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Il menù dei filosofi antichi

di Luca Bernardini - 19/07/2007

In quanto uomini ancor prima che pensatori (primum vivere, deinde philosophari), anche i filosofi hanno i loro “piatti preferiti”, rivelandosi non di rado dei grandi estimatori del “mangiar bene”. L’attenzione che essi hanno riservato al cibo affiora dalle loro biografie e nelle loro stesse opere, in cui le metafore culinarie sono ricorrenti e testimoniano un’incredibile attenzione alla sfera eno-gastronomica. La stessa parola “dieta” deriva dal termine greco diaita che significa “modo di vita”.

Platone a questo mondo preferiva decisamente quello eterno e immutabile delle Idee. Per questo il cibo, la sua preparazione e l’appetito che li guida sono stati ritenuti troppo connessi con il corpo per essere di alcun interesse filosofico. Platone fissò questa tendenza nel suo Fedone, dichiarando che il cibo è una distrazione da cose più alte. Nella lettera settima se la prende con i Siracusani, accusandoli addirittura di mangiare tre volte al giorno. Andò poi oltre, scrivendo un dialogo, il Simposio, nel quale si parla di un banchetto durante il quale nessuno mangia. O meglio, Socrate interviene a metà cena e il racconto vero e proprio inizia quando i commensali si sono già saziati. Non resta che fare le libagioni, innalzare inni agli dei e discutere di filosofia.

Nella cultura popolare c’era ancora l’eco di Platone quando nel 1951, uscì il film di John Huston, La regina d’Africa. Rose Sayer (Katherine Hepburn), disgustata dalla debolezza della carne di Charlie Allnut (Humphrey Bogart), lo rimprovera con una dichiarazione filosoficamente vincente: «La Natura, Mr Allnut, è ciò per cui il superamento noi fummo in questo mondo».

Ma il mondo delle idee intangibili di Platone (l’Iperuranio) non aveva fatto i conti con l’irresistibile dolcezza dei fichi secchi. Diogene Laerzio, il re del gossip filosofico antico, ci riporta che il pensatore greco ne era ghiottissimo, mangiandoli anche mentre faceva lezione.

Nell’affresco La scuola di Atene Raffaello, con un immagine molto semplificatoria ma efficacissima, mette al centro della scena Platone e Aristotele, il primo a sinistra indica con un dito il cielo, il secondo a destra indica il terreno. Questa differenza si riscontra anche sull’importanza che i due filosofi hanno attribuito al cibo. Per Aristotele infatti si può pensare solo quando si sono soddisfatti i bisogni primari. Insomma, la filosofia comincia a pancia piena. Sembra anche che avesse abitudini alimentari ricercate, poiché la tradizione ci dice che avesse una ricca collezione di pentole. Aristotele non era tanto preoccupato dal vizio del goloso, quanto semmai, per la prossimità della gola con la parola, che il vizio si trasformasse per contiguità, e la golosità del filosofo si traducesse nell’ingordigia, ovvero l’irrefrenabile loquacità del chiacchierone.

E’ risaputo che i Pitagorici teorizzarono il vegetarianesimo come prassi di vita. Secondo questi filosofi le anime potevano reincarnarsi negli animali; mangiare carne significherebbe dunque essere cannibali. Il maestro Pitagora poi, proibiva severamente ai suoi discepoli di cibarsi di fave, poichè riteneva che in esse risiedessero le anime dei defunti in attesa di reincarnazione. La leggenda vuole che egli stesso, inseguito dai suoi nemici, si fece catturare piuttosto che trovare la fuga calpestando un campo di fave.

Di Epicuro è opinione comune la sua ingordigia, come se egli in tutta la sua vita non avesse fatto altro che fare grandi abbuffate e bevute. Oggi infatti diamo dell’ “epicureo” o dell’ “edonista” (con la parola edonismo da edoné, piacere in greco, si indica la dottrina epicurea) a chi non ha freni nella soddisfazione dei piaceri.

Questa immagine di Epicuro è dovuta a fraintendimenti e in gran parte all’opera denigratoria dei Padri della Chiesa. Probabilmente per la sua teologia estremamente “eretica”: Epicuro sosteneva la mortalità dell’anima e il disinteresse totale degli dei per la sorte umana. Per capire quale sia il vero pensiero di Epicuro cito un passo della famosa lettera a Meneceo: «Allorché affermiamo che il piacere è il fine, non facciamo riferimento ai piaceri dei dissoluti e a quelli che risiedono nel godimento dei sensi, ma il non soffrire nel corpo né turbarsi nell’anima. Non sono le bevute e i continui bagordi, né il godimento di ragazzini e donne, né abbuffarsi di tutto ciò che offre una tavola imbandita, che possono dar luogo a una vita piacevole, bensì il ragionamento assennato, che esamina le cause di ogni scelta e repulsa, e che elimina le opinioni per effetto delle quali il più grande turbamento attanaglia le anime».

Epicuro stesso, nelle sue lettere, afferma di accontentarsi soltanto di acqua e di pane cotto alla buona e scrive «mandami una formina di cacio, affinchè possa pranzare sontuosamente». Questo era colui che stabilì come dottrina che il piacere è il fine. Unico debole, formaggio cotto in una pentola, una specie di fonduta ante litteram.

Ricchissima di aneddoti è la vita di Diogene di Sinope, il più celebre e “integralista” dei cinici. Limitare il più possibile i propri bisogni, vivere con semplicità disprezzando ricchezza, fama e nobiltà di stirpe, questi sono i punti fondamentali della filosofia cinica.

«È proprio degli dèi il non avere bisogno di nulla e di quanti sono simili agli dèi aver bisogno di poco» soleva dire il filosofo. Di conseguenza, dimenticando i pantagruelici banchetti olimpici, Diogene rigettava la sontuosità delle mense imbandite di cibi raffinati, optando per la frugalità dei pasti. I cinici furono gli inventori del “fast-food”, o meglio del cibo di strada, perché per primi predicarono la necessità di consumare gli alimenti tra le vie e in piazza, senza troppe cerimonie né preparazioni.

Sempre Diogene Laerzio ci riporta che il cinico stava mangiando dei fichi secchi, quando si imbattè in Platone e lo invitò ad assaggiarli; e quando Platone li ebbe presi e mangiati, Diogene precisò: «Avevo detto di prenderne un po’, non di divorarmeli tutti!». Ancora una volta il sommo Platone tradito dai fichi secchi.

Diogene riteneva poi che non fosse empio mangiare carni umane. Ma forse non tutti sanno che il filosofo, quando vide un ragazzo che, rotto il piatto, pose le lenticchie nella parte cava di un pezzo di pane, buttò via il suo catino adottando questo metodo di mangiare a panino. Diogene inventore del moderno sandwich?

Lo stoico Zenone di Cizio, secondo Apollonio di Tiro, era magro, alto di statura, con le gambe tarchiate, floscio e debole e nella stragrande maggioranza rifiutava gli inviti a banchetto. Prediliva però i fichi verdi, eleggendo così il frutto a cibo dei filosofi. Carneade, di cui si interrogava il manzoniano Don Abbondio, per la mancanza di tempo dovuta agli studi, dimenticava persino di mangiare. Alla sua sopravvivenza ci pensava però una shiava che lo imboccava regolarmente.

Seneca, esponente dello stoicismo romano, era nemico dello sfarzo (senza arrivare all’estremismo di Diogene). Amava la cucina poco elaborata, alla buona, semplice ma genuina. Scrive nel De tranquillitate animi: «Mi piace il cibo che non debbano elaborare e sorvegliare stuoli di servi, non ordinati giorni prima né servito dalle mani di molti, ma facile a reperirsi e semplice, un cibo che non ha nulla di ricercato o di prezioso, che non verrà a mancare da nessuna parte si vada, non oneroso per il patrimonio né per il corpo, tale da non uscire poi per la stessa via dalla quale è entrato».

In sintonia con i pitagorici, Porfirio porta avanti la causa vegetariana: nel suo trattato Astinenza dagli animali, spiega che gli animali non possono essere sfruttati dall’uomo e considerati semplicemente disponibili per i suoi bisogni. Il suo scritto consiglia l’astinenza anche in un’ottica ascetico-religiosa: un’alimentazione a base di frutta e verdura, più sobria e frugale di quella a base di carne, oltre a essere più salubre, è più adatta all’uomo religioso che cerca l’assimilazione al divino nel distacco da tutte le passioni e da tutti i piaceri del corpo.

«La carne non contribuisce alla buona salute, ma è piuttosto di ostacolo ad essa. Infatti la salute si conserva con quei mezzi dai quali essa riceve forza, e riceve forza da una dieta leggerissima e senza carne. […] Infatti né della forza né dell’accrescimento della robustezza ha bisogno il filosofo se vuole volgere la mente alla contemplazione e non alle azioni e alle intemperanze».

Agli antipodi del Simposio platonico si pone il banchetto di Trimalcione nel Satyricon di Petronio Arbitro. Siamo nell’opulenta Roma imperiale del I secolo d.C. Se nel dialogo di Platone (e nella pratica simposiale greca in genere) la portata principale del banchetto era la poesia, la lirica, o la famelica disquisizione filosofica, nell’episodio della cena del Satyricon il momento clou del pasto è invece tutt’altro che aulico e metaforico. Il confronto non è casuale, dato che il convito di Petronio, volgarmente materiale, ha assunto toni di parodia di banchetto del Simposio, idealmente metafisico, e di feroce denuncia del lusso sfrenato e di pessimo gusto della Caput mundi. Petronio offre ai lettori una sorta di Grande abbuffata dell’antichità alla Marco Ferreri.

Al banchetto di Trimalcione vengono serviti veri e propri mostri gastronomici. Un gigantesco vassoio raffigurante le dodici costellazioni, con pietanze al di sopra di ogni segno zodiacale come ceci simili a piccole teste di montone, testicoli e rognoni, fichi (ancora loro) africani, aragoste, torte di cacio e dolci al miele, persino un gufo e vulve di scrofa; quindi un cinghiale contornato da maialini e datteri, un porco gigantesco che occupa tutta la tavola, un dolce dalle effigi priapee di pastafrolla. E ancora una mostruosa oca contornata di pesci e uccelli di ogni genere e un gigantesco gallo.

Un’incommensurabile quantità di portate, abnorme rispetto ai bisogni dei commensali, è volutamente iperbolica perché deve stupire, in un delirio di grandezza che fa della cena una vera e propria performance spettacolare. Alcune portate sono addirittura paradossali, come la gallina con al suo interno uova di pavone (elaborata ingegneria gastronomica o già i romani conoscevano gli Ogm?). Il cibo offerto è un delirio di abbondanza e lusso, in una sequenza sfrenata di pietanze, che arriva al disgusto, alla nausea, alla bulimia.

Ma le cose cambieranno presto, siamo alle soglie dell’era cristiana, dove si scoprirà quel piacere perverso per il digiuno.

Bibliografia

Aristotele, Etica Nicomachea, Tea, 1992
Aristotele, Opere, 1986
Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, 2005
Lucrezio, De rerum natura, Garzanti, 2002
Petronio Arbitro, Satyricon, Rizzoli, 1995
Platone, Opere, Utet, 1988
Platone, Simposio, Marsilio, 2001
Rigotti Francesca, Piccola critica della ragion culinaria, Il Mulino, 2000
Storia della filosofia antica, Giovanni Reale, Vita e Pensiero, 1988
Tagliapietra A., La gola del filosofo. Il mangiare come metafora del pensare, 2005


Luca Bernardini, giornalista, lavora presso l’Ufficio Stampa Slow Food