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Tutti esplosi (recensione)

di Giuseppe Serra/Raffaele Sari - 13/05/2007

Il Gruppo Opìfice (un nome insolito che viene dal latino opifex, «autore», «artigiano», «creatore»), nasce a Cagliari nel 2002 – come si spiega in quarta di copertina – “con l’obiettivo di coniugare pensiero e azione nella pratica metapolitica”.  Nel 2005 indice un concorso di narrativa on line: l’antologia “Tutti esplosi” propone una selezione tratta dall’enorme risposta di invii che hanno sommerso la redazione degli opificisti.

Come gli stessi curatori ammettono, si tratta di un’antologia eterogenea, che rende difficoltosa (ma non impossibile) l’individuazione di un filo conduttore univoco, risolto con la distinzione di tre momenti.

I racconti restano frammenti, schegge, d’una bomba finalmente intelligente. L’esplosione della letteratura, appunto. Sopra ogni cosa. Attraverso ogni cosa.

La realtà, l’allucinazione, le paure, il disorientamento, la frustrazione, tutto finisce a comporre questa galleria di storie minimali, fulminanti. Una galleria buia, dove si aprono d’improvviso varchi di luce, una galleria che si percorre a ritmi diversi: a passo lento, di corsa, barcollanti o a perdifiato. Disomogenea nei ritmi, nelle sensibilità, questa antologia, come si diceva, trova comunque un senso superiore ed avvolgente nelle sue “trame”, “Le trame di Opìfice”, appunto.

Le trame sorreggono il testo, tengono unite le numerosi voci, suggeriscono al lettore che è possibile riannodare il filo delle molteplici visioni degli scrittori. È una filigrana sottile che si dipana da quelli che i curatori dell’antologia hanno chiamato “momenti”. Solo nei “momenti”, attraverso la loro prosa scarna e asciutta, prendono forma molte delle grandi inquietudini che attraversano la mente dell’uomo contemporaneo e stanno alla base del suo sentirsi sempre più insicuro di fronte agli interrogativi che si delineano nel presente e si proiettano verso il futuro.

L’umanità è agitata da mille incertezze, i nostri mille e mille progressi, della scienza, della tecnologia, dell’industria, non riescono a darci un tranquillizzante senso di sicurezza; ecco allora il Momento 1: Ritmi e luoghi della Terra, il cui fine è la jungeriana contemplatio, che è un’attività fine a se stessa, nel senso che risulta del tutto estranea a qualsivoglia intento utilitaristico. Fermarsi ad ascoltare, in silenzio. Al silenzio abbiamo dichiarato guerra aperta su tutti i fronti, scacciandolo, scongiurandolo, esorcizzandolo in ogni modo possibile. Ma il silenzio è parte inamovibile dell’esistenza umana e rinunciare alla sua presenza è come decidere di chiudere gli occhi per non vedere ciò che ci aspetta. Nei racconti che appartengono a questo momento non si notano immagini idilliache del passato, incontaminato e buono, né vi sono atteggiamenti che fanno pensare di poter rinunciare alla scienza, alla ragione, aleggia invece il dubbio che la pretesa della scienza di poter risolvere tutti problemi sia falsa. Rimaniamo soli con le nostre inquietudini, non possiamo sconfiggerle: possiamo solo vederle, dargli una voce col ricordo (“Sui gradini del tempo”; “Umido rinfrescante”; “Attorno al lume” e soprattutto lo splendido “Edo”, di Fabio Medda)

Mutare il punto di vista  come in Un giorno una mosca per caso e immaginare di essere un insetto. Cambia la percezione delle distanze, si sentono gli echi del filosofo Arne Naess, e della sua ricerca degli anelli che ci uniscono all’essere più lontano, in questo caso una mosca. Calarsi negli occhi di un insetto è la via migliore per percepire le voci più nascoste della natura, al di fuori di tutte le enfasi antropocentriche.

Il Momento 2, Dubbi postmoderni, funge da cornice narrativa a una serie di racconti che affrontano, in termini letterari, la mancanza di autenticità delle nostre vite: Quanto più la vita si fa artificiale, tanto più si diffonderanno la tristezza e l’inquietudine.

Infine il Momento 3, Frutti amari della velocità

La vita scorre veloce, tutto deve essere consumato in fretta, perché i ritmi produttivi richiedono un riciclo continuo delle merci: è il pegno del nostro sudato benessere. Ma non si tratta solo degli oggetti: oggi siamo pressoché incapaci di poter attribuire un senso stabile alle cose, siamo esposti alla velocità del mutamento degli accadimenti, ed è una velocità che ci richiede uno sforzo sempre maggiore per comprenderne le diversità di significato. La città è lo scenario di questa nostra straordinaria follia: un vivere parallelo ad alta velocità, fatta di fugaci contatti che non lasciano tracce, ma impressioni.

«D’altronde, questi sono i tempi – nonché le vere scadenze – della città in cui rapporti umani e movimenti di massa fatalmente, s’incrociano s’incontrano e si riscontrano, solo per breve.»

(da “Uomini e folle” di Fiorenza Licita)

Al di là delle interpretazioni, più o meno sociologiche, rimane comunque intatta la parte creativa degli opificisti. Gli opificisti scrivono racconti senza imprigionarli entro i canoni di un genere e si cimentano con quello che oggi è un racconto. Lo intuisce, quasi per una precognizione, nel cuore del volume, tra pag.100 e pag.101, Davide Riccio, che nel suo “Otturazione” inventa una recensione che potrebbe adattarsi a questa antologia, teorizzando un nuovo genere letterario, lo scrivismo. O persino il post-scrivismo: «narra senza narrare, superando ogni regola o limite del mestiere di scrittore semplicemente scrivendo…» (da “L’otturazione” di Davide Riccio). Ecco di che si tratta. Lo anticipa persino la copertina.

Un urlo, attraverso il web, la comunicazione all’istante, la condivisione bloggante. Un urlo che ha mille echi, che rimbalza, va e ritorna, con mille toni, fino a sfumare nel sussurro. O forse nel non detto, nel solo pensato. Un urlo che mette in comunicazione, con forza ancestrale, tutti gli animali della foresta web, dove si sta trasferendo, migrando, fuggendo il mondo degli uomini post moderni.

Ritrovandosi come i giovani del Boccaccio in un tedioso rifugio dalla peste, le anime del web hanno dato vita a tutto questo. E non è poco.