Nella fabbrica mediatica del terrore
di Roberto Zavaglia - 15/06/2007
C
he dopo l’11 settembretutto sia cambiato è un
ritornello pronunciato,
quasi unanimemente, da anni.
Da quel giorno le grandi centrali
mediatiche internazionali
ci ripetono che l’Occidente, o
addirittura il mondo intero, è
in guerra contro il terrore.
Guerra globale al terrorismo è,
appunto, l’imperativo con il
quale Bush ha condotto la sua
politica estera.
A dire la verità, fuori da Stati
Uniti ed Europa - cioè nella
gran parte del mondo, come
dovrebbe incominciare a considerare
quel pensiero liberale
che proclama di rifuggire l’etnocentrismo
- questa emergenza
viene molto meno avvertita,
quando non è del tutto ignorata.
Anche perché in alcune parti
del globo con la minaccia
terrorista, di diverso segno da
quella additata dall’informazione
occidentale, si è costretti
a convivere per davvero. Nello
Sri Lanka, una nazione di
meno di 20 milioni di abitanti,
il conflitto tra l’esercito governativo
e la guerriglia delle
Tigri Tamil ha fatto, dal 1983
ad oggi, circa settantamila
morti. Una parte consistente
delle vittime è morta in attentati,
di cui circa duecento di
tipo suicida. Eppure, non si
può certo dire che la tragedia
di quell’isola remota sia agli
onori delle cronache.
L’11 marzo 2004 un gruppo di
estremisti islamici provocò a
Madrid una strage con
191 morti, mentre il 7
luglio dell’anno
seguente fu la metropolitana
di Londra ad
essere attaccata da terroristi
della stessa
matrice politica, con un
bilancio di 38 morti. In
seguito a quegli eventi
un po’ tutti pensammo
che avremmo dovuto
convivere, negli anni
seguenti, con il terrorismo
delle frange più
estreme dei gruppi
musulmani. Da quei
tragici giorni l’Europa,
invece, non ha più subìto
alcun grave attentato
di questo genere. I
dati dell’Europol per il
2006 segnalano che in
quell’anno sono stati compiuti,
nel territorio dell’Unione, 498
attentati, la grande maggioranza
dei quali non aveva lo scopo
di uccidere e ha causato
solo limitati danni materiali.
Gli attentatori erano in maggioranza
indipendentisti (424)
e, in misura minore, estremisti
di sinistra o anarchici (55),
mentre vi è stato un solo caso
di matrice islamica. Verrebbe
spontaneo tributare un caloroso
plauso alle forze di polizia
che hanno salvato i cittadini
occidentali da quella che veniva
e viene definita una terrificante
piovra, i cui gangli
sarebbero sparsi ovunque. Probabilmente,
gli apparati di sorveglianza
e di prevenzione
hanno davvero lavorato in
modo egregio, come farebbe
credere il fatto che su 706
arrestati, sospettati di appartenere
ad organizzazioni terroriste,
ben 257 sono islamici.
Questo dato, però, potrebbe
essere interpretato anche come
la conseguenza di un eccessivo
allarme e di un’esagerata severità
nei confronti di gruppi che
non sono poi così pericolosi.
In ogni caso, la realtà delle
cose ci fa comprendere come
la minaccia fosse stata notevolmente
amplificata. Per parlare
di guerra, compresa quella
al terrorismo, occorre che ci
siano due forze in campo che
combattano con una certa continuità
e che non trascorrano
anni senza una sola azione di
uno dei due contendenti. È
probabile che, prima o poi,
stante anche la situazione di
conflitto in alcune regioni
mediorientali, gli islamici radicali
tornino a colpire,
ma anche quella
drammatica eventualità
non cambierebbe
i termini della
questione. Vale a
dire che non è in
corso, sul territorio
dell’Occidente,
alcuna guerra, ma si
possono, invece,
verificare dei circoscritti
attacchi terroristici,
a considerevole
distanza di
tempo l’uno dall’altro.
Che l’islam radicale
abbia intrapreso
un’offensiva di
ampie proporzioni
contro l’Occidente,
alla quale si dovrebbe
di conseguenza rispondere
con una guerra globale, è dunque
un’invenzione della propaganda
statunitense, più o
meno condivisa in Europa. Se
la minaccia non esiste, almeno
nella misura in cui è indicata,
la reazione dell’Occidente è
reale e si è concretizzata in
due invasioni di Paesi musulmani.
La martellante campagna
di (dis)informazione sul
pericolo islamico serve a dare
legittimità a delle guerre di
aggressione, ma è smentita dai
fatti.
Ci sarebbero ben altre emergenze
cui l’opinione pubblica
presterebbe grande attenzione
se, sulla stampa, gli fosse dedicato
almeno metà spazio di
quello concesso al terrorismo
islamista. Prendiamo la questione
delle morti sul lavoro.
Solo in Italia, tra il 2003 e l’ottobre
del 2006, secondo l’Eurispes,
ci sono state 5.252 vittime:
una cifra superiore a quella
di tutti i caduti delle forze di
occupazione in Iraq.
I media trattano il terrorismo,
essenzialmente, in due modi: o
gli attribuiscono una enorme e
inesistente capacità di organizzazione,
esagerandone la
minaccia, o lo addebitano
all’opera di pazzi e fanatici.
Come ha scritto Alessandro
Colombo nel suo magistrale
“La guerra ineguale” (il Mulino),
i terroristi agiscono, invece,
sulla base di valutazioni
razionali: «Rispetto agli strumenti
e ai modi della guerra
ordinaria, la minaccia e l’uso
del terrore si propongono (e si
legittimano) come un metodo
“economico”, capace di alterare
a proprio vantaggio l’equilibrio
tra i costi e i benefici della
violenza (ottenendo il massimo
con il minimo)». Il terrorismo
può prendere largamente
piede solo dove vi siano le
condizioni idonee, come nell’Iraq
e nella Palestina sotto
occupazione. In quei casi il
ricorso ad esso può sembrare
utile a controbilanciare la
sproporzione dei mezzi bellici
in rapporto al nemico.
Anche nei casi di attentatori
suicidi animati da profonde
convinzioni islamiche, la motivazione
principale rimane, di
solito, quella politica. Non è
un caso che tanto Hamas
quanto Hezbollah abbiano più
volte ufficialmente dichiarato
di non ritenere l’Occidente, e
nemmeno gli USA, i propri
nemici e non abbiano mai condotto
azioni fuori dal proprio
territorio.
Per quanto riguarda il terrorismo
in Stati nei quali non esiste
un generale conflitto armato,
come è il caso dell’Europa,
il rapporto con i media è ancora
più decisivo. Gli attentati,
oltre che a eliminare determinate
persone, sono soprattutto
destinati a colpire gli “spettatori”:
quanto più questi ne
rimarranno impressionati,
immaginando di essere accerchiati
da una forza invisibile
ma poderosa, tanto più gli
attacchi avranno ottenuto lo
scopo.
Il gioco diventa reciproco
quando i detentori del potere
informativo ingigantiscono
l’allarme per motivi politici.
Nella guerra globale al terrorismo,
i ladri e le guardie hanno
il medesimo interesse di apparire
coinvolti in un dramma
più grande di quello che, in
realtà, mettono in scena.

