Cosa c'è dietro la fuga di sostanze chimiche a Harbin
di Joshua Muldavin - 10/12/2005
Fonte: comedonchisciotte.org
Il riversamento di veleni questo mese nel fiume cinese Songhua ha obbligato ad evacuare migliaia di persone; ha avvelenato le riserve d’acqua a milioni di abitanti del nord-est della Cina, compresa Harbin, la principale città della regione; ora minaccia l’approvvigionamento per settanta città e villaggi russi a valle del corso del fiume. Sinora, la maggior parte delle analisi seguite al disastro si sono concentrate sulle sfide per gli abitanti della città e i problemi determinati da una scarsa applicazione delle norme ambientali, da funzionari locali corrotti, dalla lentezza e difficoltà con cui sono state rese disponibili le informazioni alle popolazioni colpite.
Ma si sono persi di vista due punti di gran lunga più significativi riguardo alla perdita, di 100 tonnellate di benzene, un potente prodotto petrolchimico cancerogeno che causa le leucemia. Primo, non si tratta di un evento isolato, ma della manifestazione di un problema strutturale di dimensioni molto superiori per la Cina, che colpisce in modo sproporzionato le zone rurali dove abita la maggior parte della popolazione. Secondo, il mondo nel suo insieme è implicato a vari livelli nella questione, e non può più fingere che sia altrimenti.
Lontano dalle brulicanti megalopoli di Pechino e Shanghai ci sono gli entroterra rurali della Cina: motore e discarica della crescita e sviluppo economico senza precedenti del paese. Queste zone rurali forniscono alle città del boom economico una manodopera a buon mercato, non sindacalizzata, proveniente da villaggi di poveri contadini nel pieno di una crisi sociale e ambientale. È qui che si localizzano molte industrie nocive, dove i riversamenti di benzene hanno iniziato a scorrere e scorreranno ancora, lontano dagli occhi dei media internazionali. I lavoratori delle campagne operano in condizioni che sono tra le più antigieniche e pericolose del mondo, in queste remote industrie di villaggio e cittadina sparse per il paese. Questi subfornitori delle corporations cinesi e internazionali diffondono inquinamento nell’aria, nell’acqua, nel suolo. E quando la salute dei lavoratori è distrutta dentro queste fabbriche, essi tornano a coltivare le povere terre residue attorno ai propri villaggi: ormai discariche di veleni per questa produzione senza regole.
Ho trascorso buona parte degli anni ’80 lungo il fiume Songhua. Ricordo distintamente di aver bevuto acqua di pozzo rossastra inquinata in un villaggio privo di qualunque altra fonte idrica di quella avvelenata dalla piccola fabbrica del luogo. La possibilità di scelta per gli abitanti era o di bere quell’acqua o andarsene, aggiungendosi ai 200 milioni di contadini cinesi in cerca di lavoro ogni giorno nelle città cinesi.
Alternative del genere sono il rovescio della medaglia del successo economico della Cina a partire dai primi anni ‘80, che ne ha fatto il produttore di una quota costantemente in crescita dell’industria mondiale. La fenomenale crescita del paese si è accompagnata a un saccheggio delle risorse della sua base rurale, con un declino nell’accesso dei contadini ai servizi di base, sanitari e dell’istruzione, è un solco profondo e in rapida crescita fra aree urbane e rurali, fra una minoranza di ricchi e una maggioranza di poveri.
Questioni del genere possono apparire distanti. Ma le loro manifestazioni concrete stanno sugli scaffali del nostro Wal-Mart o dell’Ikea. La Cina rurale, il suo ambiente, la sua gente, sono la base portante di una catena globale che si collega all’emergere della Cina come piattaforma industriale preferita dalle corporations globali.
Se sono i lavoratori e l’ambiente cinese a pagare in massima parte i costi, noi al di fuori dei confini del paese, sempre pronti a comprare beni a basso prezzo senza pensare ai loro impatti sociali e ambientali – specie in contesti remoti e nascosti come la Cina rurale – ne godiamo i benefici. E pure indirettamente ne sosteniamo anche i costi.
Le compagnie mondiali continuano ad accorrere verso la Cina a metter su fabbriche per evitare le regole ambientali e del lavoro vigenti altrove, le organizzazioni sindacali, e trascinano le comunità di tutto il pianeta verso il basso nella lotta per la concorrenza a questa piattaforma industriale socialmente ed ecologicamente distruttiva.
Dobbiamo renderci conto di questa triste realtà, e affrontare la conseguente sfida alle comunità di tutto il mondo. È troppo facile lanciare un momentaneo grido di sgomento in ogni caso di notizia di disastro ambientale, puntando il dito contro leaders locali corrotti e industriali, o anche al fallimento del sistema di regole cinesi, solo in attesa del prossimo evento, una settimana più tardi. Invece, dobbiamo affrontare direttamente questi modi ambientalmente e socialmente insostenibili che abbiamo scelto per produrre e consumare globalmente.
Joshua Muldavin
Fonte:www.iht.com
Link:http://www.iht.com/articles/2005/11/30/opinion/edmuldavin.php
30.12.05
Traduzione di Fabrizio Bottini
Visto su:http://eddyburg.it
Nota del trdauttore:
Joshua Muldavin, professore di Geografia e Studi sull’Asia al Sarah Lawrence College, sta scrivendo un libro sugli impatti sociali e ambientali del processo di sviluppo in Cina dell’epoca post-Mao.