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Mostri, fantasmi, vampiri nel mondo antico

di Francesco Lamendola - 24/11/2007

Vastissimo e quasi sterminato è l’argomento che ci accingiamo a trattare, poiché la bibliografia esistente in materia è straordinariamente ricca. Non solo scrittori e poeti greci e romani si sono ampiamente diffusi sui temi degli animali mostruosi, dei fantasmi, dei vampiri, dei lupi mannari, delle evocazioni diaboliche e perfino degli avvistamenti di “oggetti volanti non identificati”, ma di tali argomenti si sono occupati anche storici, filosofi, naturalisti, sicchè possediamo non solo delle fonti letterarie, ma anche del tipo che diremmo, con parola moderna, saggistiche. Se e in quale misura gli autori antichi credessero ai fatti che riferivano diligentemente, è cosa che meriterebbe una trattazione a parte, dovendosi vagliare, com’è evidente, caso per caso. Così pure, in questa sede non ci occuperemo di quanto tramandato nelle mitologie e nelle letterature della Mesopotamia, dell’Egitto, della Persia e, in genere, dell’antico Oriente (per non parlare dell’India o della Cina), poiché ciò comporterebbe un’estensione eccessiva dell’argomento. Da ultimo vogliamo precisare che tralasceremo l’enorme bagaglio della mitologia e della religione, limitandoci alla letteratura in senso stretto e, più particolarmente, alla saggistica. Ecco che abbiamo circoscritto  il campo della presente indagine: non tutta l’antichità, ma solo l’ambito greco-romano; non il mito, ma solo la realtà storica e letteraria; non il grado oggettivo di “verità” (cosa difficilissima da stabilire, in siffatte materie, anche per il presente) ma solo quello soggettivo. E se questa nostra scelta, si potrebbe obiettare, ci lascerà dubbiosi sulla consistenza reale dei fenomeni riportati, ci dirà tuttavia molte cose sulla cultura del mondo antico, che è quanto, in questa sede, ci interessa maggiormente. Quanto alla casistica prescelta, abbiamo deciso di scegliere, tra la massa copiosissima dei fatti attestati da fonti autorevoli, uno per ciascun settore della nostra indagine: uno, in particolare, per l’argomento “mostri”, uno per l’argomento “fantasmi” ed uno per i vampiri. (pur citandone, en passant, diversdi altri). Questo ci permetterà di soffermarci un po’  più a lungo sui singoli casi: invece di fare una carrellata numerosa ma priva di approfondimenti, parleremo di pochissimi casi scelti con cura e cercheremo di andare oltre la prima impressione superficiale.

Cominciamo dalle creature mostruose. Uno dei casi meglio documentati è quello del “serpente” (mettiamolo tra virgolette) del fiume Bagradha, in quella che i Romani chiamavano (dopo le guerre puniche e la distruzione di Cartagine, nel 146 a.C.), Africa Proconsularis, cioè l’odierrna Tunisia Confrontando i testi di Cesare, Livio e Plinio il Vecchio sappiamo che questo corso d’acqua va identificato con l’attuale Megerda  o Medjerda, che sfocia nella baia di Cartagine. (1) L’episodio di cui ci occupiamo si colloca nel 256 o 255 a. C., quando, nella fase iniziale della Prima guerra punica, i consoli M. Attilio Regolo e L. Manlio Vulsone, sconfitta una flotta cartaginese al Capo Ecnomo, erano sbarcati in Africa con un esercito e avevano marciato audacemente contro la capitale nemica. Richiamato Vulsone in Sicilia per ordine del Senato, Regolo con 40 navi e 15:000 uomini aveva proseguito da solo le operazioni, battendo i Cartaginesi e inducendoli a chiedere la pace.(2) Questa non venne conclusa perché il comandante romano, imbaldanzito dai successi, volle porre condizioni eccessivamente dure: le vicende belliche subirono poi un capovolgimento e l’esercito romano andò incontro a un tragico destino. Ma questo esula dal nostro orizzonte: noi faremo un passo indietro e torneremo all’inverno 256-55, quando i legionari, sbarcati a Clypea (o Clupea), a est di Cartagine, erano impegnati nelle operazioni d’assedio della capitale punica. Racconta dunque Valerio Massimo che “in Africa, apud Bagrada flumen, tantae magnitudinis anguem fuisse tradunt, ut Atilii Reguli exercitum usu prohibèret”. Il passo completo è tratto da un libro perduto di Tito Livio (3) e recita così: “In Africa, sulle rive del fiume Bagrada, v’era un serpente d’una tale mole che impediva all’esercito di Attilio Regolo dei servirsi di quell’acqua; molti soldati erano stati presi dalle sue enormi fauci e in maggior numero strozzati dalle spire della sua coda. Le frecce che gli lanciavano non riuscivano a ferirlo. Alla fine con le balestre lo si finì facendo piovere sul suo corpo da ogni parte gran quantità di pesanti pietre: A tutte le coorti e le legioni era apparso oggetto di terrore assai più della stessa Cartagine e quando il suo sangue si mescolò all’acqua  del fiume e le esalazioni pestifere del suo cadavere infestarono tutta la regione, l’esercito fu costretto a spostare il campo.  Aggiunge Tito Livio che la pelle del serpente, che misurava centoventi piedi, fu mandata a Roma.” (4)

          Questo incontro fra gli esseri umani e una creatura animale mostruosa è uno dei meglio documentati dell’antichità, per cui ci soffermeremo un po’ su di esso. Ne parlano, infatti, moltissimi autori latini. Aulo Gellio, l’autore delle celeberrime Notti attiche, da parte sua, nel riferirlo dice di averlo trovato  nelle Storie di Quinto Elio Tuberone: “Tuberone lasciò scritto (…) che averndo il console Attilio Regolo, durante la prima guerra punica, posto i propri accampamenti sulle rive del fiume Bagrada, dovette ingaggiare un combattimento lungo e  aspro contro un serpente di inusitata grandezza, il quale aveva  la propria dimora in quei luoghi; dopo una lunga lotta di tutto l’esercito per mezzo di balestre e catapulte, avendolo ucciso,  ne madò a Roma la pelle lunga 120 piedi.”(5) Ora, poiché noi sappiamo che un piede romano era una misura di lunghezza equivalente a circa 30   cm:, se ne ricava che la pelle del “serpente” ucciso dai legionari di Regolo doveva misurare 120x30=3.600 cm., ossia 36 metri!

          Prima di domandarci a che razza di creatura dovesse appartenere una pelle di tali dimesioni, diamo la parola a quello, fra gli autori antichi, che si diffonde con la maggiore abbondanza di particolari su questo episodio, cioè lo spagnolo Paolo Orosio (inizi del V sec. d..), amico e collaboratore di Sant’Agostino. Nelle sue Storie contro i pgagani (Orosii historiarum adversus paganos libri septem), egli scrive: “Il console Manlio lasciò l’Africa con la flotta vittoriosa e fece ritorno a Roma con ventisettemila prigionieri e grandi prede. Regolo, al quale era stato conferito l’incarico di continuare la guerra, marciò con l’esercito e pose il campo non lontano dal fiume Bagrada. Qui molti soldati, che erano scesi al fiume per rifornirsi d’acqua, furono divorati da un serpente di eccezionale grandezza: perciò Regolo decise di andare con l’esercito a combattere la bestia. Ma a nulla servirono i giavellotti e ogni sorta di proiettili che gli scagliavano addosso, giacchè, come se avessero colpito una “testuggine” formata dagli scudi inclinati, i giavellotti scivolavano sulla mostruosa compagine delle squame, respinti in modo sorprendente dal corppo della bestia, che non riuscivano minimamente ad offendere. Perciò Regolo, vedendo che un gran numero dei suoi soldati era dilaniato dai morsi del serpente o atterrato dai suoi attacchi furibondi o anche tramortito dall’alito pestilenziale, fece entrare in azione le balliste, le quali, colpendo con sassi grossi come macine la spina dorsale della bestia, spezzarono tutta l’articolazione del suo corpo. Questa infatti è la natura del serpente, che mentre sembra privo di piedi, è però provvisto di squame e di costole, che sono disposte uniformemente dalla sommità del collo fino in fondo al ventre e che, quando  si muove, gli servono le prime quasi da unghie e le seconde da zampe. (…) Questa conformazione fa sì che in qualunque parte del corpo, dal ventre fino alla testa, il serpente sia colpito, rimane paralizzato e non è più capace di muoversi, giacchè, dovunque il colpo arrivi, esso gli spezza la spina dorsale, che imprime il movimento alle costole e a tutto il corpo. Perciò anche questo serpente, che per tanto tempo nessun giavellotto aveva potuto scalfire, fu immobilizzato dal colpo di un sasso, di modo che i romani poterono attorniarlo e ucciderlo facilmente con le armi. La sua pelle – a quanto si dice, misurava centoventi piedi – fu portata a Roma e per qualche tempo suscitò la meraviglia di tutti.”(6)

          Prima di Orosio e prima di Aulo Gellio, ma un po’ dopo Valerio Massimo (che dedica la sua opera all’imperatore Tiberio), il filosofo Lucio Anneo Seneca aveva anch’egli ricordato il mostro del fiume Bagrada. “Quel feroce serpente dell’Africa – scrive – che le legioni romane temevano più della stessa guerra, fu preso invano di mira con frecce e con frombole. Non l’avrebbe ferito neppure l’arco di Apollo. La durezza del suo corpo mostruoso non era scalfita né dal ferro né  da qualunque proiettile scagliato da mano d’uomo. Alla fine fu schiacciato sotto pesanti macigni”. (7)

          E’ giunto il momento di chiederci che tipo di animale fosse il mostro del fiume Bagrada. La grande maggioranza degli studiosi moderni, sulle orme del Gassner, propendono a ritenere che si trattasse di un coccodrillo. Per esempio, Benedetto Riposati e Isa Morini scrivono in proposito che “troppe sono le cose che non conosciamo, perché una sola vita basti ad apprenderle tutte (nec scire fas est omnia); sempre rimane qualcosa da scoprire, che desta stupore e meraviglia. E ai Romani non poche occasioni di meraviglia offrì il mondo sconfinato, aperto alle loro conquiste. Così sa di stupore il loro primo incontro col coccodrillo in Africa, al tempo della prima guerra punica. Quelli che al comando del console Marco Attilio Regolo avevano preso parte alla spedizione contro i Cartaginesi, quando fecero ritorno in Roma, tra le tante cose che raccontarono ai piccoli figli intenti ed alle donne ansiose, dissero anche che in Africa, presso il fiume Bagrada, che sbocca in mare tra Cartagine e Utica, c’era un rettile di tale grandezza che aveva impedito all’esercito di Attilio Regolo di servirsi del fiume.” (8) Ora, questa identificazione si potrebbe mettere in discussione da un duplice punto di vista: etimologico e naturalistico. Etimologico, perché Valerio Massimo e gli altri autori citati parlano di anguis, -is, che generalmente si traduce con “serpente” sulla scorta di autori classici come Cicerone ed Ovidio, ma che, ad esempio, indica pure (sia in Virgilio che in Ovidio) la costellazione del Dragone, dunque un animale ben diverso dal serpente; mentre in Vitruvio e Manilio indica pure la costellazione dell’Idra (9). Viceversa, per designare il coccodrillo i Romani adoperavano il termine, ben più preciso, di crocodilus, -i: lo usano Cicerone, Seneca e Plinio il Vecchio; mentre Fedro e Marziale si servono della variante corcodilus,-i; e Quintiliano usa l’espressione crocodilinae ambiguitates per designare “i sofismi del coccodrillo”, ovvero un argomento palesemente capzioso. (10) A sua volta, crocodilus è un grecismo e viene da Krokodeilos, a riprova del fatto che non solo i Romani, ma prima di loro anche i Greci conoscevano benissimo il coccodrillo e non si capisce, quindi, perché avrebbero dovuto chiamarlo “serpente”, quasi che non avessero il termine necessario a identificarlo.(11)  Si potrebbero avanzare riserve, poi, anche da un punto di vista più propriamente naturalistico, perché  Orosio, come si è visto, dice chiaramente che l’animale in questione si muoveva strisciando sul corpo privo di zampe e dunque era di certo più simile a un serpente che a un rettile di tipo sauriano. In Africa vivono due specie  di coccodrilli: il coccodrillo del Nilo (Crocodylus niloticus) e il coccodrillo catafratto (Crocodylus  cataphractus) Il primo è diffuso in quasi tutto il continente, dalle  acque delle oasi del Sahara meridionale fino al lago Ngami, a nord del Kalahari, attraverso tutti i territori tropicali; è lungo in media 380-550 cm e popola sia le acque profonde che quelle poco profonde, sia le correnti che le stagnanti. Il secondo vive nei fiumi dell’Africa occidentale e sudorientale, inoltrandosi alquanto nelle lagune delle foci; è più piccolo (da 190 a 380 cm.) e, a differenza dell’altro, attacca l’uomo solo eccezionalmente.(12) Se la creatura del Bagrada era un coccodrillo, certamente apparteneva alla specie nilotica, dunque era ben conosciuto già dagli antichi Egizi e pare assai strano che i Romani lo chiamassero “serpente”. Ancora verso il 1960 è stato scoperto un esemplare di coccodrillo, vivente, in una pozza dell’Ahaggar (13), ultimo superstite di un tempo non lontano in cui tutto il.Sahara  era verdeggiante di vegetazione e popolato d’innumerevoli specie animali, come testimoniano le numerose, bellissime raffigurazioni rupestri, sia ad affresco che graffite: (14) Non è quindi una impossibilità dal punto di vista della zoogeografia o geografia degli animali, quantunque il Bagrada scorra molto a nord, a pochi km. dal Mediterraneo, dove gli inverni sono più freschi e le escursioni stagionali abbastanza marcate;  ma – scrivono Pasquini e Ghigi – “durante la stagione asciutta o nelle località più nordiche della loro area di distribuzione, i coccodrilli si affondano nel fango e passano qualche tempo in ibernazione. Si raccontano diversi  casi in cui uomini dormienti in capanne improvvisate sulla sponda dei laghi, che sono stati svegliati da movimenti del suolo sotto il loro giaciglio, si sono veduti sbucare un coccodrillo destatosi allora dal riposo.”(15) Il problema non è geografico, ma naturalistico. Oltre al fatto che è ben difficile, per non dire impossibile, non notare gli arti del coccodrillo, tanto più se di grandi dimensioni; oltre alla difficoltà di scuoiarlo, visto che nemmeno le frecce e i giavellotti avevano potuto alcunchè contro il suo dorso squamoso: è possibile che un intero accampamento di legionari, forse un intero esercito siano stati tenuti lungamente in scacco da un unico esemplare di coccodrillo? E che, per averne ragione, il console in persona abbia fatto mettere in posizione e adoperato balliste e catapulte, come per colpire le mura di una città assediata? Sarebbe un rendere scarsa giustizia a quei professionisti della guerra che erano i Romani, uomini che non si spaventavano facilmente neppure davanti agli elefanti da guerra lanciati a tutta carica contro di loro. Viene da pensare che gli studiosi moderni abbiano liquidato il mistero, cioè la loro ignoranza, ricorrendo al solo animale oggi noto che, abitando in quelle regioni, avrebbe potuto essere il mostro del Bagrada: tipico modo di procedere di quello che il filosofo Thomas Kuhn chiama il “paradigma scientifico”. Piuttosto che revocare in dubbio le certezze acquisite, di solito gli studiosi preferiscono, di fronte a un problema, adottare la “soluzione” che permette di conservare inalterato l’intero paradigma. Cos’è, in questo caso specifico, l’elemento “disturbante”, quello che mette in crisi il paradigma scientifico? Ammettere che nessuna specie di rettile a noi nota soddisfa pienamente i requisiti del racconto tramandatoci da parecchi autori classici, tra i quali un filosofo come Seneca e uno scienziato come Plinio il Vecchio: gente, insomma, non usa a prestar fede a qualunque chiacchiera.

          Eppure, a ben guardare, dov’è lo scandalo? Le specie vegetali oggi individuate e classificate sono circa 320.000; quelle animali superano il milione: ma è noto che ve n’è un numero enorme ancora da “scoprire”, sia delle prime che delle seconde. E continuamente ne vengono scoperte di nuove. Il pubblico, in genere, pensa che si tratti per forza di specie viventi molto piccole; invece non è così. Per citare solo alcuni casi, ricordiamo che l’okapi, una giraffa altrimenti sconosciuta, fu visto la prima volta solo nel 1888 e catturato nel 1907; che il pauroso varano di Komodo, lungo anche 3 metri, “l’animale che per forma, dimensioni e caratteristiche di predatore assomiglia di più ai draghi delle nostre fiabe” (16), venne scoperto solo nel 1912; e che il celacanto, un pesce che si credeva estinto da 60 milioni di anni, venne pescato, vivo, nelle acque del Sud Africa, nel 1938, e poi ancora parecchie altre volte, sino ad oggi (17); e si potrebbe continuare. E che dire di un intero gruppo umano, i Tasaday dell’isola di Mindanao, nelle Filippine, che furono letteralmente scoperti solo nel 1975, e  che conducevano una vita analoga a quella dell’uomo delle caverne? (18) Tutto questo dimostra che un rettile sconosciuto e di notevolissime dimensioni, può (si badi, può) essere sopravvissuto alle antichissime ére geologiche presso un fiume dell’Africa settentrionale e aver gettato lo scompiglio nell’esercito romano di Attilio Regolo. Animali enormi come il Megatherium del Sud America o il Moa gigante della Nuova Zelanda erano ancora largamente diffusi quando comparve l’uomo e, anzi, pare ormai certo che proprio quest’ultimo sia stato la causa della loro rapida estinzione. Il cervo di padre David, in Cina, fu creduto estinto fino al 1865, quando venne riscoperto dal missionario francese di cui porta il nome; mentre il cavallo di Przevalskij, ossia il cavallo selvatico della Mongolia, fu scoperto solo nel 1881 ma oggi, purtroppo, è ritenuto estinto. In anni recenti una spedizione scientifica giapponese si è recata nell’Isola del Sud della Nuova Zelanda con la speranza di riscoprire il Moa gigante, e una spedizione americana si è inoltrata nelle paludi dell’Africa centrale alla ricerca del favoloso Mokele-Mbembe, un autentico dinosauro di cui sono giunte segnalazioni, ad intermittenza, dai primi del 1900 sino ad oggi. (18) Non è questa la sede per aprire un discorso sulla criptozoologia, la scienza che si occupa degli animali “misteriosi” che dovrebbero essere estinti (come il celacanto!) e invece sono, forse, vivi e vegeti, in attesa di essere riscoperti, e di quelli che né la zoologia attuale, né la paleontologia, conoscono, almeo ufficialmente, ma che hanno la discutibile abitudine di lasciare tracce, qua e là, della loro esistenza. Tanto per citare un modesto episodio, potremmo ricordare che nel 1934, in varie località delle Alpi svizzere ed austriache, venne segnalato uno stranissimo animale, il Tatzelwurm, sorta di “verme con le zampe”; mentre nell’estate del 1963, ai piedi dell’Altopiano del Cansiglio, presso Sarone, testimoni oculari videro –e ne parlò diffusamente anche la stampa – un enorme serpente, lungo quattro metri, che aveva la sua tana fra le rocce e che si faceva precedere da un rettile di dimensioni “normali”. (19) Secondo la scienza “ufficiale”, un serpente di tali dimensioni, nella regione pedemontana posta al confine tra Veneto e Friuli, non dovrebbe assolutamente poter esistere: solo nei paesi tropicali vivono serpenti del genere. Eppure è stato visto da numerose persone, una delle quali  ha perfino cercato di colpirlo  con un bastone, prima di darsi alla fuga. E allora? Vogliamo dare torto ai fatti, per amore delle teorie? La criptozoologia è una scienza “seria”, poiché vi si dedicano scienziati universalmente stimati come Bernard  Heuvelmans (20); tuttavia ci fermiamo qui, per non allontanarci troppo dal nostro argomento. Ci basta avere insinuato il dubbio che, forse, molte cose restano ancora da scoprire, molte altre da capire nelle scienze della natura, e senza bisogno di  proiettarci verso gli spazi cosmici: la piccola, vecchia Terra è ancora abbastanza grande e abbastanza giovane da poterci riservare non poche sorprese, a dispetto del nostro bisogno di elaborare un sapere sistematico e onnicomprensivo, che tutto crede di aver spiegato e non ammette deroghe al proprio paradigma.

          Per quanto riguarda il mostro del Bagrada, ci limiteremo a fare due ultime, veloci osservazioni. La prima è che  nella leggenda medioevale di San Giorgio e il drago, ambientata, forse per pura coincidenza, nell’Africa settentrionale, sembra sopravvivere un’eco dei racconti paurosi di Tito Livio, di Aulo Gellio e di tutti gli autori latini sopra menzionati. Scrive infatti Jacopo da Varagine (1228-98), il celebre domenicano autore della Leggenda Aurea: “San Giorgio, originario della Cappadocia e tribuno nell’armata romana, giunse una volta alla città di Silene [storpiatura di Cirene? ], in Libia. Vicino a questa città vi era uno stagno grande come il mare in cui si nascondeva un orribile drago che più volte aveva messo in fuga il popolo intero armato contro di lui; quando poi si avvicinava alle mura della città, uccideva col fiato tutti quelli in cui si imbatteva…” (21) A noi basta far notare che non solo l’ambientazione geografica, ma molti particolari del racconto sembrano ricalcare in maniera consapevole la tradizione del mostro del Bagrada, tanto che questo pare un’eco – per dirla con termine tecnico: un topos formulare – di quella.

          La seconda e ultima osservazione che vogliamo fare è che esiste, sempre in ambito mediterraneo, una seconda tradizione che pare ricollegarsi, magari in forma sotterranea, col mostro del Bagrada, e cioè quella raccolta dallo scrittore Daniello Bartoli (1608-85), gesuita còlto e celebratissimo (Leopardi lo giudicherà uno dei più grandi prosatori della letteratura italiana di ogni tempo) nella sua opera L’uomo al punto.”Assai delle volte – egli scrive – avrete udito mentovare il famoso dragone  apparito nelle campagne di Rodi mentre quell’isola si teneva da’ cavalieri ora di Malta, e la spaventosa bestia ch’egli era. D’un informe corpaccio, grande quanto un mediocre cavallo; l’orribil capo tutto cosa di drago; bocca grande  e squarciata, denti acutissimi, occhi focosi e sanguigni, due grandi orecchie spenzolate, e un fiato di mortalissimo veleno. Del corpo, il dosso bigio; e ne spuntavan due ali carnose  e unghiute, che dibatteva  e  svolazzava per ispavento, non perché punto il levasser da terra. Tutto era macchiato di rotelle, verdi, nere, sanguigne, fosche.: segni e fior di veleno. Armato poi d’un cuoio a modo di corazza, impenetrabile ad ogni arme, perocchè tutto era un commesso di piastrelli e di scaglie di durissima tempera; fuor solamente il gran ventre, livido e gialliccio. Andava su quattro piedi [ questo sì, dunque, poteva essere un coccodrillo, o comunque un animale di tipo sauriano ], e le due branche aveva  armate di terribili unghie. Dietro si traeva una lunghissima coda, che non gli era punto oziosa, o inutile al danneggiare; chè d’essa, come d’una serpe, valevasi ad avvinghiare e stringere con più giri e volute.; oltre alle forti percosse, con che atterrava chi d’alcuna incogliesse. Solitudine e desolazione  era tutto il paese a grande spazio intorno al colle di Santo Stefano, alle cui falde egli abitava dentro una palude, ivi medesimo ove era nato, d’un marciume d’acqua scolatavi e imputridita: e in  mostrarsi colà intorno uomo o animale, il dragone assassino gli era sopra a sbranarlo, e pascersi delle sue carni…” (22) Ancora una volta il rettile feroce e apparentemente invincibile, simile al Leviatano dell’Antico Testamento (23); ancora una volta il fiato pestilenziale; ancora una volta l’ambiente acquatico, in questo caso una palude. Coincidenze anche queste? Può darsi: non lo sappiamo; prendiamo nota e passiamo oltre.

          Ed eccoci giunti a parlare del secondo argomento che ci eravamo prefissi: i fantasmi nel mondo antico. Anche qui ci troviamo di fronte a una mole vastissima di fatti, sia per quanto riguarda la tradizione letteraria strictu sensu, sia per quanto riguarda la memorialistica e, in genere, la produzione di tipo saggistico. Chi non conosce la storia del fantasma apparso a Marco Bruto mentre questi si accingeva a trasportare, con Cassio, l’esercito in Europa dall’Asia Minore, per affrontare Antonio e Ottaviano nello scontro decisivo. Narra Plutarco: “…la notte era molto avanzata. Nella tenda ardeva un lume assai fioco; intorno, l’accampamento giaceva avvolto nel silenzio. Bruto stava indagando e discutendo tra sé qualcosa, allorchè gli parve di udire una persona che entrava nella tenda. Alza lo sguardo in direzione dell’ingresso e vede eretta davanti a sé, muta, un’apparizione terribile e strana, un corpo mostruoso e terribile. Ebbe tuttavia il coraggio di chiedergli chi fosse, se fosse un uomo o un dio, e per quale motivo veniva a  trovarlo. Io sono il tuo cattivo Genio, o Bruto - gli rispose il fantasma. – Mi vedrai a Filippi. (24) In Omero, il fantasma di Patroclo appare ad Achille, prima della cerimonia funebre (25); in Virgilio, il fantasma di Ettore appare a Enea nell’ultima notte di Troia e, poco più tardi, a quest’ultimo si manifesta anche il fantasma della dolce sposa Creusa, la cui morte egli perfino ignorava (26).Inoltre Platone nella Repubblica descrive come il soldato Er ritorni in vita quando già è stato messo sulla pira funebre (27), ma questo episodio, come del resto quello della maga tèssala Erichto che ridà voce, con orribili riti, a un cadavere e narrata da Lucano (28)  richiama piuttosto la maga di En-Dor che evoca lo spirito di Samuele (29) e rientra, piuttosto, nella fenomenologia delle evocazioni necromantiche. Invece sempre Lucano descrive una tipica apparizione di fantasmi, quando narra dell’ombra di Giulia, prima moglie di Pompeo, che si manifesta all’ex marito e gli profetizza un infausto avvenire. (30)

          Tutte queste, comunque, sono fonti puramente letterarie e, se denotano una diffusa credenza popolare nelle apparizioni dei fantasmi, certamente non aggiungono nulla in fatto di testimonianze dirette e  attendibili. Invece l’episodio narrato da Plinio il Giovane, e che qui di seguito riportiamo integralmente, travalica l’interesse folcloristico e letterario e sembra avere le apparenze di una pagina di vita vissuta, di un’esperienza reale: “V’era ad Atene una casa ampia e comoda, ma malfamata e maledetta. Nel mezzo del silenzio della notte si udiva un suon di ferraglia e, se ascoltavi più attentamente, uno strepito di catene, da lontano prima, poi più da presso; indi appariva uno spettro, un vecchio estenuato dalla magrezza e dallo squallore, con una lunga barba, i capelli irti; recava i ceppi ai piedi e le catene alle mani e le scuoteva. Perciò gli abitanti della casa trascorrevano vegliando per la paura delle notti sinistre e spaventose; quelle veglie finivano per produrre una malattia e, con il crescere del male, la morte. Giacchè anche di giorno, pur essendo il fantasma scomparso, rimaneva il ricordo di quell’apparizione, sì che il timore durava più a lungo di ciò che l’aveva cagionato. Perciò la casa fu disertata, condannata all’abbandono e lasciata tutta in balìa di quel mostro; v’era però appeso un cartello, per il caso che qualcuno, ignorando così gran guaio, volesse acquistarla o affittarla.”

          Continua il racconto Plinio all’amico Licinio Sura, nella lettera a lui indirizzata: “Capitò ad Atene il filosofo Atenodoro, lesse il cartello, seppe il prezzo, e messo in sospetto dalla modicità, si informò, venne a conoscenza di tutto e nonostante ciò, anzi a  cagione di ciò, prese in affitto la casa. Quando  cominciò ad annottare, ordinò che gli preparassero un letto [da lavoro, n.b. ] nella parte anteriore dell’edificio, chiese delle tavolette, uno stilo, un lume; mandò tutti i suoi nelle stanze interne ed egli invece si assorbì – la mente, gli occhi, la mano – nello scrivere, onde evitare che la mente rimasta inoperosa desse corpo alle storie di spettri e a vani timori. Dapprima, come ovunque, il silenzio della notte, poi cominciò un agitarsi di ferri, un muover di catene: quello non alza gli occhi, non ripone lo stilo, ma sta saldo e non bada alle proprie orecchie, cresce lo strepito, continua ad  avvicinarsi, e già sembra di udirlo sulla soglia, già oltre la soglia.Si volta, e vede e riconosce la figura di cui gli avevano parlato. Stava ritta e faceva segno con il dito, come a invitare qualcuno; ma il filosofo le fa cenno con la mano, come per dirle di attendere un poco, e si rimette alle tavolette e allo stilo. Essa agitava le catene sopra il capo di lui che scriveva; si volta di nuovo, vede che gli fa cenno come prima; senza esitare, prende il lume e la segue. Essa avanzava con lento passo, quasi la gravassero le catene; dopo essere svoltata nel cortile della casa, improvvisamente svanisce, abbandonando chi la segue. Una volta rimasto solo, Atenodoro contrassegna il posto con delle erbe e delle foglie spiccate. Il giorno dopo va dai magistrati, e chiede loro che ordinino di far scavare in quel posto. Vi trovano, frammiste e avvolte dalle catene, delle ossa che il cadavere putrefatto dall’azione del tempo e del terreno aveva lasciate scarnificate e scavate dalle catene; raccolte, vengono sepolte a spese della città. La casa non fu più visitata dai Mani, sepolti secondo i riti.”(31)

        Questo il racconto di Plinio. Ora, per inquadrarlo correttamente nella giusta prospettiva, occorre tener presenti alcuni fatti. Primo, il destinatario della lettera, Licinio Sura, era non soltanto un personaggio politico e militare di primo piano ai tempi di Nerva e Traiano, ma anche persona nota per la profonda cultura conseguita con lo studio e per aver lungamente soggiornato in terre straniere. A lui Plinio si era già rivolto, come esperto di questioni scientifiche, a proposito della spiegazione di un fenomeno naturale. (32) Ora ricorre all’amico per interrogarlo circa un fenomeno di tipo soprannaturale e non per fare un semplice pettegolezzo. Secondo, nella stessa lettera  Plinio cita altri casi di apparizioni di spectra (singolare, spectrum ): quello, assai noto, di Curzio Rufo, riportato anche  da Tacito (33), ed un altro capitato ad un suo liberto, nella sua stessa casa. Il tono serio con cui egli tratta l’argomento è sottolineato dalle seguenti parole: “Certo io credo a chi mi afferma tali cose; ma anch’io posso affermarne qualcosa agli altri.” Terzo, il dibattito sui fantasmi esisteva da temppo ed era vivace nella cultura romana: se ne era occupato anche Cicerone, sia in un’opera pubblica che nella corrispondenza privata, mostrando peraltro completo scetticismo al riguardo. (34) Quarto, Atenodoro è certamente un personaggio storico; solo che abbiamo qualche incertezza ad identificarlo con sicurezza, perché sappiamo di due Atenodoro, entrambi filosofi e seguaci della stessa dottrina – lo stoicismo -, ed entrambi originari di Tarso, in Cilicia (la patria di san Paolo) o delle immediate vicinanze. Vissero l’uno al tempo di Catone, l’altro di Augusto: Luigi Rusca inclina a propendere per quest’ultimo. (35) Di lui si racconta che, essendo precettore dell’imperatore, lo consigliasse – quando era sul punto di lasciarsi travolgere dall’ira – di recitare tutte le lettere dell’alfabeto, per avere il tempo di calmarsi e riacquistare l’autocontrollo (non sarà stato un metodo geniale, e tuttavia ispirato a un elementare buon senso non privo di efficacia). Quinto, il fatto di cui parla Plinio, e su cui chiede un parere “scientifico”, era noto, alcuni decenni dopo, anche allo scrittore e sofista greco Luciano di Samosata (Plinio visse tra il 61 o 62 e il 112 o 113; Luciano tra il 120 circa e oltre il 180 d.C.), che però lo riferisce non ad Artemidoro ma a un altro filosofo, Arignoto pitagorico, e lo ambienta non ad Atene, ma a Corinto. (36) Naturalmente Luciano, com’è nel suo stile e nella sua visione del mondo, si fa beffe del soprannaturale e colloca l’intero episodio all’interno di un dialogo ironico e dissacrante. Da ciò, tuttavia – e qui dissentiamo dal Rusca – non ne consegue automaticamente la credulità di Plinio, quasi che lo scrittore latino avesse abboccato in pieno a uno dei tanti racconti popolari semiseri, che oggi si chiamerebbero leggende metropolitane. A noi sembra più probabile che Luciano, spirito impertinente e scanzonato quant’altri mai, abbia “rispolverato” il racconto di Plinio e ne abbia fatto per così dire il canovaccio di un suo dialogo scherzoso. Il testo di Luciano, insomma, essendo assai posteriore a quello del romano, non dimostra affatto che entrambi derivassero da un archetipo comune più o meno stilizzato, più o meno verosimile, ma può suggerire altrettanto bene (e forse più) che il più antico sia stato la fonte del più recente. (37)

          Che dire sulla natura specifica del fatto riportato da Plinio? Esiste una letteratura sterminata su tali questioni, e non è certo il caso di ricorrervi in questa sede. Da anni la parapsicologia si occupa delle apparizioni dei defunti, considerandole eminentemente da un punto di vista psichico. Qui ci limiteremo ad osservare che lo spettro apparso ad Artemidoro non si è limitato a mostrarsi, produrre dei suoni oggettivamente percepibili (perché uditi da diversi testimoni e in differenti circostanze) e muoversi attraverso la casa. Esso ha mostrato di avere una missione da adempiere, o meglio, una richiesta da fare ai viventi: ottenuto quanto desiderava, è scomparso. Ora, sappiamo bene che la mancata sepoltura costituiva, nel mondo greco e romano, la massima sciagura per l’anima di un defunto: si confronti, al riguardo, il notissimo episodio di Palinuro che implora da Enea, nell’Averno, affinchè. il suo corpo riceva degna sepoltura, pena dover continuare ad errare sulla riva dell’Acheronte, senza pace e senza speranza. (38) D’altra parte, esiste una ricca casistica, nella letteratura specialistica odierna, di apparizioni di defunti che in qualche modo interagiscono con i viventi, o per chiedere o per informare o per proteggere o per predire il futuro. (39) Anche nel Medio Evo tali fatti erano attestati: uno, pure famosissimo, riguarda il ritrovamento dei canti finali del Paradiso dantesco, che rischiavano di andare smarriti per sempre dopo la morte dell’autore. Fu il sommo poeta, o meglio il suo fantasma, ad apparire in sogno al figlio Jacopo e a mostrargli il luogo ov’erano riposti: cosa che fu riscontrata esatta. (40) Ma ciascuno è libero, ovviamente, di trarre le conclusioni che crede da episodi del genere, attestati ininterrottamente dall’antichità fino ai giorni nostri.

          Siamo così giunti al terzo ordine di fenomeni di cui avevamo deciso di occuparci in questa sede: i più controversi e, se si vuole, anche i più raccapriccianti: la credenza che i morti ritornino dal loro regno per far del male ai viventi, per nuocere loro non solo spiritualmente, ma anche fisicamente; in particolare, per strappar loro l’elemento che è il simbolo stesso della vita: il sangue. Che i morti siano assetati di sangue è credenza antichissima nelle civiltà mediterranee. Omero ci descrive, in una pagina impressionante dell’Odissea, il sinistro richiamo esercitato dal sangue sulle ombre dei morti:

 

                       “Poi che con voti e con suppliche ebbi pregato le turbe

                        dei morti, afferrate le bestie, lì le sgozzai

                         sopra la fossa: fumido il bruno sangue scorreva;

                         esse accorrevano a frotte dall’Erebo l’ombre dei morti.

                         Giovani donne, ragazzi, vecchi  che molto soffrirono,

                         e tenere fanciulle con l’animo nuovo al dolore;

                         molti poi da lance di bronzea punta trafitti,

                         uomini uccisi in battaglia con l’armi ancor lorde di sangue:

                         alla fossa accorrevano a frotte da tutte le parti

                         con alte grida: e io fui preso da pallido orrore.”(41)

 

           Esistono molti testi sul vampirismo, antico e moderno, che trattano l’argomento in termini generali; tra la massa sterminata di essi ne ricordiamo almeno uno, italiano, che è un classico nel suo genere: La stirpe di Dracula del noto studioso Massimo Introvigne. (42) Per quanto riguarda la nostra indagine, notiamo che il concetto di vampiro, in senso stretto, si afferma nell’Europa del Settecento dopo i casi segnalati in alcuni villaggi ungheresi, in Moravia e in Serbia, fra il 1693 e il 1725: fatti attestati anche da testimoni qualificati, come medici militari; e particolarmente raccapriccianti (morti sospette e apparentemente inspiegabili; apparizioni di defunti; cadaveri riesumati e trovati ben conservati in modo anormale, con la bocca piena di sangue; trafittura degli stessi con appositi paletti). Esso si afferma definitivamente presso il vasto pubblico con la pubblicazione del romanzo Dracula, il vampiro dello scrittore irlandese Bram Stoker (1847-1912), nel 1897, che ebbe un successo durevole e impressionante. Ma per gli antichi il concetto di “vampiro” era più ampio e sfumato. I Greci, ad esempio, con il termine èmpusa indicavano una sorta di spettro, generalmente di sesso femminile, che circuiva i viventi per poi divorarli: non era quindi un morto che si ridesta, ma un fantasma in grado di esercitare le funzioni di un vivo allo scopo di uccidere le sue vittime. I latini, come Orazio e Apuleio, preferiscono il termine lamia, -ae, che però indica anche una strega particolarmente malvagia e potente: risulta difficile, comunque, separare i due significati. (43)

          Ed eccoci al racconto di Filostrato, così come viene narrato nel quarto libro della Vita di Apollonio di Tiana:

         “Tra i discepoli di Demetrio di Corinto v’era Menippo di Licia, giovine di venticinque anni,     eletto di spirito e bellissimo di forme, simile a un atleta per bellezza e portamento. Si credeva che Menippo fosse amato da una donna straniera,e questa donna era detta bellissima e stravagante, oltre che molto ricca: ma non era nessuna di queste cose, se non pura apparenza.

           “Un giorno che Menippo camminava da solo lungo la strada che reca a Cenchrae, un fantasma d’aspetto femminile gli era apparso, gli aveva stretto la mano e gli aveva detto d’amarlo da molto tempo. Aveva aggiunto d’essere fenicia, e di vivere in un sobborgo di Corinto. Dicendogli il nome del sobborgo, aveva aggiunto: Vieni a trovarmi questo pomeriggio e mi ascolterai cantare.Ti offrirò da bere un vino quale non hai mai gustato. Non avrai rivali sulla tua strada, e vivremo insieme felici: io che sono bella, e tu che lo sei quanto me. Il giovane si lasciò lusingare da queste parole perchè, pur avendo abbracciato la filosofia, purtuttavia era dominato da Eros.

            “Andò quel pomeriggio alla casa indicata, e per molto tempo frequentò la donna come amante, senza mai dubitare che non donna fosse, ma uno spirito immondo. Un giorno, Apollonio prese a scrutare Menippo misurandolo con lo sguardo come fa uno scultore, e dopo averlo studiato a lungo, gli disse:Sai tu, che sei bello e desiderato dalle donne più belle, che abbracci una serpe, ed è una serpe che ti abbraccia?

           Menippo rimase attonito, e Apollonio seguitò: “Tu hai una donna che non è tua moglie: ma pensi forse che lei ti ami?

          “Certamente!, rispose il giovine. Lei si comporta con me come fa una donna che ama.

          “Intendi sposarla?

           “Sì: è fonte di gioia sposare una donna che ama.

            “Apollonio replicò: Quando celebrerai le nozze?

           “Presto, rispose il giovane, forse domani stesso.

            “Apollonio attese il giorno della festa nuziale e, quando i convitati furono giuinti, entrò anch’egli nella sala.

           “Dov’è la bella per la quale siamo venuti?, chiese.

           “Qui, disse Menippo alzandosi e arrossendo in volto.

           “E di chi soino l’oro, l’argento e tutti gli ornamenti di questa sala?

           “Di mia moglie, rispose il giovane, io non possiedo che questo, e mostrò il suo mantello.

            “Apollonio, rivolgendosi allora a tutti, chiese: Conoscete il giardino di Tantalo, che a un  tempo esiste e non esiste?

           “Sì, risposero gli ospiti, lo abbiamo letto in Omero, perché non siamo mai scesi nell’Ade.

           “Lasciatemi dire, allora, proseguì Apollonio, che queste decorazioni sono simili a esso:sono soltanto l’apparenza insostanziale di una sostanza.Perché possiate comprendere meglio, sappiate che la seducente fidanzata è un Vampiro, una di quelle Empuse che il popolo chiama Lamie o Mormolyce. Anche i Vampiri sono attratti dal sesso: ma ancor più amano il sangue e la carne umana, e usano il sesso per intrappolare coloro che vogliono divorare.

              “La donna allora gridò: Taci e vattene via!, e si mostrò indignata per quelle insinuazioni, scagliandosi contro il filosofo e chiamandolo insensato. Ma, all’improvviso, le coppe che sembravano d’oro e i vasi che sembravano d’argento svanirono tutti; scomparvero anche, dopo il discorso di Apollonio, tutti i coppieri, i cuochi e i servi.

               “Allora lo spirito immondo finse di piangere, supplicando di far cessare i tormenti che l’avrebbero costretto a rivelare la sua vera natura. Ma Apollonio insistè finchè quello non confessò di essere un Vampiro che aveva invischiato Menippo coi piaceri del sesso per poterne poi divorare il corpo. Infatti, per nutrirsi, lei sceglieva sempre i giovani belli e forti, perché hanno il sangue  assai fresco. (44)

               Certo, racconti del genere non sono esclusivi dell’antichità greco-romana né della sola area mediterranea. Il famoso colonnello britannico Percy Fawcett, grande conoscitore del Sud America e ricercatore del mitico El Dorado, che intorno al 1925 scomparve nella giungla amazzonica senza più lasciare tracce, aveva raccolto dagli indios numerose storie riguardo ai duendes, gli spettri dei defunti che perseguitano a morte le loro vittime. Val la pena, per un confronto con la storia di Apollonio, riportare uno di tali racconti.

                “L’episodio più strano da lui riferito [ cioè da Fawcett ] è successo in Bolivia, al posto di ristoro governativo di Yani dove, negli ultimi anni del secolo scorso [ cioè, si badi, dell’Ottocento ] fu trovato un enorme giacimento d’oro. Quella storia è strana. Due ufficiali boliviani di ritorno dal Beni, scesero giù a Yani fermandosi ad un tambo per passarvi la notte; vedendo una ragazza bellissima sulla soglia di una casa accanto al tambo, giocarono a testa e croce, con una moneta, a chi spettasse corteggiarla; l’ufficiale che perdette pernottò nella casa del corregidor, il capo del villaggio, l’altro se ne andò. Non fece più ritorno e la sua testa mozza fu rinvenuta sul pavimento di una casa diroccata, la stessa ove l’ufficiale superstite aveva scorto – e lo giurò – la magnifica ragazza. Quella casa, spiegò il corregidor, non era abitata da chissà quanto tempo e la ragazza era un duende, un fantasma che non si faceva scorgere dagli indigeni, ma soltanto dai forestieri. (45)

                 Un antropologo di tendenza strutturalista e comparativista non avrebbe difficoltà a vedere, nella diffusione universale di tali racconti, la prova – per così dire – della loro origine puramente leggendaria; per quanto, a ben guardare, il ragionamento potrebbe essere facilmente rovesciato: proprio la diffusione universale di certi racconti potrebbe deporre a favore della loro autenticità, cioè dall’esperienza concreta di essi. Se poi la credenza soggettiva in fatti che sono, al momento, privi di spiegazione scientifica, debba coincidere anche con una verità oggettiva, questo – lo abbiamo già osservato – è un altro discorso (che peraltro, lo notiamo di sfuggita, non può prescindere da ciò che si intende, filosoficamente parlando, per i due concetti di “verità” e di “oggettività”, concetti estremamente impegnativi e dal significato tutt’altro che univoco).A ciò si aggiunga che anche un evento non “vero” oggettivamente può benissimo produrre degli effetti reali e “oggettivi”:  ad esempio, tra il 1600 e il 1800 i Maori abbandonarono  progressivamente le proprie sedi  nella regione di Tautuku, in Nuova Zelanda, anche per il terrore provocato dal Maeroero, creatura selvaggia simile allo Yeti che si diceva rapisse i bambini e le giovani donne. (46)

            Concludendo. Nel mondo antico era diffusa la credenza negli animali mostruosi, nei fantasmi, nei vampiri. Tale credenza coinvolgeva anche le classi istruite, gli scrittori, i filosofi, insomma gl’intellettuali di professione (naturalmente, non tutti; molti erano scettici). Essa poggiava non solo su vaghi racconti d’impronta mitico-leggendaria o su tradizioni letterarie e poetiche, ma anche su episodi specifici storicamente contestualizzati, attribuiti a testimoni attendibili o riferiti da personaggi di provata serietà. Il soprannaturale da un lato, e le arti magiche dall’altro costituivano punti di riferimento quasi universalmente accettati: si pensi, per fare solo un esempio, al racconto sull’ arrivo dei Libri Sibillini a Roma; oppure, uscendo dall’ambito greco-romano, ai libri mosaici dell’Antico Testamento, pieni di prodigi, miracoli e rivelazioni. Né si deve concluderne che gli antichi fossero, nel complesso, più creduli di quanto lo siano i cosiddetti moderni, ossia di quanto lo siamo noi (che saremo antichi per le generazioni a venire): checchè ne pensasse il Leopardi del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, non abbiamo alcun argomento incontrovertibile per  affermare una cosa del genere. Fra gli antichi, proprio come fra i nostri contemporanei, occorre in primo luogo distinguere fra credulità e, ciò che è ben altra cosa, disponibilità a confrontarsi con fatti che sembrano contraddire il paradigma scientifico del momento; in secondo luogo, fra una massa di persone intellettualmente succube della maggioranza (tra le quali vanno annoverate anche non poche appartenenti alla cultura scientifica dominante, e non solo il cosiddetto popolino) e coloro che, invece, pur dotati di senso critico e di una buona cultura complessiva, anche – ma non solo – di tipo scientifico, posseggono equilibrio, prudenza ma anche la cacacità di confrontarsi con i fatti “scomodi” dal punto di vista della loro spiegazione razionale.

              In ogni caso, non è questa la sede per discutere a fondo la natura dei fatti misteriosi che abbiamo riportato dalle fonti greco-romane. A noi basta aver sollevato il velo su un aspetto poco studiato del mondo antico, auspicando verso di esso una maggiore attenzione da parte degli storici, ma anche degli antropologi, dei parapsicologi, dei filosofi. Tenendo sempre bene a mente quella saggia riflessione di Shakespeare  (Amleto