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Il Nome nella Forma

di Edoardo Beato - 28/12/2005

Fonte: estovest.net

 

«Avendo compreso il prolifico nome e forma, interiormente ed esteriormente radice della malattia, costui è liberato dal legame con la radice di tutte le malattie». (Sutta Nipata 530)

«Ma tu hai tutto disposto con misura, calcolo e peso». (Sapienza 11 20)

 

Una delle opposizioni che più quietamente giacciono all'interno del comune considerare lo svolgersi della vita è quella tra forma e materia. Ma fino a che punto è lecito mantenersi nella sicurezza che ci deriva dall'uso preconfezionato di tali strumenti concettuali? La loro opposizione può dirsi reale o, piuttosto, si tratta di una realtà che diviene tale solamente in seguito a consuetudine, cioè al perpetuarsi di una convenzione? E soprattutto i termini di questa ampiamente presunta opposizione possono sottrarsi al fatto che nessuno dei due esiste all'esterno della, o precedentemente alla relazione che, connettendoli, anche li costituisce? Per quali ragioni poi tale relazione dovrebbe darsi esclusivamente nella forma dell'opposizione? E ancora: sarebbe possibile formulare una teoria ontologica e gnoseologica immune da quel contrasto di forma e materia che, determinandosi, costituisce sia gli enti di ragione che quelli naturali? Se risposta positiva potesse essere data a questa domanda, quali risvolti etici discenderebbero da una impostazione non dualistica, o almeno dicotomica ma non automaticamente conflittuale, della relazione stessa?

Stanti questi interrogativi non sarà cosa priva di utilità il riconsiderare, seppure in modo conciso, lo scenario filosofico che ha permesso la genesi e il conseguente sviluppo, almeno sino al ripensamento tomista della filosofia aristotelica, dei concetti qui chiamati in causa; un excursus di questo tipo non solo risulterà funzionale all'orientamento iniziale di chi, amante di un sapere mai ritenuto assodato, si metta sulla strada della ricerca, avendo deciso di ripercorrere un sentiero antico e senza fine, ma soprattutto rivelerebbe la propria fertilità se posto nella condizione di poter risuonare con contesti culturali solitamente considerati alieni ed esotici solo perché difformi o di scomoda fruizione.

Del resto quella che, nell'accezione corrente, viene chiamata opposizione non è altro che la trasposizione falsante nell'ordine spaziale di ciò che, nell'ordine temporale, è invece uno spontaneo, quasi fisiologico alternarsi di fasi non tanto escludentisi, quanto succedentisi tra loro. Fasi che costitutivamente, a ben vedere, non possono mai venir considerate come pure, in quanto in se stesse sono dotate della facoltà di prodursi reciprocamente1. Da questa posizione risulta allora facile operare quell'inversione per la quale l'opposizione si mostra come nient'altro che una delle possibili modalità di quell'antica relazione in virtù della quale l'aÙtÒ necessita dell'›teron.

È quindi alla luce di tali considerazioni che si rende agevole, tra le molte possibilità, la penetrazione in quella forma di conoscenza quasi iniziatica costituita dall'enigma. Pars pro toto valga l'esempio contenuto nel Mahabharata nell'episodio della pozza incantata: durante l'esilio dei Pandava Yudhisthira, trovandosi di fronte ad una prova consistente in una serie di domande-tranello formulate dal padre Yama, signore del Dharma, nelle sembianze di uno yakxa aleggiante sulle acque d'un lago, fornisce risposte implicanti una sapienza facente capo ad una forma di logica non ordinaria, ma non certo per questo astratta dalla realtà sensibile; anzi, la più evidente peculiarità di tale procedimento consiste proprio nella capacità di svelare una conoscenza così intima del volgersi degli eventi tale da apparire paradossale agli occhi dei molti:

- Fammi un esempio di sconfitta.
- La vittoria.
- Fammi un esempio di dolore.
- L'ignoranza.
- Qual è il tuo contrario?
- Me stesso.
- Per ognuno di noi qual è il massimo miracolo?
- Ogni giorno la morte colpisce e viviamo comunque quasi fossimo immortali, ecco il massimo miracolo. Chi sei tu?
- Il dio Dharma, tuo padre. Sono la costanza, la ragione, l'ordine, sono tutte le forme del mondo.

Ma cerchiamo ora di cogliere, limitandoci inizialmente ad un'indagine rivolta all'ambito circoscritto della filosofia occidentale, il punto fontale da cui traggono origine le determinazioni di forma e materia. Nel pensiero greco il concetto di forma viene espresso, a seconda dei casi, dai termini morphé, eidos, schèma. Secondo Aristotele (Metafisica, 987 b ss.) i suoi primi sporadici accenni sono rinvenibili già nelle tradizioni pitagorica ed eleatica, mentre è solo con Platone che il problema della forma-eidos viene apertamente tematizzato. Sin da questo momento tale concetto manifesta tutta la sua complessità in quanto si trova a veicolare due diversi significati e quindi a svolgere una doppia funzione: ontologica e gnoseologica. La sovrapposizione dei due piani deriva dal considerare la forma da un lato come essenza e causa degli enti materiali (è questa la forma in quanto idea e specie, essendo entrambe le accezioni contenute nel vocabolo eidos), dall'altro invece come ciò che rende le cose conoscibili avendo loro conferito il carattere dell'intellegibilità.

La divaricazione massima tra forma e materia sembra trovare la propria formulazione definitiva nel Timeo dove l'esistenza dell'intero universo viene giustificata in base ai principi di forma e materia. A questo proposito è opportuno ricordare che sino al XIII secolo nell'occidente cristiano era possibile leggere in traduzione latina un numero piuttosto esiguo di dialoghi platonici; tra questi il testo che più di altri influì sul pensiero teologico-filosofico dell'epoca fu il Timeo stesso, sebbene nella versione parziale (17 a-53 c) tradotta e commentata nel IV secolo da Calcidio.

È con Aristotele che la teoria della forma e della materia riceve la sistematizzazione decisiva: esse vengono considerate come i caratteri primi della sostanza (ousìa) cui ineriscono essenzialmente; ciascun ente materiale trova così la propria ragion d'essere nell'unione di due principi costitutivi: uno passivo (la materia), l'altro attivo (la forma). Ciò da un lato impedisce di pensare le forme in una loro separatezza iperuranica2 mentre dall'altro consente di guardare all'individuo reale come ad un "tutt'uno", cioè ad un sinolo (synolon)3, quel composto di forma (immanente) e materia che è la sostanza concreta. Tuttavia il concetto di sinolo presenta un'ambigua problematicità4 non essendo chiaro se si tratti: 1) di un unico originario dal quale vengono poi concettualmente astratti due elementi costitutivi, oppure 2) se si considera la traduzione latina del termine (compositum) allora non saremmo più di fronte ad un unico originario, bensì al prodotto, o meglio, alla composizione di due elementi separatamente sussistenti con conseguenti ovvie contraddizioni logiche, o ancora, potrebbe trattarsi 3) di un plesso, nel senso dell'infinito manifestarsi, in modo puntualmente individuale, di una polarità strutturale dell'essere: come un aggregarsi di eventi atomici all'interno del campo fisico.

Qualunque sia la risposta che garantisce il più elevato grado di coerenza rimane aperta comunque, almeno sul piano logico, una questione di evidente incongruenza. Mi riferisco al fatto che, stanti due principi (eidos e yle) operanti al medesimo livello di po…hsij cosmica e necessitanti ciascuno dell'altro, pena la loro invisibilità, essi, nonostante ciò, vengono collocati all'interno di una visione gerarchica tale da subordinare l'uno all'altro, come se il principio superiore potesse esplicarsi solo in virtù di quello che gli è inferiore. Se viene quindi inizialmente riconosciuta tra loro una relazione paritetica, che potremmo raffigurarci come svolgentesi su di un comune piano orizzontale, in seguito, forse per l'ancestrale timore dell'¥peiron, la medesima relazione viene disposta su di un asse collocato verticalmente, all'estremità superiore del quale troviamo la forma e all'estremo opposto, in basso, la materia. Sono due diversi modelli che rappresentano le principali concezioni del cosmo: una gerarchica e quindi teologicamente politica, l'altra organica e naturalmente autoorganizzantesi.

Ma a ben vedere l'opposizione tra i due modelli è più presunta che reale, in quanto non è oggettivamente collocabile in un ordine dato una volta per tutte, ma dipende unicamente dal punto di vista dell'osservatore, dal momento che nell'universo non c'è né verticalità, né orizzontalità se non in rapporto ad un punto convenzionalmente stabilito.

Aristotele fornisce due definizioni del concetto di forma; nella prima essa è la depositaria dell'"essenza di ogni cosa", nell'altra viene vista come l'"atto primo di un corpo"5. Ora, l'equiparazione di forma ed atto, aggiunta al considerare l'atto come avente priorità sulla potenza6, non può che consolidare definitivamente la preminenza della forma, in quanto causa efficiente e finale7, sulla materia, in quanto pura possibilità o potenza passiva8 e proprio per questo incapace di passare da sola alla forma in atto, cioè a dire all'individuo concreto; la materia prima, infatti, per divenire sostanza individuale deve necessariamente presupporre una forma già in atto la quale, per evitare un regressus ad infinitum, abbisogna di una forma e di un atto non commisto a materia, abbisogna cioè di Dio come forma e atto puro.

Tuttavia si constata che, scendendo al livello dell'esperienza empirica, la forma, in quanto atto della sostanza materiale si trova inestricabilmente connessa con la materia. La particolarità di questa connessione è di essere duplice in un senso soprattutto qualitativo: la forma si sdoppia in "forma sostanziale" e "forme accidentali" per giustificare l'esistenza di un doppio ordine di caratteristiche presente negli enti materiali. Questo si rendeva necessario in seguito alla cesura ontologica tra l'elemento che si trovava alla base della costituzione di ogni singolo essere (per l'uomo ad esempio l'anima)9 e, stante la sua imprescindibilità, lo collocava all'interno di una determinata specie (eidos)10, e quelli invece indefinitamente variabili e per questo non fondanti, quali ad esempio le peculiarità corporee (statura, peso, colore etc.)11.

In virtù di quella sovrapposizione a cui più sopra si accennava, i portati di ordine ontologico riguardanti la forma e la materia trovano un corrispettivo in ambito gnoseologico laddove Aristotele coniuga la forma con l'intellegibilità, e la materia con il contenuto dell'esperienza sensibile. Ad essere precisi è solo la forma sostanziale a rendere intellegibile una sostanza; ma come fa allora la materia a divenire ciascuna delle cose particolari? A tale quesito S. Tommaso risponde proponendo la teoria della materia signata. La materia sarebbe "capace", nel senso del latino capax: in grado cioè di ricevere qualcosa; sarebbe pertanto dotata di una particolare disposizione che è «la potenzialità (passiva) non più rispetto a una forma qualsiasi, ma rispetto ad una certa forma. Dire che una materia ha una disposizione verso una certa forma ovvero che è predisposta (disponitur) rispetto a quella forma significa, se è lecito esprimersi in questi termini, che quella determinata materia (cioè il composto in cui è quella materia) è incamminata più di un'altra sulla strada che va dalla potenza assoluta della materia prima ad un determinato atto»12.

Certo è che la deriva neoplatonica rappresentata dagli agostiniani condusse la filosofia scolastica a spezzare l'unità strutturale del sinolo aristotelico e a postulare, per esempio, l'esistenza delle "forme separate"13 (una sorta di lÒgoi spermatiko… eternamente presenti nella mente di dio) o quella delle "forme sussistenti"14 indicanti l'incorporeità degli angeli e dell'anima umana. Anche a causa del contrasto con questa corrente, S. Tommaso ribadisce la propria aderenza alla filosofia di Aristotele, ripensando tutti gli snodi decisivi della sua dottrina in funzione apologetica.

Per quanto riguarda il nostro problema, nella Somma di teologia (I 105 1) il Dottore angelico ripristina la definizione aristotelica di forma come atto della materia: «forma nihil aliud est quam actus materiae». Ma, se il Filosofo si accontentava dell'enunciato immediato della definizione, Tommaso va oltre specificando che l'atto della forma non è un atto tra i molti possibili, bensì è atto funzionalmente differente in quanto "atto primo", distinto cioè dalle "operazioni" che sono gli atti secondi:

«forma est actus primus, operatio est actus secundus, tamquam perfectio et finis operantis. Et hoc est verum tam in corporalibus quam in spiritualibus, puta in habitibus animae, et tam in naturalibus quam in artificialibus»15.

A chiarificazione di questo passaggio critico può essere d'aiuto riportare il commento di Angelo Campodonico: «negli enti corporei che compongono il mondo di cui abbiamo esperienza, inoltre, la forma che costituisce una sostanza in quanto tale (forma sostanziale) è l'atto di quella materia che è pura potenza passiva (materia prima). L'atto che costituisce una sostanza (la forma sostanziale) però non esclude ulteriori atti di quella sostanza e anzi ne è il presupposto. Per esempio io sono un uomo (grazie all'anima che è la forma del mio corpo), ma proprio per questo posso fare una passeggiata, posso vedere il paesaggio fuori dalla finestra ecc. C'è quindi una differenza tra l'atto primo che fa essere una cosa (e la fa essere quella tal cosa) e gli atti secondi che la determinano ulteriormente. Questa differenza di atto primo e atti secondi non corrisponde sempre a quella tra forma sostanziale e forme accidentali, perché sottolinea piuttosto la differenza tra un atto che ha certe potenze (che sono accidenti) e atti che provengono da queste potenze (i quali atti sono pure accidenti).
Potentiae sono in questo senso delle qualità che consentono all'individuo (atto primo) di pervenire a certi atti (secondi). [...] Abbiamo detto che le potenze sono le qualità che consentono a un individuo di pervenire a certi atti e non che gli consentono di compiere certi atti, perché gli atti secondi non sono sempre azioni e le relative potenze non sono sempre potenze attive. Le attività (operationes) di un individuo possono consistere nel compiere un'azione, ma possono anche consistere nel ricevere una forma. In altre parole la distinzione tra atto primo e atti secondi non è legata direttamente a quella di potenza attiva e potenza passiva: l'azione della creatura è sempre atto secondo, ma non vale la reciproca, l'atto secondo non sempre è azione, non sempre è l'atto di una potenza attiva»
16.

A questo punto possiamo già tentare di riassumere gli elementi emersi dall'analisi compiuta in una sintesi intermedia: da un lato si colloca un insieme di concetti agenti tutti all'interno del medesimo ambito funzionale, mi riferisco all'eidos-forma, all'eidos-specie, all'essenza, all'atto, all'intellegibilità, all'anima, e dall'altro i corrispettivi conseguenti, ossia la yle-materia prima, la sostanza, la potenza, il contenuto dell'esperienza, la corporeità. Quello che ancora rimane irrisolto è comprendere se sia lecito pensare i due insiemi come indipendenti tra loro, se tale indipendenza si dia solamente ad un derminato piano metafisico, oppure se il loro cooperare sia comunque, e quindi sempre, effettivo, vale a dire imprescindibile.

Una soluzione accettabile agli interrogativi posti sarebbe, senza troppo scomodarci, certamente rinvenibile all'interno della medesima tradizione filosofica presa come punto di partenza per la nostra indagine; tuttavia potrebbe rivelarsi particolarmente provocatorio e stimolante percorrere non la stessa, bensì un'altra via, una via, per così dire, parallela. Mi riferisco ai frutti che potrebbero derivare dal ripensare le categorie esaminate alla luce di un pensiero altro, e non tanto per la ricerca di risposte alle questioni rimaste irrisolte (la irrisolvibilità o impossibilità di qualsivoglia soluzione ultimativa a questo ordine di problemi rende l'indagine umile riguardo ai propri esiti), quanto per verificare la presenza troppo spesso insospettata di un medesimo interrogarsi, ma orientato, talvolta, ad altre direzioni.

In un arco di tempo approssimativamente compreso tra il 1000 e l'800 a. C. l'India ci offre il suo primo grande esempio di speculazione: i Brahmana. Si tratta di una letteratura, annessa ai Veda, estremamente vasta e di carattere ritualistico, una sorta di elaboratissima esegesi liturgica prodotta dalla casta sacerdotale e riguardante l'atto sacrificale. Tra i principali obiettivi che questa letteratura si propone di raggiungere, costantemente all'interno di una serrata, perché ineludibile, corrispondenza tra macro e microcosmo nell'attenzione al mantenimento dell'ordine eterno, troviamo uno dei primi tentativi compiuti dall'uomo di fornire una spiegazione non mitica relativa alla costituzione delle cose. Vengono perciò enucleati i componenti basilari e, per quanto riguarda l'individualità umana, si distingue una forma visibile, ma che più latamente potremmo dire sensibile in quanto fisica, rupa, e un'essenza misteriosa ed interiore coincidente, alla stregua di una formula magica, con la personalità più recondita dell'individuo (in ciò è immediato il richiamo alla definizione aristotelica della forma come "essenza di tutte le cose"), il nome, naman17. Ecco così delineata la diade namarupa, strutturante, sul piano umano, il complesso psicofisico. Tale teoria sembrerebbe privilegiare l'aspetto antropologico, ciò a causa anche della profonda incidenza esercitata dalla successiva speculazione buddhista decisamente focalizzata sull'indagine gnoseologica, laddove sarebbe preferibile considerare preliminarmente la valenza propriamente cosmogonica del plesso in questione.

Nel Satapatha Brahmana (XI 2 3 3) la discesa del Brahman nirguna nel mondo testé manifestato viene spiegata proprio attraverso l'introduzione di naman e rupa. Il nome e la forma non solo entrano quindi a costituire quello che per noi è il mondo del divenire, ma, ancor prima, sono i mezzi che consentono all'energia creativa (Çakti) di esplicarsi, individualizzandosi in indefinite singole determinazioni, ciascuna dotata di nome e forma. Tuttavia, come spesso accade in contesti analoghi, ciò che è usato ai fini del manifestarsi non è altra cosa da ciò che anche occulta, inganna, seduce, separa, sovrappone; e così il mondo dei nomi e delle forme oltre ad essere espressione della presenza dell'Inqualificato nel mondo ne è anche la cangiante, polimorfica maschera: il velo di Maya. In questa accezione i namarupa vengono considerati come non altro che modificazioni di un sostrato ineffabile e sempre operante, la ricongiunzione col quale avviene percorrendo inversamente la medesima via impiegata dal Brahman stesso per manifestarsi, una via di progressiva kšnwsij di tutto ciò che è transitorio e relativo: il dominio di namarupa, ossia l'esistenza empirica che nella sua integralità è caratterizzata da nome e forma. La base scritturale autoritativa di questo "viaggio del ritorno"18 è da rinvenirsi nella Mundaka Upanisad, III II 8:

«come i fiumi che scorrono si dissolvono nell'oceano perdendo la loro individualità [nome e forma], così colui il quale conosce, liberatosi da nome e forma [dall'individuazione], si immerge nel divino Spirito Universale [Purusha] che è più in alto di ciò che è in alto».

e analogamente in Prasna Upanisad, VI 5:

«quanto all'Essere [avviene come succede con] i fiumi, i quali scorrono verso l'oceano ed in lui spariscono allorché lo raggiungono. I loro nomi e le loro forme vengono distrutti [la loro individualità si perde] e si dice soltanto che c'è l'oceano. Egualmente spariscono in lui, allorché l'hanno raggiunto, queste sedici parti del Veggente che tendono verso l'Essere Supremo: i loro nomi e le loro forme scompaiono [si perde la loro individualità] e si dice che c'è soltanto l'Essere Supremo [Puruxa]. Esso è indivisibile, è immortale»19.

Questo tipo di riflessione troverà la sua espressione più compiuta nella teoria vedantica nota come Vivartavada: la "dottrina della modificazione apparente" del Brahman nella Maya. Vivarta indica infatti una trasformazione-modificazione solo formale, quindi non sostanziale, dell'essere20. Ciò conseguentemente dà adito ad una interpretazione ambivalente del namarupa: a livello della verità relativa (Samvati satya) tale composto è certamente reale (è la posizione dei realisti), ma se considerato dal lato della verità assoluta (Paramartha satya) esso, contravvenendo al principio di non contraddizione, non è né reale né non reale poiché, in quanto vivarta, cioè modificazione (vritti) formale, possiede il grado di realtà dell'illusione, ossia di una mera apparenza di realtà; ecco perché viene considerato quale origine di possibili errori di conoscenza, tra i quali l'esempio canonico è lo scambiare la corda per un serpente.

Un interessante riverbero di questo discorso è presente nella disputa che oppose Vedanta a Nyaya-Vaisesika riguardo allo status ontologico dell'effetto rispetto alla causa:«Sankara si oppose alla teoria Nyaya-Vaisesika e la confutò, sostenendo che l'effetto non è qualche cosa di nuovo ma la medesima causa che si proietta nell'effetto. In altre parole il rapporto causale consiste in un mutamento di forma, la sostanza restando inalterata: il vaso o la ciotola o il piatto restano sempre creta pur assumendo particolare aspetto differenziabile in virtù della forma e del nome (namarupa); ma la vera causa è la creta, quindi l'essere, il sat, è la vera causa; quello che appare come effetto non è altro che una supposizione dovuta alla maya, alla libertà magica o nescienza che s'accompagna alla individuazione. Così nell'universo soltanto questo sat è reale; la molteplicità delle cose, suscitata in virtù della forza mayca, è unicamente nome o forma illusoria. Questa teoria vedantica, che si distingue come Vivartavada, assume pertanto l'esistenza puramente nominale dell'effetto, la sola realtà essendo l'unica causa di tutto, il Brahman. Quindi di fatto per i vedantisti il rapporto causale è una sovraimposizione (aropa)»21.

Un altro luogo fondante la teoria del namarupa è rinvenibile nella Chandogya Upanisad, laddove Uddalaka Aruni, una delle grandi figure delle Upanisad, riformula l'antica dottrina espressa nel Rg Veda X 72 2-3 secondo la quale il non-essere avrebbe preceduto l'essere:

«Brahmanaspati soffiò [saldò] insieme, come un fabbro, questi [esseri]. Nella prima età degli dei dal Non-essere [Asat] nacque l'Essere [Sat].
Nella prima età degli dei dal Non-essere nacque l'Essere. Dopo di esso nacquero gli spazi. Esso [l'Essere] [nacque] da quello [il Non-essere] che teneva i piedi voltati in su
»
22.

Secondo Uddalaka, invece, all'origine di tutto ci sarebbe l'essere (sat), che, sotto forma di divinità, avrebbe prodotto innanzitutto il tejas o calore luminoso, poi l'acqua, quindi il cibo ed infine il nome e la forma (namarupa), cioè tutte le cose nella loro specifica individualità, essendo la forma materia qualificata e il nome intellegibilità di un concetto individualizzato:

«o caro, al principio questo [universo] era soltanto l'Essere [Sat], uno, senza secondo. A questo proposito alcuni dicono: al principio questo [universo] era soltanto Non-essere [Asat], unico senza secondo. Di poi dal Non-essere nacque l'Essere.
Ma come, o caro, potrebbe essere così? - soggiunse egli. Come dal Non-essere potrebbe essere sorto l'Essere? Essere soltanto questo [universo] era al principio, o caro, uno, senza secondo.
Esso pensò: "vorrei moltiplicarmi, vorrei riprodurmi!" E produsse il tejas. Il tejas pensò: "vorrei moltiplicarmi, vorrei riprodurmi!" E produsse l'acqua. Perciò sempre quando arde [per il caldo o per le pene fisiche e morali], l'uomo emette sudore: è perché l'acqua s'è prodotta dal tejas.
Le acque pensarono: "vorremmo moltiplicarci, vorremmo riprodurci!" E produssero il cibo. Perciò sempre, quando piove, c'è cibo abbondante: è perché il cibo si produce dalle acque.
Delle creature tre sono i modi di nascere: da un uovo, da un essere vivente, da un germe.
Quella divinità [l'Essere] pensò: "orsù, io penetrerò in queste tre divinità [le creature sorte nel triplice modo ora detto] con la mia anima vivente [jivatman], e farò apparire nome e forma e renderò triplice ognuna di esse." E penetrò in queste tre divinità con la sua anima vivente e distinse nome e forma
»
23.

Senza dubbio il locus princeps nel quale appare nel modo più sintetico la germinazione del principio qualificante e differenziante, di quel principio che essendo in sé duplice non può che collocare nella dualità ogni sua espressione, in ciò operando la "giocosa" traduzione del Nirguna-Brahman in Saguna-Brahman, è significativamente inserito all'inizio della prima, più antica Upanisad:

«all'origine quaggiù nulla vi era. Tutto questo universo era avvolto in Mrtyu».

e

«all'origine esisteva solo l'atman sotto forma di Purusa. Guardandosi attorno Egli non vide altro che se stesso. [...]
Tutto questo mondo era ancora immanifesto [indifferenziato]. Egli con nome e forma lo rese manifesto [differenziato]: "questo si chiama così; questo ha tale forma."
Egualmente ancor oggi con il nome e con la forma si determina ogni cosa: "questo si chiama così; questo ha tale forma"
»
24.

Questi primi accenni sembrano attestare con evidenza come namarupa, in quanto diade indissociabile e imprescindibile per la costituzione degli esseri, si avvicini alla soluzione del sinolo aristotelico con tutte le conseguenze ontologiche che ne derivano, non ultimo il fatto che il mondo empirico necessita senza eccezioni dell'unione dei due fattori, come viene puntualmente ribadito anche da S. Tommaso:

«delle sostanze composte ci sono noti i componenti, ossia la materia e la forma, come nell'uomo il corpo e l'anima. Ora non si può dire che l'essenza sia solo uno di questi componenti. E che l'essenza di una cosa non sia solo la materia è evidente, perché è per mezzo dell'essenza che una cosa è conoscibile e viene classificata in una specie o genere, mentre la materia non è principio di conoscibilità né di classificazione in un genere o specie, ma questa determinazione proviene da ciò per cui essa è in atto. E neppure si può dire che l'essenza della sostanza composta sia solo la forma, come alcuni si sforzano di stabilire. Da quanto infatti si è detto risulta che l'essenza è ciò che viene espresso mediante la definizione della cosa; ora la definizione delle sostanze naturali non comprende solo la forma ma anche la materia, altrimenti le definizioni naturali non differirebbero dalle definizioni matematiche. E nemmeno si può dire che la materia sia introdotta nella definizione della sostanza naturale come qualcosa di aggiunto o d'estraneo alla sua essenza, perché questo modo di definizione è proprio degli accidenti che, non avendo una essenza perfetta, devono includere nella loro definizione un soggetto estraneo al loro genere. È chiaro dunque che l'essenza comprende sia la materia che la forma»25.

Sebbene la soluzione all'interrogativo riguardante il problema di che cosa e come le cose siano composte venga individuata sia in Grecia che in India nell'unione di due elementi eterogenei ma indissolubili, non è per questo possibile instaurare in maniera cogente una corrispondenza simmetrica tra essi. Certamente nella lingua greca, come in quella sanscrita, la parola materia nell'accezione in uso da Cartesio in poi è assente, per cui tentare di ricondurre i termini della questione all'opposizione di spirito e materia o di una res cogitans e una res extensa è un'operazione impropria ed aberrante.

Il termine rupa, ambiguamente tradotto con forma, indica più propriamente le fattezze, l'aspetto estrinseco, cioè la figura più che la forma, o, come propone B. K. Gosh26, l'aspetto assunto; è quindi l'insieme delle caratteristiche che rende percepibile non solo un oggetto, ma il farsi spontaneamente quell'oggetto del Brahman inqualificato. Nel Nyaya-Vaisesika rupa è così fortemente connesso con la funzione della vista da significare, tra le qualità (guna) aderenti alla sostanza, il colore stesso27, indicando, per estensione, ogni materia visibile; lo stesso vale per alcuni passi dei Brahma Sutra28). Nell'Abhidharmakosa di Vasubandhu, poi, il termine compare come il primo degli elementi derivati o secondari che corrispondono agli oggetti di percezione; nella fattispecie esso riguarda tutto ciò che è passibile di cadere nella sfera visiva.

Restando all'interno della tradizione buddhista possiamo constatare già nel Canone pali una ricca articolazione dell'ambito semantico di rupa29. Il termine può infatti indicare: 1) gli oggetti esterni percepiti attraverso l'occhio e la coscienza, presupponendo in tal modo un'esistenza indipendente dei rupa che verrebbero come colti in un ambito esterno al soggetto e poi posti in relazione con mano, il senso interno, e con manovibba‰a, la coscienza del senso interno, cioè la capacità di percepire le rappresentazioni: «a causa di occhio e rupa, nascerà la coscienza oculare. Quando i tre si incontrano, si ha il contatto. Dal contatto dipende la sensazione, è questa l'origine del mondo»30, oppure: «la percezione visiva ha luogo per il contatto [phassa] di tre agenti: l'oggetto esterno [rupa], l'occhio [cakku] e la coscienza visiva [cakkuvibba‰a]»31; 2) il corpo umano con tutti i processi psicofisici inerenti: «i quattro elementi e la forma che da essi dipende, tutto ciò è detto corpo. Dall'insorgere del cibo viene l'insorgere del corpo»32; 3) la figura di un oggetto esterno: «ora traccerò delle forme in questo spazio [privo di forma, arupi] e le renderò visibili»33; 4) le proiezioni della mente considerate reali (santani), cioè immagini interiori emergenti durante i vari assorbimenti meditativi (jhana), come suoni e forme divine (dibbani rupani)34: «quando siamo diligenti pieni di ardore e risoluti, percepiamo la luce e una visione di forme»35; e ancora: «l'altro mondo non può essere visto con questi occhi di carne [mamsa-cakkhuna]», ma alcuni, «grazie a quel divino occhio purificato [dibbam cakkhum], oltrepassando la visione degli uomini, scorgono sia questo che l'altro mondo ed esseri non nati da genitori»36. A garantire la non confusione tra le forme interiori e quelle esteriori interviene la distinzione assicurata dai termini ajjhattam e bahiddha: «uno che è cosciente delle forme interiori, scorge forme all'esterno [Ajjhattam rupa-sabbi eko bahiddha-rupani passati]»37; 5) il primo khanda, il fattore di personalità; 6) in unione con naman, nel composto namarupa, uno degli anelli del paticcasamuppada: «sensazione, ideazione, volizione, contatto, attenzione –questo è detto nome. I quattro elementi e la forma che da essi dipende –questo è detto rupa»38; anche se fatto solamente per inciso, è comunque importante ricordare che per la gnoseologia buddhista vale l'equazione secondo la quale «il nome e la forma dipendono dalla coscienza»., e contemporaneamente, «la coscienza dipende dal nome e la forma»39.

Le implicazioni contenute nel quarto significato di rupa invitano a prendere in considerazione l'esistenza di mondi, o livelli di realtà, abitati da forme pure, scisse cioè dalla materia comunemente intesa. È un aspetto, questo, ovviamente contemplato anche da S. Tommaso:

«e così una forma sussistente in se stessa diviene partecipe dell'essere immediatamente e direttamente, in se stessa e non all'interno di un soggetto [...]. Dal che risulta come differisce la potenza che si trova nelle sostanze spirituali dalla potenza che si registra nella materia. Infatti la potenza delle sostanze spirituali si riferisce solamente e direttamente all'essere; invece la potenza della materia si riferisce sia alla forma sia all'essere. Se qualcuno vuole usare per entrambi i casi [di potenzialità] la parola "materia" è evidente che egli adopera il termine "materia" in maniera equivoca»40.

Parimenti il buddhismo descrive, contemporaneamente al mondo umano, caratterizzato dalle forme del desiderio e per questo chiamato Kamaloka o Kamadhatu e ospitante gli abitanti degli inferi (Naraka), gli uomini, gli animali, le sei classi di dei (Deva) e gli Asura, il Rupaloka o mondo delle forme invisibili ma esistenti. Più che ambito delle forme il Rupaloka, in quanto mondo intermedio41, dovrebbe essere considerato come il piano di una fisicità priva di desiderio, ma non di godimento (è il mondo degli dei), essendo sostanziato esclusivamente e direttamente, quasi come per le forme separate, della qualità mentale sviluppata nei primi quattro jhana ancora formali. Infine l'Arupaloka, raggiungibile attraverso la pratica dei quattro jhana immateriali (dal quinto all'ottavo), è il regno dello "spazio sconfinato", della "coscienza infinita", del "nulla esiste": immateriale e privo di forma è un continuum puramente spirituale:

«qui qualcuno, trascendendo completamente le immagini formali, realizzando la scomparsa della coscienza degli stimoli sensoriali, disinteressandosi della coscienza della diversità, pensa: "lo spazio è infinito", e raggiunge la sfera dello spazio infinito, e vi rimane. Ne gode, la anela, e in essa trova contentezza. Stabilitosi in essa, datosi ad essa, in genere trascorrendo in essa il proprio tempo e non decadendone, quando muore, rinasce tra gli dei che hanno raggiunto la sfera dello spazio infinito»42.

«Se in questa vita si coltivano e si raccolgono piaceri sensuali, relazioni d'amore e investimenti libidici, si avrà quello che può essere definito un caso di kama-bhava, che costituisce un preparativo per la "rinascita nel mondo del kama" (il mondo, cioè, degli esseri umani e degli animali, i purgatori e qualcuno dei cieli inferiori); è proprio questo, fra l'altro, il significato ordinario del termine kama-bhava. Allo stesso modo, il termine rupa-bhava può denotare una crescita di esperienze di forme, lo sviluppo della percezione e delle facoltà di immaginazione, e forse in particolar modo lo sviluppo di un mondo percettivo personale di esperienze visionarie, mentre arupa-bhava può indicare la crescita dell'indipendenza dalla forma, l'allontanamento da esperienze concrete, lo sviluppo di stati mentali astratti, quali quelli raggiunti nei più elevati livelli di samadhi»43.

Da tutto ciò risulta che rupa è qualcosa di ben diverso sia dal moderno concetto di materia44, sia dal suo corrispettivo greco di yle, che richiama con maggiore aderenza l'ambito funzionale riferibile a Prakriti, cioè quello di una natura naturanda; rupa sembrerebbe piuttosto offrire una somiglianza con la categoria tomista delle forme accidentali, avendo cosiderato da un lato l'impossibilità, almeno sul piano umano, di una forma in sé e di una materia in sé, e dall'altro l'esclusiva presenza di "forme materiali":

«la forma sostanziale e quella accidentale in parte si rassomigliano e in parte differiscono. Si rassomigliano nell'essere ambedue atto e quindi nel rendere attuale una cosa. Differiscono invece sotto due aspetti. Primo, perché la forma sostanziale dà l'essere in modo assoluto [simpliciter] e il suo soggetto (cioè la materia) è un essere soltanto in potenza. Invece la forma accidentale non dà l'essere in modo assoluto [simpliciter] ma una qualità o una quantità o altre modalità dell'essere; poiché il suo soggetto è un ente già in atto»45.

Ma anche per quanto riguarda naman, il nome, l'analogia col greco eidos non è direttamente conseguente. Ciò che comunque lo pone in relazione con la forma deriva principalmente da una questione di carattere antropologico. Si sa che il buddhismo spiega il verificarsi di qualsiasi fenomeno come l'aggregarsi di dharma impermanenti in base ad una legge di causazione reciproca:« la questione se anima e corpo siano o non siano la stessa cosa dovrebbe essere risolta, dunque, con questa risposta: sono la stessa cosa, nel senso che entrambi devono essere ricondotti all'origine dharmica; sono diversi però uno dall'altra, in quanto tutto ciò che è corporeo appartiene al gruppo dei rupa-dharma mentre tutti i fenomeni spirituali, unitamente ad altri, vanno annoverati nei quattro "raggruppamenti" (skhanda) restanti, sovrintesi dalla definizione "naman", in contrapposizione al gruppo "rupa"»46.

Del resto naman, esattamente al pari della forma, non può essere interamente trascendente, altrimenti sarebbe affatto inconoscibile, né, d'altro canto, può essere immanente, visto e considerato il suo non confondersi con l'empirico. È una posizione assai vicina al modo in cui Platone considera l'idea; essa è sia immanente che trascendente, mantenendo però sempre una eccedenza rispetto all'empirico, che, dal punto di vista logico, non le si avvicina nemmeno come somma, per altro indefinita, di tutte le proprie parti. Tale eccedenza si radica in un ambito affatto metafisico dove, stando alla Upanisad, il nome solamente consente l'accesso all'eternità e all'infinitezza:

«"Yajnavalkya," egli riprese "qual è la cosa che non abbandona l'uomo in punto di morte?"
"Il nome. Non ha fine il nome, non hanno fine tutti gli dei; per esso egli acquista un mondo infinito"
»
47.

Ma dal punto di vista relativo sembrerebbe impossibile postulare la benché minima separazione tra naman e rupa, tra forma e materia, tra anima e corpo, tra le funzioni psichiche o fattori mentali e le espressioni somatiche, poiché:

«quei vari attributi, caratteristiche, segni, indicazioni attraverso i quali l'elemento rupa si manifesta, –se venissero tutti a mancare, ci sarebbe mai una manifestazione di un contatto stimolativo nell'elemento nama?
–No
»
48.

Ecco allora che la coesistenza in ciascun essere di una funzione spirituale, essenziale, invisibile con una invece materiale, sostanziale, sensorialmente percepibile risulta ampiamente esemplificata trattandosi di un medesimo operare i cui modi, tuttavia, trovano espressione in strumenti concettuali derivanti da elaborazioni non concomitanti. È quindi lecito supporre che la relazione tra naman e rupa sia fortemente analoga a quella tra forma e materia, nonostante il non verificarsi della coincidenza di naman con forma e di rupa con materia, ciò costituendo un esempio di come il pensiero umano di fronte a due interrogazioni vertenti su di un medesimo problema risponda in modo univoco nell'oltrepassamento della diversità dei mezzi impiegati all'interno delle rispettive riflessioni.

 


Note

1- «In ogni rapporto essenziale la generazione è reciproca». R. Calasso, KA, Milano 1996, p. 37. torna al testo  ^

2- «La scienza moderna sta adeguandosi a premesse metafisiche. Infatti all'inizio di questo secolo essa ha dovuto scrollarsi di dosso i due dogmi post-rinascimentali: la legge della continuità, per cui ogni cosa trapasserebbe in altra a grado a grado, quantitativamente, e la conseguenza necessaria di quella pseudolegge: la negazione delle forme, che implicano la discontinuità. È a dispetto della scienza postquantistica che sopravvivono l'evoluzionismo (basato sulla lex continuitatis) e il conseguente "regno della quantità"»; questi, dice Florenskij, «furono implicitamente confutati da chi venne elaborando la teoria della funzione reale di una variabile reale e da chi poi la applicò, da chi studiò le curve dei movimenti browniani, certe oscillazioni ondulatorie, le epilamine di talune emulsioni di colloidi.
Torna cioè l'idea di forma, che non è soltanto un'esigenza d'ogni interpretazione dei fenomeni della vita (e Florenskij non poteva conoscere il DNA, che ne è la trascrizione), se la meccanica stessa è costretta ad invocarla studiando i movimenti indotti, le polarità, le isteresi, l'elasticità, per i quali deve supporre una totalità anteriore delle parti, una forma, appunto
». E. Zolla, prefazione a P. Florenskij, Le Porte Regali, Milano 1977, pp. 14-15. 
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3- Aristotele, Metafisica, VII 3 1029 a 1-5; VII 11 1037 a 30. torna al testo  ^

4- Ibid., III passim. torna al testo ^

5- «La forma (eidos) è quel che fornisce al soggetto (ypokèimenos) le condizioni per essere individualmente determinato. Da questo punto di vista ogni cosa ha una propria forma, che finisce con coincidere con la cosa stessa (ousìa), in quanto ci assicura della sua riconoscibilità.
C'è però un secondo modo di intendere la forma, un modo che qualcuno ha voluto chiamare dinamico, derivando il termine da un'altra categoria di largo uso aristotelico: dynamis (= potenza/potenzialità). Il legno diventa letto quando il falegname gli conferisce tale forma, ma per attuarsi nel legno il letto deve già essere presente in quanto forma nella mente del falegname. Il legno dunque in quanto materia contiene la potenzialità del letto e il letto in quanto forma costituisce un prius logico sul letto ricavato dal legno; ma è soltanto il legno diventato letto, cioè il letto di legno che attua veramente la propria forma».
D. Lanza, Il medico dipinto: forma, forme e unità nella poetica di Aristotele, in Forma, rappresentazione, struttura, a cura di O. Longo, Napoli 1989, p. 169. 
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6- Aristotele, Fisica, II 1 193 b 28; Metafisica IV 1015 a 11; Ibid., VII 1035 a. torna al testo ^

7- S. Tommaso precisa:«la forma, poi, come tale, ha ragione di bene, essendo sorgente dell'attività, termine ultimo voluto da chi opera, e realtà [actus] per cui essa è resa perfetta da chi la possiede». S. Tommaso, Somma contro i gentili, III 7. torna al testo ^

8- «Non si deve pensare che la potenza passiva sia soltanto qualcosa di negativo: a parte il caso della materia prima (che infatti esiste solo in unione con la forma sostanziale) tutto ciò che ha una potenza passiva ha questa potenza perché è qualcosa (è in atto). Si pensi del resto all'anima umana che è in un certo qual modo in potenza in tutte le cose: la possibilità della conoscenza si fonda su questa potenzialità della nostra anima a ricevere la forma delle cose conosciute, identificandosi intenzionalmente con esse». A. Campodonico, in S. Tommaso, La potenza di Dio, questioni 1-3, Firenze 1991, p. 47. torna al testo ^

9- «L'anima (psychè) dunque, in quanto principio della vita, si può dire che è la forma del corpo» (De an. 414 a 12 ss.), dove la forma significa evidentemente struttura atta a far funzionare un corpo in un modo determinato. L'anima sta infatti al corpo nello stesso rapporto con cui la vista sta all'occhio. Perciò occhio si può definire soltanto la parte che vede o che ha la possibilità di vedere; e uomo chi possiede tutte le potenzialità sensoriali e pragmatiche proprie dell'uomo.«Anche il morto però», scrive Aristotele in polemica con Democrito,«ha la stessa configurazione (schèmatos morphèn), e tuttavia non è un uomo. Ancora, è impossibile che sia una mano quella fatta di un materiale qualsiasi, ad esempio di bronzo o di legno, se non per omonimia (omonymos), come il medico dipinto. Essa non potrà infatti produrre il proprio effetto (ergon), come non potranno produrre il loro né i flauti di pietra né il medico dipinto» (De part. an. 640 b 34-641 a 2). Lanza, Op. cit., p. 170. torna al testo ^

10- S. Tommaso ribadisce in modo icastico questo concetto:«tutto ciò che ha l'esistenza o è la forma stessa oppure è una forma; poiché ciascun essere è collocato nel genere e nella specie dalla forma». S. Tommaso, Somma contro i gentili, III 7. torna al testo ^

11- «Poiché ogni strumento è in vista di un fine, ciascuna delle parti di un corpo è in vista di un fine, e il fine un certo tipo di azione [praxis tis], è chiaro che il corpo nel suo insieme è costituito in vista di un'azione multipla. In effetti non è il segare ad essere in funzione della sega, ma la sega in funzione del segare, perché il segare è un modo di usare [chrèsis tis]. Pertanto anche il corpo è in qualche modo in vista dell'anima e le sue parti in vista degli effetti per cui ciascuna di esse è stata fatta». Aristotele, Delle parti degli animali, 645 b 15-20. torna al testo ^

12- Campodonico, in S. Tommaso, Op. cit., p. 49. torna al testo ^

13- S. Tommaso, Somma di teologia, I 50 2. torna al testo ^

14- Ibid., I 76 1. torna al testo ^

15- S. Tommaso, Commento al De caelo et mundo di Aristotele, II 4 334. torna al testo ^

16- Campodonico, in S. Tommaso, Op. cit., p. 47. torna al testo ^

17- «Le regole relative all'attribuzione di nomi che compaiono in alcuni Grhya Sutra, quali il Gobhila (II 8 9-16) e lo Sankhayana (I 24 1-16), affermano che un fanciullo deve avere due nomi, mentre lo Hiranyakesin ne aggiunge un terzo, che deve rimanere segreto. È questo il nome più importante, considerato "una forza ritualmente generativa", e l'unica parte dell'individuo che non scompare al momento della morte. Il nome segreto, dunque, si distingue profondamente dagli altri nomi, ed è solitamente noto solo a chi lo porta e al suo precettore (guru), o al sacerdote di famiglia che ha sussurrato il nome stesso (e un mantra segreto) nelle orecchie del fanciullo, in occasione della sua cerimonia di iniziazione (upanayana). Il nome viene anche inserito nel suo oroscopo, generalmente in modo tale da non renderlo facilmente riconoscibile, nel caso che l'oroscopo stesso cadesse in mani altrui. Di questa tradizionale associazione di nome e personalità vi è ulteriore riprova nella riluttanza di molte donne indiane a chiamare per nome il proprio marito, e nell'usanza di costui di chiamare la propria moglie "madre del tal dei tali". In tutte le culture si attribuisce al nome un'importanza mistica e magica, considerandolo l'"essenza" della personalità e, in quanto tale, proteggendolo dagli estranei. Conoscere il nome di una persona o di una cosa significa conoscere la cosa in sé, e dunque poterla controllare e manovrare secondo i propri intenti» (Cfr. Atharva-Veda Samhita, VI 83 2). M. J. Stutley, Dizionario dell'induismo, Roma 1980, pp. 295-296. torna al testo ^

18- Cfr. i concetti di àplosis e aphàiresis in Plotino, Enneadi, VI passim. torna al testo ^

19- «Parecchi commentatori dei Brahma Sutra, per mettere ancora più in rilievo il carattere di questa "trasformazione" (usiamo la parola in senso rigorosamente etimologico, quello di "passaggio al di fuori della forma"), la paragonano alla scomparsa dell'acqua versata su una pietra rovente. Infatti, l'acqua è "trasformata" al contatto con la pietra, per lo meno nel senso relativo che ha perduto la sua forma visibile (e non ogni sua forma, poiché essa continua evidentemente ad appartenere all'ordine corporeo), senza però si possa dire per questo che sia stata assorbita dalla pietra, perché, in realtà, è evaporata nell'atmosfera, dove resta in uno stato impercettibile alla vista. Parimenti, l'essere non è affatto "assorbito" quando ottiene la "Liberazione", anche se così può sembrare dal punto di vista della manifestazione, per la quale la "trasformazione" appare come una "distruzione"; se ci si pone nella prospettiva della realtà assoluta, la sola che gli rimanga, è invece dilatato oltre ogni limite, se possiamo usare un tal modo di esprimerci (che traduce esattamente il simbolismo del vapore acqueo che si diffonde indefinitamente nell'atmosfera), poiché ha effettivamente realizzato la pienezza delle sue possibilità». R. Guénon, L'uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, Milano 1992, pp. 127-128. torna al testo ^

20- Esiste anche la teoria opposta: il Parinamavada o teoria della trasformazione sostanziale del Brahman nell'universo empirico; essa fa capo al concetto di vikara o trasformazione effettiva di un sostrato originario in una specifica determinazione; l'esempio tipico addotto è la trasformazione del latte in ricotta. torna al testo ^

21- G. Tucci, Storia della filosofia indiana, Milano 1992, pp. 340-341. torna al testo ^

22- Inni del Rgveda, a cura di V. Papesso, Roma 1979, p. 204. torna al testo ^

23- Chandogya Upanisad, VI III 1-3, in Upanisad Vediche, traduzione di C. Della Casa, Milano 1988, pp. 186-187. torna al testo ^

24- Brhadaranyaka Upanisad, I 2 1; I 4 1-7. torna al testo ^

25- S.Tommaso, Dell'ente e dell'essenza, 2. torna al testo ^

26- The History and Culture of Indian People, a cura di R. C. Majumdar, vol. 1, p. 423, n. 60. torna al testo ^

27- Kanada, Vaisesika Sutra, 1 1 5; 1 1 26; 2 1 1; 2 1 2; 2 1 3; 4 1 6; 4 1 8; 4 1 9; 6 2 6; 7 1 4; 7 2 1; 7 2 2; 8 17; 10 15. torna al testo ^

28- Brahma Sutra, II 2 15; II 3 12. torna al testo ^

29- Cfr. R. E. A. Johansson, La psicologia dinamica del buddhismo antico, Roma 1980, pp. 29 ss. torna al testo ^

30- Samyutta Nikaya, II 73. torna al testo ^

31- Ibid., IV 86. torna al testo