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Che cosa ci possono insegnare le società "miti"

di Francesco Lamendola - 21/05/2007

 

 

      Questo articolo è sato pubblicato sul numero del 5 marzo 1989 (anno 69), pag. 6, del giornale "Umanità Nova", fondato da Errico Malatesta nel 1920, ed è ora riproposto con lievissime modifiche.

      Prendendo lo spunto da un'intuizione del compianto geografo ed etnologo Silvio Zavatti, esploratore polare e grande conoscitore degli Eschimesi o Inuit, si prendono in considerazione le società di alcuni "popoli miti", cioè che non conoscono la pratica della guerra (se non, ovviamente, per scopi difensivi). Sono tutti, guarda caso, popoli "primitivi", cioè, secondo la terminologia in uso fra gli Occidentali - anche còlti - sino a qualche anno fa, dei "selvaggi". Non hanno scritto l'equivalente dell'"Iliade" o della "Divina Commedia" perchè ignorano la scrittura; non hanno costruito le Piramidi o tagliato l'istmo di Panama, né scoperto la fisica dei quanti e tanto meno la pratica della clonazione e della manipolazione genetica. Sono talmente primitivi che a loro merito si può inscrivere una sola cosa: sia nei rapporti sociali "interni", sia nelle relazioni con gli altri popoli, mostrano di essere fondamentalmente pacifici…

      Sovente gli anarchici sono accusati di utopismo perché, nella loro proposta di una società senza Stato, senza leggi e senza polizia, sembrano accordare  eccessiva fiducia a una innata bontà dell'uomo, riversando sulla società gerarchizzata la responsabilità principale nell'insorgenza di attitudini violente da parte degli individui. Ora, è ben certo che taluni anarchici hanno mitizzato la visione rousseiana di una "naturale" bontà dell'uomo; tuttavia, resta di estrema attualità il loro richiamo alla funzione disgregatrice e anti-sociale esercitata sul singolo individuo dalle strutture autoritarie.

      Tutti coloro che invocano uno Stato sempre più accentrato e poliziesco, cercano di giustificarlo con una pretesa incapacità dell'uomo a vivere in armonia coi propri simili; ma intanto nulla si tenta, neanche sul piano della pedagogia, per favorire lo sviluppo di una autonomia critica e di una reale emancipazione morale di esso; al contrario, lo si abitua sempre più a una dipendenza psicologica dall'autorità. Come stupirsi, poi, se effettivamente egli, talvolta, assume degli atteggiamenti antisociali? E tuttavia questi ultimi, ben lungi dal dimostrare una sua pretesa incapacità "costituzionale" alla vita sociale che sia basata su dei liberi accordi, dimostrano - al contrario - che seminare coercizione e dipendenza significa inevitabilmente raccogliere inciviltà e disordine.

      Sul piano dell'indagine scientifica, tuttavia, non si può dire che il pensiero libertario abbia fatto abbastanza per rintracciare dei supporti oggettivi alle proprie teorie, basate su una concezione anti-autoritaria della società umana. Le opere di Kropotkin sul mutuo appoggio e sulla solidarietà, scaturite dalla sua esperienza autobiografica di ufficiale russo a contatto coi popoli e con la natura incontaminata dell'Estremo Oriente, appaiono oggi datate. Anche i suoi ammiratori più convinti riconoscono che egli era troppo incline, per dirla col suo amico Malatesta, a cercare dei dati che suffragassero le sue profonde convinzioni, per essere un osservatore veramente obiettivo. Inoltre, il clima generale della cultura positivista di fine '800, traboccante di ingenua fiducia nelle "magnifiche sorti e progressive" dell'umanità (avviata, con lo strumento della scienza, a un completo dominio sulla natura), non gli consentiva quella pacatezza di giudizio che per noi, cittadini dell'èra atomica, è moralmente doverosa.

 

 

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      Erich Fromm (Anatomia della distruttività umana, Mondadori, 1979) ha analizzato trenta culture primitive dal punto di vista della loro natura aggressiva o pacifica. Il risultato è stata una classificazione di esse in tre sistemi.

 

      Nel sistema A si collocano le società che esaltano la vita, nel senso che in esse ideali, usanze e istituzioni servono principalmente a preservare e incoraggiare la vita in tutte le sue forme. Ostilità e violenza sono ridotte al minimo; non vi sono pene severe né, praticamente, delitti; la guerra è pressoché sconosciuta, tranne che per difesa; i bambini sono cresciuti con la dolcezza; le donne godono degli stessi diritti degli uomini, o quasi; il sesso è incoraggiato. Infine si osserva che invidia, avarizia e avidità sono quasi assenti o ridotti al minimo, a seconda dei parametri considerati. Tali sono le società degli indiani Zuñi Pueblo, gli Arapesh di montagna e i Bathonga, gli Aranda, i Semang, i Toda, gli Eschimesi polari e i Mbutu. Si tratta cioè di popoli la cui economia si basa sia sulla caccia e la raccolta, sia sull'allevamento e l'agricoltura.

      A questo gruppo noi aggiungeremmo, secondo le indicazioni di Silvio Zavati (in L'Universo, luglio-agosto 1966: Esiste una geografia della mitezza?), gli Eschimesi del Labrador, i Sami, i Piaroa, i Fueghini (estinti), i Balti, i Sakai. Ecco come i missionari descrivono i Piaroa delle foreste venezuelane:

 

      "Non conoscono l'invidia, l'egoismo, la bugia né l'inganno. Mai bisticciano tra di loro, né hanno ricordi di aver fatto una sola guerra." (dalla Guida al Museo Etnologico  d. Grossa, Treviso, p. 105).

 

      E ancora, fra gli estinti, si potrebbero ricordare i Moriori delle Isole Chatham e i gruppi Arawak dell'isola di Haiti.

 

      Nel sistema B, Erich Fromm colloca quelle società che, pur non essendo distruttive, vivono l'aggressività e la violenza come eventi normali. È, quindi, un sistema intermedio. Comprende gli Eschimesi della Groenlandia, i Bachiga, gli Oijbway, gli Ifugaos, i Manus, i Samoani, i Dakota, i Maori, i Tasmaniani (estinti), i Kazak, gli Ainu, i Crow, gli Inca e gli Ottentotti. Esse sono imbevute di individualismo e di aggressività maschile, e vi sono presenti sia la competizione che la gerarchia.  Riescono, però, a contenere l'aggressività entro la soglia della non-distruttività.

 

      Il sistema C è caratterizzato da una grande violenza interpersonale, distruttività, aggressione, crudeltà, sia all'interno che all'esterno. E inoltre da amore per la guerra, malignità, tradimento, tensione, paura. La competitività è altissima, la proprietà privata è esaltata, la gerarchia rigida. Rientrano in esso i Dobu, i Kwakiutl, gli Haida, gli Aztechi (estinti), i Witoto, i Ganda.

 

      Questa classificazione può essere sottoposta a critiche di vario tipo; resta comunque una chiave di lettura, a nostro avviso preziosa, quale avviamento a una antropologia comparata. Certo, avverte Ruth Benedict (Modelli di cultura, Feltrinelli, 1974, p. 223):

 

      "I fini e i mezzi di una società non possono essere giudicati nei termini adatti ai fini e ai mezzi di un'altra società, perché sono per essenza incommensurabili."

 

      E tuttavia, esistono delle costanti e delle analogie che consentono di stabilire dei parametri comuni per un confronto.

      Nella cultura eschimese (almeno in quella polare; meno in quella groenlandese), per esempio, guerra e violenza interpersonale sono assenti non solo nella pratica quotidiana, ma nella mitologia, nelle arti figurative, nel canto; non vengono, cioè, neppure rappresentate o nominate.

 

     Che dire, a questo punto, della società capitalista, i cui idoli sono, fin dall'infanzia, i vari Rambo e Conan il Barbaro, e mostri più o meno spaziali? Come meravigliarsi, se da una così massiccia pubblicità della violenza più bestiale e più gratuita, anche quei membri sociali che non vivono direttamente sulla propria pelle la violenza delle istituzioni, sono spesso fatalmente attratti dalla distruttività interpersonale? (cfr. i fascistelli della Roma-bene tipo i sadici assassini dei Parioli [recentemente tornati agli onori della cronaca], le varie "gioventù dorate"  della ricca borghesia a caccia di stupro in gruppo, ecc.). (1)

 

 

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      Un rilancio della proposta anarchica di una società non gerarchizzata, dovrebbe prendere le mosse , su di un piano scientifico, da un esame comparativo  delle società a livello etnologico (cioè quelle cosiddette "primitive"). In un secondo momento, si dovrebbe studiare come rendere possibile il ritorno a dei modelli sociali "conviviali" - come direbbe Ivan Illich - in società popolose e altamente tecnologizzate, come la nostra. (2)

      In questa seconda fase, crediamo che una critica radicale al concetto stesso di megalopoli, sarebbe la premessa essenziale. Nessuna riumanizzazione, nessuna mitezza sarà mai possibile in agglomerati urbani di milioni d'individui - il che, evidentemente, non significa dar ragione a Pol Pot, quando caccia, armi alla mano, gli abitanti delle città per stabilirli nelle campagne. Ma di questo, torneremo a parlare a suo tempo. (3)

 

      Una cosa è certa. Le società miti esistono.

      Al di là delle favole illuministiche sul "buon selvaggio", è certo che un numero consistente di società umane hanno saputo vivere, prima dell'avvento della civiltà industriale, in un mirabile equilibrio fra libertà, solidarietà ed eguaglianza. Si tratta di esperienze distrutte o in via di estinzione, che non sono ovviamente recuperabili tout court dall'esterno, tanto meno nelle condizioni economiche oggettivamente sfavorevoli della nostra realtà d'oggi.

      Eppure, è possibile che la tecnologia, che finora ci ha portato disastri ecologici e bellici, centralizzazione burocratica, militarizzazione sociale, non possa offrirci domani la chiave per riappropriarci di una dimensione di vita più umana e più giusta?(4)  Una dimensione basata sul decentramento, sull'anti-autoritarismo, sulla orizzontalità, sull'apertura, sulla tolleranza; e nella quale anche gli spazi fisici siano organizzati secondo un modello di integrazione città-campagna (la città giardino, ad esempio), capace di assicurare il massimo di benessere e l'optimum, non il maximum, di efficienza produttiva, conciliando quest'ultima col minimo di impatto ecologico e sociale. (5)

 

 

NOTE.

 

 

1)        Cfr. F. LAMENDOLA, Ogni epoca (di reazione) ha le sue "gioventù dorate", in Umanità Nova del 26 giugno 1988, pag. 6.

2)        I. ILLICH, La convivialità, tr. it. Milano, Mondadori, 1974;

3)        Cfr. F. LAMENDOLA, Prospettive per il Duemila, in Quaderni dell'Associazione Filosofica Trevigiana, n. 7 del 1998 e n. 1 del 1999.

4)        Rispetto al 1988, ho abbandonato la speranza che la tecnologia, dopo averci condotti sull'orlo dell'abisso, ci possa poi salvare. Cfr. F. LAMENDOLA, Raimon Panikkar e la Torre di Babele della cultura moderna, in Quaderni dell'Associazione Eco-Filosofica, n. 2 del 2005.

5)        Cfr. F. LAMENDOLA, Oltre il paradigma sviluppista, in Quaderni dell'Associazione Eco-Filosofica, n. 5 del 2006.