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L'America che ci piace

di Alain De Benoist - 09/09/2005

Fonte: Alain de Benoist

 In alcuni ambiti , si sta svolgendo un dibattito, a volte anche un po’ ridicolo e confuso, sulla questione di sapere chi è “il principale nemico”. Quelli che partecipano a questo dibattito, commettono regolarmente due errori. Il primo consiste a credere che il principale nemico è quello che detestiamo di più, quello di cui ci si sente il più lontano o con il quale abbiamo poche affinità. Errore di metodo che Mao Zedong, al suo tempo, aveva già stigmatizzato. La verità è più semplice : fra tutti i nemici possibili, il principale nemico è semplicemente quello che dispone dei mezzi i più importanti per combatterci e sottoporci alla sua volontà, vale a dire quello che è il più potente.
Da quel punto di vista, le cose sono chiare : il principale nemico, sul piano politico e geopolitico, sono gli Stati Uniti di America.

 

Il secondo errore, più devastatore ancora, consiste a assimilare il principale nemico ad un nemico assoluto. Quell’errore o modo di pensare appartiene alle menti totalitarie (o religiose) e appartiene chiaramente all’impolitico. In politica, non c’è – o più esattamente, non ci dovrebbe essere – di nemici assoluti. Un nemico politico non è una figura malefica. È un avversario del momento, che si può combattere con accanimento, ma con il quale un giorno è sempre possibile far pace. Credere che il principale nemico è un nemico assoluto significa che ci ingaggiamo in una via metafisica e morale, in cui il nemico diventa necessariamente un colpevole che bisogna prima vincere e poi punire, il simbolo di un male che è necessario eliminare, un essere subito visto fuori umanità.
È cosi, precisamente, che ragionano gli Americani, per i quali la guerra si apparenta sempre alla crociata. Niente ci costringe ad agire allo stesso modo. Anche se gli Stati Uniti sono il nemico numero uno, non c’è luogo di diabolizzarli. La prova : esiste l’America che ci piace.

Questa America non è evidentemente né quella del capitalismo, né quella del “nativista” nazionalista, dei televangelisti fondamentalisti e dei “creationnisti” deliranti. Non è neanche quella del New Deal né quello del maccartismo. Non è nemmeno quella dei “golden boys”, dei “winners” e dei “money makers”, né quella dei “red necks” e dei veterani del Vietnam, meno ancora quella delle majorette, delle “lolita” e dei “body-builders”. Per non parlare di tutti questi fanatici mistici, criminali di guerra e serial killer che formano oggi la cerchia di Bush.

 L’America che ci piace ha lati o visi ben diversi. Prima di tutto, un’immensa letteratura : da Mark Twain e Jack London a Herman Melville, Edgar Poe, Howard Philips Lovecraft, John Dos Passos, William Faulkner, Henri Miller, John Steinbeck. Ernest Hemingway e tanti altri. Poi, il grande cinema americano, prima che questo degenerasse in un eccesso di effetti speciali e di stupidaggini stereotipate. Anche il jazz, che è forse stato la sola vera creazione culturale di questo paese. L’America dei vasti spazi naturali e delle piccole comunità umane. Quella che evoca i nomi di Jefferson Davis e di Scarlett O’Hara, di Thomas Jefferson e di Ralph Waldo Emerson, di Henry David Thoreau e di Aldo Leopold, di Sacco e Vanzetti, del giovane Elvis Presley e di Ray Charles, di H.L. Mencken e di William Burroughs, di Jack Kerouac e di Bob Dylan, di Cassius Clay e di Woody Allen, di E.F. Schumacher e di Christopher Lasch, di Susan Sontag e di Noam Chomsky.

 Possiamo aggiungere che nel campo delle idee, gli Stati Uniti non sono solo il paese dove le grandi Università offrono condizioni di lavoro di cui in Europa possiamo solo sognare l’esistenza e dove, malgrado il “politico corretto” regna una libertà di espressione che non conosciamo (o che non conosciamo più). Rimaniamo anche molto colpiti dalla qualità dei dibattiti di idee e, nel campo delle scienze politiche per esempio, nel modo in cui numerosi autori si applicano a pensare le loro dottrine partendo dai fondamenti – l’opposto di una Francia in cui le scienze politiche , quasi in via di estinzione, si riducono essenzialmente alla meteorologia elettorale. Sulle nozioni di federalismo, di “populismo” e di comunità, l’apporto teorico degli Americani è stato d’altronde notevole.
Ma c’è il rovescio della medaglia. Gli Stati Uniti si sono imposti sin dall’origine portatore della nozione di libertà. È una nozione positiva, e loro l’hanno subito interpretato come “ogni cittadino è re”. Da loro, ha dato il migliore di lei : l’entusiasmo che deriva dalla possibilità di vivere senza ostacolo, la volontà creatrice e l’ideale di autonomia (la self-reliance), la creazione delle piccole comunità di uomini liberi che scappano a qualsiasi dispotismo (ciò che Maritain chiamava il “sentimento di corporazione umano”. Ha anche dato il peggio di lei quando si è trasformata in puro egoismo glorificando l’affarismo e il desiderio di soldi – che è il desiderio standardizzato per eccellenza – anche in alibi di nuove forme di conquista e d’oppressione. Il pragmatismo, parallelamente, si è trasformato in puro materialismo, in un culto del record e del successo (William James disse : “datemi qualcosa che porta al successo […] e ogni uomo ragionevole adorerà questa cosa”), in ottimismo tecnologico, in adorazione del confort e delle comodità (“l’ideale animale” di cui parlava Keyserling) in superbia arrogante di aver riempito il mondo di nuovi oggetti. E lo spirito di comunità ha degenerato in uniformità mentale (like-mindedness), in questo conformismo di una straordinaria volgarità che aveva già notato Tocqueville.

La tara originaria dell’America, di cui la storia si confonde con quella della modernità, è di essersi costruita in gran parte a partire dal pensiero puritano e dalla filosofia illuministica. Da cui questa pretesa a non avere antenati, questa volontà già proclamata da Thomas Paine sin dal 1776 di “ricominciare il mondo”sotto lo sguardo di Dio, questa costante ossessione della novità, questa inalterabile fede nel progresso (l’ideale dell’illimitato). E da un’altra parte, questa ideocrazia messianica che tende a guardare gli Stati Uniti come una nuova Terra promessa e il resto del mondo come uno spazio imperfetto che deve convertirsi al modo di vivere americano per diventare allo stesso tempo comprensibile e conforme al Bene. Questo obbiettivo di realizzare una società ideale, che sarebbe un modello per l’umanità e la cui adozione da parte di tutti i popoli porrebbe fine alla storia.
Da sempre, scrive Francis Fukuyama, gli americani hanno considerato le loro istituzioni politiche, non come semplici prodotti della loro storia, adatti esclusivamente ai popoli d’America del Nord, ma come l’incarnazione stessa di alcuni ideali e aspirazioni universali destinati un giorno a estendersi al resto del mondo”. I valori americani, aggiunge Samuel Huntington, sono basati sul “protestantismo, l’individualismo, la morale del lavoro e il fatto di credere che gli uomini hanno la facoltà di creare un paradiso sulla terra”.
Nel 1863, in La vita senza principio, Thoreau scrisse : “ I mezzi per guadagnare soldi vi trascinano quasi senza eccezione verso il basso”. Si vede la strada percorsa. Esiste un’altra America.