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Di notte, nel Colosseo, un esercito di demoni assedia Benvenuto Cellini

di Francesco Lamendola - 19/01/2008

 

Uno degli episodi più famosi di evocazione diabolica, in tutta la storia della magia,  è quello raccontato da Benvenuto Cellini (1500-1571) in una pagina altamente drammatica della Vita scritta per lui medesimo, autobiografia composta fra il 1558 e il 1562 (libro primo, capitolo LXIV). All'epoca egli era perdutamente innamorato di una certa Angelica, una giovane siciliana bellissima, ma la relazione era vivamente contrastata dalla madre di lei, tanto che i due giovani si erano trovati separati. Un po' per stordirsi e cercare un qualche sollievo dalle pene d'amore, un po' per il suo temperamento irrequieto, portato alla dismisura e assetato di conoscenza in senso tipicamente rinascimentale, Cellini volle partecipare a una operazione di necromanzia da parte di un non precisato prete siciliano.

Ma quella che doveva essere una cerimonia di evocazione degli spiriti dei morti si trasformò, con raccapriccio dei partecipanti, in qualche cosa di profondamente diverso, in una terribile evocazione di demoni che terrorizzarono gli incauti apprendisti stregoni.

 

"Mi accadde per certe diverse stravaganze che io presi amicizia di un certo prete siciliano, il quale era di elevatissimo ingegno e aveva assai buone lettere latine e grecie. Venuto una volta in un proposito d’un ragionamento, in el quale s’intervenne a parlare dell’arte della negromanzia, alla quale cosa io dissi: «Grandissimo desiderio ho avuto tutto il tempo della vita mia di vedere o sentire qualche cosa di quest’arte». Alle qual parole il prete aggiunse: «Forte animo e sicuro bisogna che sia di quel uomo che si mette a tale impresa». Io risposi che della fortezza e della sicurtà dell’animo me ne avanzerebbe, pur che ‘i trovassi modo a far tal cosa. Allora rispose il prete: «Se di cotesto ti basta la vista, di tutto il resto io te ne satollerò». Così fummo d’accordo di dar principio a tale impresa. Il detto prete una sera in fra l’altre si messe in ordine e mi disse che io trovassi un compagnoni sino in dua. Io chiamai Vinncenzio Romoli, mio amicisimo, e lui menò seco un pistoiese, il quale attendeva ancora lui alla negromanzia. Andaticene al Culiseo, quivi paratosi il prete a uso di negromante, si misse a disegnare i circuli in terra con le più belle cirimonie che immaginar si possa al mondo; e ci aveva fatto portare profummi preziosi  e fuoco, ancora profummi cattivi. Come e’ fu in ordine, fece la porta al circolo; e presoci per mano, a uno a uno ci messe drento al circulo di poi compartì gli ufizii: dette il pintaculo in mano a quell’altro suo compagno negromante, agli altri dette la cura del fuoco per e’ profummi; poi messe mano agli scongiuri. Durò questa cosa più d’una ora e mezzo: comparse parechi legione, di modo che il Culiseo era tutto pieno. Io che attendevo a’ profummi preziosi, quando il prete conobbe esservi tanta quantità, si volse a me e disse: «Benvenuto, dimanda loro qualcosa». Io dissi che facessimo che io fussi con la mia Angelica siciliana. Per quella notte noi non avemmo risposta nessuna; ma io ebbi bene grandissima satisfazione di quel che io desideravo di tal cosa. Disse il negromante che bisognava che noi ci andassimo un’altra volta, e che io sarei satisfatto di tutto quello che io domandavo, ma che voleva che io menassi meco un fanciulletto vergine. Presi un mio fattorino, il quale era di dodici anni incirca, e meco di nuovo chiamai quel ditto Vincenzio Romoli; e, per essere nostro domestico compagno un certo Agniolino Gaddi, ancora lui menammo a questa faccenda. Arrivati di nuovo a il luogo deputato, fatto il negromante le sue medesime preparazione con quel medesimo e più ancora meraviglioso ordine, ci misse inel circolo, qual di nuovo aveva fatto con più mirabile arte e più mirabil cerimonie; di poi a quel mio Vincenzio diede la cura de’ profummi e del fuoco; insieme la prese il detto Angiolino Gaddi; di poi a me pose in mano il pintaculo, qual mi disse che io lo voltassi giocondo e’ luoghi dove lui m’accennava; e sotto il pintaculo tenevo quel fanciullino mio fattore. Cominciato il negromante a fare quelle terribilissime invocazioni, chiamato per nome una gran quantità di quei demoni capi di quelle legioni, e a quelli comandava per la virtù e la potenzia di Dio increato, vivente ed eterno, in voce ebree, assai ancora greche e latine; in modo che in breve di spazio si empié tutto il Culiseo l’un cento più di quello che avevan fatto quella prima volta: Vincenzio Romoli attendeva a fare fuoco insieme con quell’Agniolino detto, e molta quantità di profummi preziosi. Io, per consiglio del negromante, di nuovo domandai potere essere con Angelica. Voltosi il negromante a me, mi disse: «Senti che gli hanno detto? Che in ispazio di un mese tu sarai dove lei»; e di nuovo aggiunse che mi pregava che io gli tenessi il fermo perché le legioni eran l’un mille più di quel che lui aveva domandato, e che l’erano le più pericolose; e poi che gli avevano istabilito quel che io avevo domandato, bisognava carezzargli e pazientemente gli licenziare. Da l’altra banda il fanciullo, che era sotto il pintaculo, ispaventatissimo diceva che in quel luogo si era un milione di uomini bravissimi, e’ quali tutti ci minacciavano; di più disse che gli era comparso quattro smisurati giganti, e’ quali erano armati e facevan segno di voler entrar da noi. In questo il negromante, che tremava di paura, attendeva in dolce e suave modo el meglio che poteva a licenziarli. Vincenzio Romoli, che tremava a verga a verga, attendeva ai profummi. Io, che avevo tanta paura quant’e loro, mi ingegniavo di mostrarla manco e a tutti davo maravigliosissimo animo; ma certo io m’ero fatto morto per la paura che io vedevo nel negromante. Il fanciullo s’era fitto il capo infra le ginocchia dicendo: «Io voglio morire a questo modo, che morti siano». Di nuovo io dissi al fanciullo: «Queste creature son tutte sotto a di noi, e ciò che tu vedi si è fummo e ombra; sì che alza gli ochi». Alzato che ebbe gli ochi, di nuovo disse: «Tutto il Culiseo arde, e ‘l fuoco viene adosso a noi»; e missosi le mani al viso, di nuovo disse che era morto e che non voleva più vedere. Il negromante mi si raccomandò, pregandomi che io gli tenessi il fermo e che io facessi fare profumi di zaffetica [o assafetida, resina dall’odore nauseabondo]: così, voltomi a Vincenzio Romoli, dissi che presto profumassi di zaffetica. In mentre che io così diceva, guardando Agniolino Gaddi, il quale si era tanto spaventato che le luce degli ochi aveva fuor del punto ed era più che mezzo morto, al quale io dissi: «Angiolo, in questi luoghi non bisogna aver paura, ma bisogna darsi da fare e aiutarsi; sì che mettete su presto di quella zaffetica». Il ditto Angiolo, in quello che lui si volse muovere, fece una strombazzata di correggie con tanta abundanzia di merda, la qual potette molto più che la zaffetica. Il fanciullo, a quel gran puzzo e quel romore alzato un poco il viso, sentendomi ridere alquanto, assicurato un poco la paura, disse che se ne cominciavano a ‘ndare a gran furia. Così soprastemmo infino a tanto che e’ cominciò a sonare i mattutini. Di nuovo ci disse il fanciullo che n’eran restati pochi, e discosto. Fatto che ebbe il negromante tutto il resto delle sue cerimonie, spogliatosi e riposti un gran fardel di libri, che gli aveva portati, tutti d’accordo seco ci uscimmo del circolo, ficcandosi l’un soto l’altro; massimo il fanciullo, che s’era messo in mezzo che aveva preso il negromante per la vesta e me per la cappa; e continuamente, in mentre che noi andavamo inverso le case nostre in Banchi, lui ci diceva che dua di quelli, che gli aveva visti nel Culiseo, ci andavano saltabeccando innanzi, or correndo su pe’ tetti e or per terra. Il negromante diceva che ti tante volte quante era entrato inelli circoli non mai gli era intervenuto una così gran cosa, e mi persuadeva che io fussi contento di voler esser seco a consacrare un libro; da il quale noi trarrem[m]mo infinita ricchezza perché noi dimanderemmo li demonii che ci insegnassimo delli tesori, i quali n’è pien la terra, e a quel mosso noi diventeremmo ricchissimi; e che queste cose d’amore si erano vanità e pazzie, le quali non rilevavano nulla. Io li dissi che, se io avessi lettere latine, che molto volentieri io fare una tal cosa. Pur lui mi persuadeva, dicendomi che le lettere latine non mi servivano a nulla e che, se lui avesse voluto, trovava di molti con buone lettere latine; ma che non aveva mai trovato nessunod’un saldo animo come ero io, e che io dovessi attenermi al suo consiglio. Con questi ragionamenti noi arrivammo alle case nostre, e ciascun di noi tutta quella notte sogniammo diavoli.” (1)

 

Tutta l'operazione, in verità, si colloca nel terreno ambiguo che sta fra necromanzia ed evocazione diabolica, nonché fra magia popolare e magia colta. In effetti, quella di evocare gli spiriti dei morti per conoscere il proprio futuro era una pratica antichissima, attestata già - in ambito giudaico - nel celebre episodio di Saul e della maga di Endor, che evoca il defunto profeta Samuele profetizzando al re la sconfitta e morte ad opera dei Filistei. (2)

Nel Medioevo e nel Rinascimento il confine tra magia nera e magia bianca non era molto netto, così come non lo era tra la figura dello stregone che evoca i demoni e quella del mago che evoca gli "spiriti", come il celebre scienziato e studioso di occultismo John Dee, attivo alla corte di Elisabetta d'Inghilterra e, più tardi, dell'imperatore Rodolfo II. (3) La Chiesa cattolica, da parte sua, non condannava la necromanzia perché fosse un'arte illusoria, ma perché apriva le porte all'invasione delle forze maligne e perché contrastava con l'obbedienza alle leggi divine e col rispetto dovuto alle anime dei trapassati. Tuttavia la considerava una pratica assai meno esecrabile del culto dei demoni o satanismo, perché il necromante non adorava il Signore del Male, né sottoscriveva con lui un patto scellerato, vendendogli la propria anima in cambio di potere e ricchezza, bensì si limitava ad evocare le anime dell'Oltretomba: anche se ciò, in pratica, poteva significare una irruzione di ospiti non invitati di un genere ben diverso da quello desiderato.

Ad ogni modo, può essere che Cellini, nel suo racconto, abbia deliberatamente confuso le acque, parlando di necromanzia invece che di stregoneria, per evitare le maggiori censure dell'Inquisizione; ma che in realtà, fin dall'inizio, l'officiante del Colosseo non si proponesse di chiamare le anime dei defunti, bensì gli spiriti diabolici, illudendosi di poterli padroneggiare e sottoporre alla propria volontà. La narrazione, benché viva e coinvolgente dal punto di vista letterario, lascia molte zone d'ombra sul piano strettamente tecnico; par di capire, comunque, che fin dalla prima delle due cerimonie, il prete siciliano non abbia evocato anime di trapassati, bensì spiriti infernali (chiamati, significativamente, "legione").

È vero che l'officiante recitò una formula in cui comandava agli spiriti  "per la virtù e la potenzia di Dio increato, vivente ed eterno", e che la ripeté in ebraico, in greco e in latino; tuttavia sembra o che si illudesse sulla reale natura degli spiriti che stava evocando, come accadde anche al pur coltissimo John Dee, oppure che abbia cercato di cautelarsi  contro i pericoli della possessione diabolica simulando una cerimonia di tipo religioso, mentre di religioso essa non aveva nulla. Il circolo magico, il pentacolo e altri particolari mostrano chiaramente che si trattava di una operazione di stregoneria, anche se in qualche modo presentata come magia bianca (dato che non si proponeva di compiere il male o di nuocere a qualcuno).

In effetti, la distinzione fra magia bianca e magia nera, così come quella fra mago e stregone in senso stretto, è spesso difficile e aleatoria, come ha ben rilevato anche Grillot De Givry, uno dei più seri studiosi moderni delle scienze occulte, nell'ambito della cultura europea.

 

A fianco  (…) dei cercatori impegnati nel mistero, che deliberatamente avevano intrapreso la via del male, esistevano numerosi cultori di segreti occulti e di formule prestigiose, i quali, pur vivendo al margine della vita comune - in questo simili agli stregoni - mettevano o volevano far credere di mettere la loro scienza al servizio della buona causa.

"Tralasciando dunque definitivamente il sabba e le sue pratiche malefiche, pericolose e spesso nauseabonde, ci proponiamo ora di studiare un complesso di dottrine e di segreti appartenenti a una categoria d'individui che, essendosi rifiutati di nuocere in qualsiasi modo al prossimo, si propongono invece di essergli utile e di portargli addirittura un aiuto pratico. Costoro, opposti agli stregoni e talvolta anzi loro nemici professi, erano i maghi e gli adepti.

"Non ci nascondiamo per la verità il carattere arbitrario e artificiale di una tale classificazione; la distinzione s cui essa si basa è molto fragile  e troveremo ancora più d'una volta sul nostro cammino streghe e stregoni che si dedicano forse a operazioni innocue ma che, non appena ricevono il segnale del sabba, le abbandonano per prendere il volo. La teologia d'altronde, gelosa delle sue prerogative e del suo monopolio del divino, si rifiutava di riconoscere che potesse derivare un qualsivoglia bene da pratiche ch'essa disapprovava senza nemmeno esaminare, attribuendole tutte indistintamente al nemico giurato di Dio, a Lucifero o a Satana, al demonio comunque, qualsiasi fosse il nome che gli si volesse dare; essa metteva volentieri in un sol fascio, colpendoli indistintamente con la sua condanna, maghi e streghe, che respingeva, scomunicandoli per sempre,  fuori della Chiesa del Cristo, senza preoccuparsi di considerare le buone intenzioni da cui essi si dicevano animati." (4)

 

Un esempio di maghi che si professavano nemici delle streghe e degli stregoni e che si prefiggevano il compito di difendere i raccolti e la fertilità dei campi contro le male arti di costoro, è offerto dai cosiddetti benandanti. Si trattava di sedicenti adepti della magia bianca, nelle sue forme popolari e contadine, che furono attivi nel Friuli tra la fine del XVI secolo e la prima metà del XVII, finché, caduti in sospetto da parte della Santa Inquisizione, scomparvero, non senza aver assunto - imprevedibilmente, ma non troppo - le sembianze dei loro odiati nemici: gli stregoni, appunto. Ci ripromettiamo di tornare altra volta sull'argomento, del resto già studiato in un libro ormai classico dello storico torinese Carlo Ginzburg. (5) Qui ci basta, per ora, aver sottolineato l'estrema difficoltà di tracciare una netta linea di separazione tra magia nera e magia bianca e, quindi, anche fra necromanzia "buona" e cattiva, ossia diabolica.

Tornando, perciò, all'episodio riferito da Benvenuto Cellini nella sua autobiografia, non possiamo non restare in dubbio circa le vere intenzioni e la vera prospettiva entro cui si muoveva il prete siciliano, cui egli si era affidato per interrogare gli spiriti intorno al futuro del suo amore per la bella Angelica. Già il fatto che si trattasse di un prete appare estremamente sospetto, anche se siamo informati che la cosa non era da considerarsi affatto eccezionale. In ogni caso, il fatto che un prete della chiesa cattolica di giorno celebrasse la santa messa e di notte, armato di pentacolo e di libri di stregoneria, evocasse i demoni, getta una luce non proprio rassicurante sulla ortodossia di una parte del clero dell'epoca.

È stato osservato, giustamente, che da secoli la chiesa cattolica - con la sua teologia parzialmente dualista, ma soprattutto con le raffigurazioni scultoree delle cattedrali - aveva instillato, e sia pure involontariamente, una malsana curiosità nei fedeli circa le cose dell'altro regno, contrapposto a quello divino. Sarebbe stato strano che tutto il gran parlare del Demonio, che si fece nei lunghi secoli del Medioevo ed oltre, non sortisse quale effetto di irrobustire la propensione a trasgredire gli insegnamenti della chiesa stessa, rivolgendosi al Diavolo laddove Dio - nelle carestie, nelle pestilenze o anche solo nelle normali difficoltà della vita - sembrava indifferente o impotente ad  esaudire le preghiere degli uomini. Ed è altrettanto chiaro che il ceto più predisposto, per motivi culturali e psicologici, a intraprendere una simile trasgressione, era appunto il clero; e non solo il basso clero, poiché i verbali dei tribunali dell'Inquisizione ci parlano anche di procedimenti e condanne a carico di vescovi e abati.

Vi sono, comunque, nell'episodio riferito da Cellini, alcune cose che non quadrano, per cui non è escluso che una parte almeno del racconto sia da attribuirsi alla robusta e sbrigliata fantasia dell'autore stesso, nonché al suo caratteristico bisogno di stupire il lettore e di mettersi particolarmente in evidenza. Ad esempio, si ha l'impressione che, nella seconda cerimonia notturna - la più drammatica delle due che ebbero luogo nel Colosseo - solo il ragazzino dodicenne abbia visto chiaramente l'esercito di demoni e di giganti che assediava, agitandosi minaccioso, il circolo magico entro il quale si stringevano l'un l'altro, tremando di paura, gli apprendisti stregoni. Come mai?

A dispetto di ciò, nel racconto di Cellini si respira - e ciò non è in contraddizione con quanto detto sopra - una certa aria di cosa vista e vissuta, un realismo inconfondibile e addirittura, ad un certo punto, francamente grossolano. Perciò, tutto sommato, noi propenderemmo per collocare l'esperienza necromantica di Cellini fra quelle realmente vissute dall'inquieto artista rinascimentale, che non era tipo da tirarsi indietro davanti a una proposta come quella dell'ambiguo sacerdote siciliano. Si trattava, lo ripetiamo, di una pratica assai diffusa in tutta Europa, e che toccò il culmine proprio nel tardo Cinquecento e all'inizio del Seicento.

Ci affidiamo ancora una volta, per concludere l'argomento, alla penna di Grillot De Givry e richiamiamo il lettore alla famosa stampa inglese del 1700 che rappresenta John Dee ed Edward Kelly intenti a interrogare lo spirito di un morto, dopo averlo evocato, di notte, in un cimitero, stando ben protetti all'interno di un circolo magico. (6)

 

"la stampa più interessante che conosciamo, relativa alla necromanzia, è un'illustrazione inglese del XVIII secolo, di Ames, da un disegno di Sibly, e recante la seguente scritta: «Edward Kelly, a magician in the act of evoking the spirit of a deceased person». Questa incisione è stata di nuovo magistralmente incisa da un artista anonimo e posta sul frontespizio della Histoire curieuse etpictoresque des Sorciers di Mathieu Giraldo, Parigi, 1846. Non si tratta di un'opera di pura fantasia, ma ha invece una base di realtà storica: i due stregoni che hanno operato l'evocazione d'un morto e sono riusciti a farlo emergere dalla terra davanti a una tomba, colcopro avviluppato in un sudario, la testa circondata da bende, sono l'uno il dottor John Dee, astrologo della regina Elisabetta, alchimista, matematico e geografo; l'altro Edward kelly, bizzarro personaggio accusato di truffa, ma che invece era certamente un medium e che, a quanto sembra, esercitò una notevole influenza su John Dee. Operatore vero e proprio dell'evocazione è Kelly, che tiene in mano bacchetta e libro, mentre John Dee, indubbiamente più colto in tutti gli altri campi ma meno coraggioso in questa contingenza e meno dotato di spirito d'iniziativa, si accontenta di reggere la torcia che fa loro luce e sembra inorridito dal risultato ottenuto, che invece non scompone minimamente Kelly, sempre molto sicuro di sé. Il cerchio in cui si trovano i due personaggi è molto simile a quello che abbiamo riprodotto(…) e in esso si leggono molto facilmente le parole EO, Raphael, Rael Miraton, Tamiel, Rex, inframmezzate da croci e ancore, il che sta a indicare che l'evocazione dei morti seguiva più o meno le stesse norme dell'evocazione del diavolo, mettendo solamente al posto di quest'ultimo il nome del defunto.

"Non è facile determinare in quale epoca della vita di John Dee si debba situare tale evocazione; sebbene questo scienziato, per un caso piuttosto raro nel XVI secolo,  e anche in quello seguente, abbia lasciato un 'diario' o giornale intimo della sua vita in vari frammenti, non sembra vi abbia citato quest'avventura. Si sa con certezza che operò evocazioni di demoni nelle città di Cracovia e di Praga, dove si era recato con Edward Kelly e ci ha lasciato un resoconto circostanziato di queste pratiche nel suo libro A true and faithful relation of what passed for many years between doctor John Dee and some spirits, uscito nel 1579 e di cui abbiamo tradotto importanti passi nella nostra Anthologie de l'Occultisme, ma in cui non si fa cenno a evocazioni di morti. D'altro canto, il cimitero in cui avviene l'episodio è indiscutibilmente inglese, con una chiesa in stile Tudor ricoperta di edera e con dintorni romantici. Bisogna dunque concludere che questa macabra avventura ebbe inizio verso la fine del 1582, all'inizio dei rapporti tra John Dee ed Edward Kelly, quando ambedue si trovavano a Londra. Non sembra che dopo il suo ritorno da Praga nel 1589 John Dee abbia più rivisto Kelly." (7)

 

 

NOTE

 

1)      Benvenuto Cellini, La vita, Novara, Istituto Geografico De Agostani, 1983, pp. 170-174.

2)      Cfr. 1 Samuele, 28, 7-25.

3)      Cfr. Peter French, Vita di John Dee. Il mondo di un mago elisabettiano (titolo originale: John Dee. The world of an Elisabethan magus, Londra, 1972), traduzione italiana di Raffella Venarucci, Ancona, Transeuropa, 1998.

4)      Grillot De Givry, Il tesoro delle scienze occulte (titolo originale: Le musée des sorciers, mages et alchimistes; traduzioni italiane Milano, Sugar, 1968, e Milano, Arnoldo Mondadori, 1976, pp. 163-164.

5)      Cfr. Carlo Ginzburg, I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Torino, Einaudi, 1966.

6)      La stampa, a colori, è riportata anche sulla copertina della edizione italiana dell'opera classica di H.T. F. Rhodes, La messa nera, Milano, Sugar Editore, 1972.

7)      Grillot De Givry, Op.cit., pp. 129-130.