Cristianesimo, dei misteri e dei miracoli.

     Nella Siris, dopo aver parlato della virtù terapeutica dell'acqua di catrame, Berkeley passa a spiegare che essa agisce in virtù di un principio che opera in tutto l'universo. Si tratta di un fuoco, di un etere, che pervade ogni cosa. Ma l'etere è solo il mezzo di cui Dio si serve per esplicarela sua azione. La causa prima è sempre Dio.

      In tutta la sua attività filosofica Berkeley è fedele al suo impegno di giustificare  la vita religiodsa, intesa come un colloquio fra Dio e l'uo