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Cecco Angiolieri e la poesia comico-realistica toscana del XIII secolo

di Enea Baldi - 02/10/2007

 

 
Cecco Angiolieri e la poesia comico-realistica toscana del XIII secolo


La poesia comico-realistica è la parodia della poesia tragica stil novistica, dal contenuto narrativo e popolare. I suoi centri sono Siena e le città vicine. Riflette la vita materiale della borghesia, i suoi difetti, i suoi aspetti comici. I suoi predecessori sono la satira politica e il sonetto satirico, la poesia goliardica (il mondo alla rovescia) e la poesia giullaresca (i contrasti). I temi sono l'amore sensuale, i piaceri, il denaro, l'offesa personale. Si rovescia il linguaggio cortese, usandone alcuni termini in maniera satirica. Rustico Filippi è l'iniziatore di questo genere. Nato nel 1230 e morto nel 1300 è maestro nel vituperium, nel contrasto. Altri comici sono Cecco Angiolieri, Meo dei Tolomei, Bindo Bonichi, Folgore, Pietro dei Faitinelli, Cenne della Chitarra e Pieraccio Tealdi.
La poesia comico realistica non è presente solo in toscana ma ricopre tutto il territorio delle letterature romanze, dal francese Rustebeuf allo spagnolo Bernardo Ruiz, dai Carminia burlala ai Fabliaux, delle Fratasies, delle Cantigas d’escarnho et de maldizer… fino a certe punte della poesia provenzale.

Cecco Angiolieri nasce a Siena nel 1260.
Suo padre Angioliero – figlio a sua volta di quell’Angioliero detto Solàfica che fu banchiere di papa Gregorio IX - era una figura di spicco della politica economica di Siena. Sua madre, monna Lisa de’ Salimbeni invece, apparteneva ad una delle famiglie più importanti dell'aristocrazia senese.
Poco incline all’educazione rigida impostagli dai genitori, il giovane Angiolieri si manifesta fin da subito un ragazzo spensierato dissipatore e sregolato che ha come ideale di vita solo tre cose, le donne, le bettole e il gioco.
Questi primi tratti biografici sembrano adattarsi perfettamente all'immagine che il poeta ha lasciato di sé nei suoi componimenti, tanto che per lungo tempo la critica li ha interpretati come degli sfoghi autobiografici, immediati e spontanei. In realtà la produzione dello scrittore senese s'inserisce in una ben definita corrente letteraria, nota come poesia “comico-realistica”, che si proponeva di stravolgere, facendone la parodia, il linguaggio della poesia definita “stilnovista”. All'amore spirituale viene contrapposto l'amore sensuale, al motivo della lode quello dell'ingiuria, alla donna angelo la donna turpe, aggressiva, all’enfasi poetica delle virtù morali, l'elogio dei piaceri della vita, in particolare, appunto, la donna la taverna e il gioco.
Nei suoi componimenti l’Angiolieri non si distacca mai dal comico e crea veri personaggi, parla dei piaceri carnali e del gioco usando persino il vituperium con un linguaggio di certo non raffinato, però ricco e colto.
Il Boccaccio gli dedicò addirittura una novella del Decameron, prendendolo ad esemplare del gaudente e dello scapestrato; persino Dante lo ricorderà nella “Vita Nova” e nel “Convivio”.
A Cecco furono attribuiti 150 sonetti, ma pare che solo 112 siano sicuramente i suoi. Ebbe pochi amici e molti nemici, odiò tutto e tutti, l’unico grande, immenso amore fu Becchina, la figlia di un cuoiaio, alla quale l’Angiolieri dedicò ben 100 sonetti.
Nei sonetti a Becchina, Cecco smentisce con una sequela di versi aggressivi “il dolce stil novo”; non decanta la donna amata in modo platonico o in angelici voli, ma ne descrive la sensualità del corpo: “Oncia di carne, libra di malizia, perché dimostri quel che ‘n cor non hai?”
Nel 1281 Cecco prende parte con i guelfi all’assedio dei ghibellini asserragliati nel castello di Torri di Maremma, dove viene più volte multato per essersi allontanato dal campo senza permesso; la stessa cosa accade l’anno successivo e nel 1291 è implicato nel ferimento di tale Dino di Bernardo da Monteluco.
Nel 1288 si schiera con i fiorentini contro Arezzo e probabilmente qui conosce Dante Alighieri che sfida ad un duello di sonetti. Sono questi infatti, gli anni a cui risale la maggiore produzione poetica dello scrittore senese, perlomeno quella che è giunta fino a noi.
Uno dei sonetti che potrebbe testimoniare la conoscenza tra i due poeti, è il n° 109 "Lassar vo’ lo trovare de Becchina", inviato fra il 1289 e il 1294 da Cecco Angiolieri a Dante, nel quale si parla di un “vanesio e vile mariscalco”, tale Amerigo di Narbona, anch’egli fra i combattenti della guerra di Arezzo, sicuramente noto ad entrambi e da entrambi oggetto di scherno.
Nel sonetto n° 110 invece Cecco si rivolge a Dante con delle ironiche e compiaciute accuse di incoerenza nei confronti delle sue poesie. Il rapporto letterario tra i due poeti, già incrinato, si rompe definitivamente tra il 1303 e il 1304 ed è documentato nel sonetto n. 111:
"Dante Alighier, s’i’ so bon begolardo,
tu mi tien’ bene la lancia a le reni,
s’eo desno con altrui, e tu vi ceni;
s’eo mordo ’l grasso, tu ne sugi ’l lardo;

s’eo cimo ’l panno, e tu vi freghi ’l cardo:
s’eo so discorso, e tu poco raffreni;
s’eo gentileggio, e tu misser t’avveni;
s’eo so fatto romano, e tu lombardo.

Sì che, laudato Deo, rimproverare
poco pò l’uno l’altro di noi due:
sventura o poco senno cel fa fare.

E se di questo vòi dicere piùe,
Dante Alighier, i’ t’averò a stancare;
ch’eo so lo pungiglion, e tu se’ ’l bue.
Si tratta di una fine tessitura poetica, sarcastica e prorompente, diretta al “Padre della lingua italiana” nella quale al verso 8, "S'eo so' fatto romano, e tu lombardo", l'Angiolieri allude al primo esilio di Dante a Verona presso Bartolomeo della Scala ("e tu lombardo"), mentre Cecco era probabilmente in esilio a Roma, forse - ma questa notizia risulta poco attendibile - ospite del cardinale senese Riccardo Petroni. Purtroppo non ci sono giunti i sonetti che Dante probabilmente avrà scritto in risposta all'Angiolieri. Cecco si allontanò da Siena anche in un'altra occasione e probabilmente per ragioni politiche, poiché nell'intento di tornarci usa il termine "ribandito": "s'ì veggia 'n dì sia 'n Siena ribandito". Nel 1302 vendette ad un certo Neri Perini, una vigna per settecento lire: questo è l'ultimo documento nel quale il poeta è nominato ancora in vita, poiché in quello successivo, datato 25 febbraio 1313 (documento testamentario) risulta morto. I figli Meo, Deo, Angioliero, Sinione e Arbolina, rifiutano l'eredità perché gravata da enormi debiti. Dal documento si evince che l'Angiolieri dovesse essere morto poco prima.
L’analisi autobiografica dei componimenti poetici di Cecco Angiolieri, che per secoli ha offuscato il giudizio dei critici, sminuendo in qualche modo la sua figura, và interpretata come una lirica di puro gioco poetico, dai presupposti culturali ben definiti ricollegabili alle rime della goliardia medievale.
C’è dell’altro dietro i versi del sonetto che più lo ricorda: “S’i’ fosse foco arderei ‘l mondo”, non solo nella metrica strutturale dei versi (si tratta di un sonetto a rime incrociate nelle quartine e alternate nelle terzine); oltre l’odio per il padre, la madre le istituzioni, la chiesa, s’intravede una profonda e originale ispirazione, la malinconia scura e irata che accompagna le delusioni d’amore del poeta. In quasi tutti i sonetti di Cecco Angiolieri c’è una radice d’insoddisfazione e di irrequietezza, che a volte giunge fino alla malinconia e ad una visione tragica dei sentimenti e della realtà; ma la sua ispirazione appare costantemente circoscritta e condizionata dall’intenzione della caricatura e dell’adesione ad un linguaggio quotidiano.
A parte il canzoniere che ci ha lasciato, nulla di più si sa del poeta senese, che insieme a Dante e al Boccaccio contribuì a gettare le basi della lingua e della letteratura italiana.