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L'oppio e il tè dei popoli

di Miguel Martinez - 14/05/2007

 

L'Occidente postindustriale non è territorio, non è stato, non è nemmeno classe.

E' incessante flusso di acido corrosivo, che aumenta in ogni istante la propria velocità e muove in ogni direzione.

E' flusso il denaro, innanzitutto; flusso sono i container, la corrente elettrica, il petrolio, flusso il cicaleccio nelle onde radio e le immagini evanescenti.

Flusso gli uomini in giacca e cravatta che si infilano a centinaia di migliaia, a milioni ogni giorno sugli aerei per fare affari, cioè per generare nuovo flusso, con le sue infinite conseguenze su tutti gli esseri viventi.

Sono flusso coloro che chiamiamo, specificamente, "migranti". Anzi, li definiamo "flusso migratorio", come se tutto il resto non fosse un incessante migrare.

Nel grande flusso planetario, si creano buchi, vortici, vuoti che risucchiano umanità.

Per cogliere i pomodori che permettono di ottenere sussidi comunitari ai padroni, per pulire i gabinetti dei ristoranti che gli italiani affollano, per offrire sesso di ogni genere agli sfigati, per rifornire di cocaina i buontemponi, per costruire gli alberghi con cui si sfigurano le coste, per cambiare i pannoloni alle nonne.

I flussi umani hanno dei beni intangibili propri, che li rendono poco digeribili: l'ideale sarebbe poter affrontare ogni individuo, isola a sé, con tutta la potenza del sistema.

Tra questi beni intangibili, c'è quella potente ambiguità che chiamiamo "religione". Conosciamo tutti la frase di Marx, "oppio del popolo", e la sua conclusione, "eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigere la felicità reale."

Ma non molti, forse, conoscono la ricchezza del contesto:

"la miseria religiosa è da una parte l’espressione della miseria reale e dall’altra la protesta, contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il cuore di un mondo spietato, come è lo spirito di una condizione senza spirito." [1]

Non voglio toccare qui la dimensione interiore della religione, che non poteva che sfuggire a Marx (nato troppo tempo dopo i mistici e troppo tempo prima di Freud o di Jung); ma sul piano sociale aveva certamente detto una grande verità.

Che va completata con la certezza che la religione è anche il tè dei popoli, che nell'orrore, risveglia, permette la lucidità, dona coraggio e solidarietà e ci salva dall'adorazione degli idoli passeggeri.

Gran parte dei flussi umani, degli umani fluttuanti, sono cattolici; alla fine basta telefonare al vescovo per renderli innocui.

Un'altra parte è evangelica. La natura del tutto asociale di questa fede, che parla solo di salvezza personale, la rende conciliabile con ogni forma di sfruttamento.

Resta l'Islam, molto più difficile da castrare.

I princìpi reggono, finché fanno comodo.

Quando si tratta però di trasformare, alchemicamente, l'Islam da tè in oppio, duecento anni di retorica sulla tolleranza, sul rispetto delle diversità, sull'autonomia della sfera spirituale dell'uomo, sulla parità di trattamento, sulla non interferenza dello stato nelle questioni religiose, vengono buttati allegramente a mare. 

Lo stesso Stato italiano che ascolta umilmente i vescovi, infatti, prende come modello per l'Islam, la tanto vituperata Cina, dove i cattolici sono costretti a far parte della "Associazione Patriottica Cattolica Cinese", che ha come obiettivo la creazione di un "cattolicesimo nazionale".

Con una differenza fondamentale: l'Occidente è uno stato ipnotico della mente, ma non è un'ideologia. Il flusso corrosivo spazza via anche le certezze razionali su cui si basavano lo scientismo, la scuola pubblica, il culto dello stato, i monumenti agli eroi.

La religione viene quindi, in un certo senso, liberata: qualunque affermazione immaginifica e suscitatrice di emozioni, dalla pubblicità alla telenovela alla religione, vale l'altra, a patto che faccia "sentire bene".

Non si esige quindi la cristallizzazione di una dottrina, ma la sua fluidificazione, la trasformazione della religiosità in bolla privata fluttuante che non ostacoli, con i suoi angoli spigolosi, lo scorrere generale.

Per ottenere questo, si ricorre, come vedremo, alle tecniche di sempre: il bastone e la carota, o, per chiamare le cose con il loro nome, il terrore e la corruzione.

[1] Karl Marx, Per la Critica della Filosofia del Diritto di Hegel, 1843