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Vercingétorix: l'uomo che osò sfidare Roma

di Luigi Carlo Schiavone - 11/05/2007

 


In un tempo in cui il suolo europeo è solcato dai passi di uomini minuscoli, è giusto serbare il ricordo delle gesta di chi può essere considerato, a ragione, un gigante della Storia.
Vercingétorix nasce tra l’82 e il 72 a.C. in una delle più ricche e potenti famiglie della tribù degli Arveni. Successivamente, suo padre Celtill cercherà di far perno sulla loro potenza per consentire alla propria tribù di riportare la vittoria su i rivali di sempre, gli Edui, ottenendo così l’egemonia su tutta la Gallia. Questa sua manovra, però, non sarà condivisa dal resto dell’aristocrazia arvena, che, dopo aver rimesso in causa il suo potere, condannerà a morte Celtill, senza che però questo abbia nessuna ripercussione sul prestigio della sua famiglia.
Quando nel 58 a.C. Cesare conquista il sud della Gallia, deve domare le tribù dei territori centrali che si opponevano ai suoi piani. In questo frangente, i capi degli Arveni, tra cui lo zio di Vercingétorix, decidono di non schierarsi con i rivoltosi e di giocare la carta dell’amicizia con Cesare. Non si sa come reagì Vercingétorix: allora era ancora troppo giovane per avere un ruolo determinante nella vita politica, e ciò non gli permise di essere preso in considerazioni dai cronisti.
Col passare del tempo, però, l’opposizione a Roma si manifesta in maniera sempre più vivace; fu nel 52 a.C che due celebri tribù galliche, i Carnuti ed i Senoni, scatenarono una rivolta generale massacrando tutti i commercianti italici d’Orleans. Questo fu soltanto l’inizio; di lì a poco lo spirito della rivolta iniziò a propagarsi in tutto il resto della Gallia.
È in seguito a tali eventi che la figura di Vercingétorix inizia ad assumere connotati rilevanti. Divenuto capo della fazione degli Arveni ostile ai romani, diede vita ad una seria azione per imporre la sua visione a tutto il suo popolo. Facendo appello al carisma, alle abilità di comando, alla gioventù ed alla forza fisica, sarà in grado di far convenire sulle sue posizioni anche i più reticenti. L’apice del consenso lo raggiungerà quando, lui, figlio dell’ultimo Gallo che aveva comandato tutte le tribù, si farà proclamare Re nella capitale Gergovia, ottemperando finalmente al destino celato nel significato del suo nome:“Supremo Re Guerriero”.
Nella primavera del 52 a.C, Cesare diede inizio alla sua campagna. Egli riuscì, grazie ad un’audace attraversata delle Cèvennes a ricongiungersi con le guarnigioni romane del nord-est della Gallia ancor prima che i Galli avessero potuto crear loro qualche minaccia.
Vercingétorix inizia, quindi, a porre in atto la sua strategia; rifiutandosi di affrontare i Romani, decide di affamarli, bruciando tutti i villaggi e i raccolti che avrebbero potuto fornire sostentamento alle legioni. Questa strategia sembrò così efficace che tutti suoi guerrieri, al contrario di quelle che erano le loro tradizionali abitudini, l’accettarono senza ribellarsi dando vita ad una guerra “d’usura”. In una sorta di strano paradosso, si vedeva applicare contro le armate romane una delle più efficaci tattiche proprie dell’ “ars militaria” di Cesare. Ritardando sempre più l’ora del combattimento i Galli furono in grado di approntare una serie di manovre che permetteranno a Vercingétorix d’infliggere, nella battaglia di Gergovia del giugno del 52, una pesante sconfitta ai Romani. Sull’onda di questo successo, molte altre tribù galliche decideranno di prendere parte al conflitto. Tale rafforzamento risulterà però puramente illusorio. Innanzitutto queste nuove tribù non erano disposte ad accettare la conduzione della guerra à la Vercingétorix, perché la consideravano contraria al loro modo di combattere; inoltre, tra loro risultarono esserci anche gli Edui da sempre nemici degli Arveni.
Le frizioni che scaturirono da questo ricongiungimento possono quindi essere considerate le cause scatenanti che condussero Vercingétorix a commettere un grave errore: attaccare il grosso dell’armata romana in marcia verso Digione. Questo scellerato attacco costerà a Vercingétorix la perdita della cavalleria, una forza indispensabile per il proseguimento della guerra.
Dopo tale disfatta, il Re degli Arveni decise di ritirarsi nella città fortificata di Alesia, preparandosi a sostenere un lungo assedio.
Nonostante Cesare ci fornisca una descrizione molto dettagliata della posizione geografica della città di Alesia, dicendoci che fosse situata in cima ad un colle posto alla confluenza tra due fiumi e che aveva di fronte un pianoro lungo tre miglia mentre ai lati era circondata da colline, ancora oggi non è stato possibile darne l’esatta collocazione.
Ciò ha favorito il sorgere di diverse ipotesi: alcuni l’hanno identificata nella piccola città di Alaise; per altri invece, questa doveva sorgere lungo la Senna nei pressi di Alaise-Sainte-Reine. La loro ipotesi sembra essere supportata dagli scavi qui eseguiti tra il 1861 e il 1865 che portarono allo scoperto una moltitudine di ossa di uomini e cavalli ed un numero considerevole d’armi. Nei pressi di tali scavi inoltre, furono trovate tracce tipiche dei fossati che circondavano le città fortificate.
Per cingere l’assedio, le cohortes fabrum dell’esercito romano costruirono una fortificazione lungo la quale posero a guardia 23 fortezze vigilate da sentinelle per l’intera durata della giornata. A 400 metri di distanza Cesare diede ordine di scavare un fossato di sei metri a cui se ne aggiunsero presto altri due larghi cinque, assicurandosi che fossero riempiti d’acqua. Dietro a questi fu costruito inoltre, un terrapieno fortificato di quattro metri dotato di rostri e plutei sporgenti quali deterrenti ad una qualsiasi ipotesi di scalata da parte dei nemici. Innanzi ai trabocchetti che tale terrapieno racchiudeva, i romani collocarono in terra una serie di pioli e ferri uncinati. La fortificazione venne infine circondata da una moltitudine di micidiali macchine da guerra.
Nel frattempo, i guerrieri di Vercingétorix in attesa di rinforzi, preparavano uncini, rampini e scale per attaccare le linee romane.
I rinforzi tanto attesi alfine arrivarono. Dalle cronache di Cesare s’evince che l’armata gallica contasse alla fine più di duecentocinquantamila uomini, ma la manovra a tenaglia progettata da Vercingétorix non ebbe gli effetti sperati; a causa dell’impossibilità di coordinamento tra i guerrieri all’interno della fortezza e quelli all’esterno, gli attacchi perpetrati ai danni dei Romani non sortirono alcun effetto, se non quello di aumentare il numero delle loro vittime.
Si giunse così allo scontro finale. I Galli decisero di giocare l’ultima carta a loro disposizione: l’attacco a sorpresa. Uscendo improvvisamente dall’accampamento, le truppe galliche s’avventarono contro i romani, ma furono sopraffatte dalla forza soverchiante della cavalleria nemica. Tra le loro perdite, si ebbero uomini di grande spessore politico come Sedulio, capo del Lemovici.
Mentre tutto ciò accadeva, gli assediati, vedendo dall’alto il compiersi di tale massacro, persero ogni speranza di salvezza ed approntarono le misure necessarie per mettere in salvo quanto era rimasto dell’esercito.
Il giorno dopo, preso atto della criticità della condizione, Vercingétorix convocò i suoi a consiglio per decidere il da farsi. Le soluzioni che propose erano due: o si sceglieva di ingraziarsi i romani uccidendolo oppure egli si sarebbe consegnato vivo ad essi.
Alla fine si optò per la seconda condizione. Come racconta Plutarco, il Re degli Arveni: “indossò la sua armatura più bella, bardò il cavallo, uscì in sella dalla porta e fece un giro attorno a Cesare che lo aspettava seduto. Qui scese da cavallo e spogliatosi delle armi restò in silenzio ai suoi piedi”.
Ma la grazia per nemici così valorosi non ci fu. Cesare, che non era di umore compassionevole, diede i guerrieri in schiavitù ai propri legionari ed imprigionò Vercingétorix.
Dopo sei anni di campagna, Cesare tornò a Roma per celebrare il suo trionfo. Davanti al suo carro, conduceva in catene l’eroe degli Arveni, prova vivente dell’assoggettamento della Gallia. Successivamente, come era tradizione, diede l’ordine di giustiziarlo.
Cesare non parlerà più di Vercingétorix, forse per non concedere ulteriore risalto a quel nemico che aveva infranto il famoso veni, vidi, vici. L’unico documento che reca memoria della resa di Vercingétorix resta, quindi, il “De bello Gallico”, il diario redatto da Cesare per informare il Senato romano dei suoi progressi, e che, contrariamente a quanto pensava il grande conquistatore romano, fungerà quale strumento utilissimo per tramandare nei secoli la figura tragica, e al tempo stesso titanica, del suo avversario.