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Come dio comanda

di Viviana Rosi - 11/05/2007

 

 

Di solito quando mi accingo a scrivere una recensione vado a leggere i commenti su Ibs. Qualcuno dice che sono falsi, orchestrati dalle case editrici, ficcati lì un tanto al giorno da zelanti e sottopagatti ragazzotti/e degli uffici stampa degli editori. Sinceramente non so, magari qualcosa di vero c'è. Comunque di commenti sull'ultimo di Ammaniti ce ne sono tanti, molti perplessi, altri nostalgici ("Dov'è finito l'Ammaniti di Ti prendo e ti porto via?”) e ci sono stroncature irate (e moraliste a vanvera “Oddio che linguaggio…”) e anche elogi sperticati fondati essenzialmente sulla capacità dell’autore di non farti chiudere il libro nemmeno quando si chiudono gli occhi. Di sicuro non sono stata attenta (alla fine chissenefrega di leggere 300 commenti più o meno uguali), ma mi pare che pochi abbiano posto l’accento sulla veridicità o meno di questa provincia italiana evocata nel “grande affresco sociale” (la quarta di copertina dice proprio così…) realizzato con abilità indubbia dall’autore. Ovvio che il problema non è se i balordi di Ammaniti siano “veri” (nel senso di presenti in carne ed ossa e in percentuale ragionevole in paesi e cittadine della penisola) oppure no, sono ben costruiti, tutto quanto, direi, è ben costruito, dalla trama agli improbabili e meravigliosi personaggi. Il problema sta piuttosto nell’essere questi personaggi troppo “meravigliosi”, troppo letterari, troppo puri e persino innocenti nel loro presentarsi come brutti, sporchi e cattivi proprio come dio comanda. Quindi la domanda è: ma le nostre province sono davvero popolate da romantici naziskin che bruciano d’amore paterno? Da alcolisti anonimi attratti nel vortice delle grappe a basso costo per colpa di una tragedia assurda e inaccettabile come la morte accidentale di una bambina strangolata da un tappo e da un seggiolino d’automobile difettoso? Le nostre laide province forzitaliote e leghiste hanno sul serio scemi del villaggio che commettono il peggio senza capire? Io, con Niccolò Ammaniti, vorrei crederci, con tutto il cuore vorrei ancora avere questa bella, struggente prospettiva umanistica che sprigiona dal romanzo. Ma non ci riesco. Ringrazio Ammaniti perché nella sua favola noir infonde coraggio, magari ingenuo coraggio, magari coraggio incosciente, magari anche solo un po’ di speranza. Ma io non riesco a credergli. Venendo a Ammaniti “grande narratore”, molte pagine del romanzo sembrano ricalcate su American history x. L’atmosfera (e la trama) sembra proprio quella: là c’era un ragazzo con la svastica appesa alle pareti della camera, qui c’è Rino Zena che dorme sotto una bella bandiera con la croce uncinata. Nel film il giovane skinhead ama la mamma disfatta e i fratelli e si riempie la bocca di farneticazioni razziste, qui Rino è un papà a suo modo amorevole che odia gli immigrati, colpevoli di portare via il lavoro agli italiani. Ma soprattutto, là c’era il bellissimo Danny, fratello minore del neonazista Derek, e qui c’è il dolcissimo Cristiano che spara a un cane per ubbidire a un ordine del padre, ma ruba animali al centro commerciale per puro e incondizionato amore. C’è la coscienza ancora cristallina di Cristiano che si offusca per compiacere un papà borderline comunque amatissimo. C’è un tema stucchevolmente filohitleriano scritto da Cristiano Zena che fa il paio con il saggio su Mein Kampf dell’omologo americano Danny. Ci sono insomma questi cinque anni, da Io non ho paura a questo Come dio comanda, in cui Ammaniti sembra essersi imparato a memoria il film del ‘98 per poi restituircelo in versione adattata alla famosa provincia italiana dove Fellini sembra avere lasciato un segno indelebile e difficilmente aggiornabile agli scenari contemporanei. Sarebbe questo “l’affresco sociale”? Non credo, credo che “questo” sia il romanzesco “puro” (o almeno una delle sue possibili varianti) ovvero il geniale riciclaggio di plot, topoi, personaggi, un frullato gustoso di situazioni narrative già viste e già lette che riconosciamo compiaciuti e con inspiegabile entusiasmo. Ma la bravura di Ammaniti sta comunque altrove, nella vena surreale (ma quanto lucidamente “vera”) che percorre la figura di Beppe Trecca, un assistente sociale farmacodipendente e sentimentalmente sgangherato (anche se, sì, anche qui è stato notato un calco, questa volta altissimo, visto che Beppe fa un voto proprio come la manzoniana Lucia…), e nella capacità di raccontare i giovanissimi, bambini, ragazzi, ragazze inquiete. Fabiana Ponticelli, ad esempio, è prima di tutto una ragazza che “non ha paura”, uno schiaffo in faccia a chi crede che la vacuità sia la nota distintiva delle cattive ragazze di oggi. Perché Fabiana non è semplicemente la vittima innocente di uno stupro, non riecheggia e basta le troppe donne violate e uccise che la cronaca registra per il tempo breve di uno sbadiglio e poi passa oltre. Fabiana è una ragazza che lotta fino alla fine, che sembra più viva che mai proprio quando è ormai morta. La grandezza di Ammaniti, che c’è e non consiste certo nell’abilità ad inventare storie inedite, sta tutta nel suo sguardo verso i più giovani. E se non molti anni fa si riempivano gli scaffali delle biblioteche universitarie con le tesi sull’infanzia nei film di Trouffaut, ora spetterebbe a Niccolò Ammaniti avere un posto di rilievo nei tentativi di analisi dei frequentatori dei dipartimenti di italianistica e di scienze della formazione.

*Un piccolo appunto geografico: a p. 462 si parla della casa ospitaliera di Saint-Oyen. Saint-Oyen è un paesino che si trova in Valle d’Aosta, la Valle d’Aosta è una regione italiana, ergo Saint-Oyen non è in Svizzera ma in Italia. Ammaniti non lo sa, ma del resto lui è romano, guarda distrattamente i tg (vi ricordate la bambina bielorussa finita nella casa ospitaliera?) e questo gli basta. Però nemmeno gli editor milanesi di Mondadori si preoccupano della geografia e questo, forse, è un po’ più strano…