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Alle radici dell'inquietudine femminile contemporanea: Marina Di Malombra

di Francesco Lamendola - 29/01/2008

 

 

 

 

Ci siamo occupati della figura inquietante di Fosca, la protagonista dell'omonimo romanzo dello scapigliato Iginio Ugo Tarchetti, nel precedente articolo Nella  lotta  con l'angelo  deforme è  in  gioco  la  salvezza  della  nostra  anima.

Giorgio, il protagonista del romanzo, si innamora inspiegabilmente (anche per sé steso) di una donna dalla orribile magrezza e afflitta da una strana e incurabile malattia psico-somatica, a metà fra l'isteria e l'epilessia: Fosca, appunto. La potente originalità di questa figura femminile, dolente e disperatamente solitaria, emerge dall'incontro-scontro di lei con Giorgio, il quale ne è, contemporaneamente, attratto e respinto, come da una forza invincibile, in quella che il critico Enzo Siciliano ha definito "la lotta con l'angelo deforme" (alludendo all'episodio biblico della misteriosa lotta notturna di Giacobbe con l'angelo).

Ma chi è, propriamente, l'angelo funesto col quale Tarchetti ha lottato per tutta la vita? Non è semplicemente l'ossessione erotica, e nemmeno il binomio Eros-Thanatos, che pure percorre come un filo rosso tutta la sua opera narrativa; se così fosse, non ci troveremmo di fronte a nulla di particolarmente originale. Che amore e morte siano passioni complementari, la poesia lo sapeva già da millenni: da Saffo, da Catullo, da Virgilio; solo la scienza - la  psicologia  - se n'è accorta buona ultima,  quando ormai era il segreto di Pulcinella. No: Tarchetti non ha semplicemente gettato un fascio di luce sulla zona oscura dell'amore; ha fatto molto di più: ha mostrato come i meccanismi assurdi della modernità spingano verso la luce le creature delle tenebre che si agitano nelle zone più basse del nostro subconscio.

Fosca è del 1869. Dodici anni dopo, un altro scrittore italiano, di tutt'altra formazione e di tutt'altri interessi spirituali - eppure, per certi aspetti, stranamente affine a Tarchetti -, il cattolico e "modernista" Antonio Fogazzaro, ci ha lasciato un altro indimenticabile ritratto femminile che esercita su di noi, come esercitò sul suo sfortunato amante, Corrado Silla, uno stranissimo binomio di attrazione e repulsione: Marina di Malombra.

Infatti, sin dal suo apparire, nel lontano 1881, il romanzo Malombra dello scrittore vicentino destò vivo interesse e accese discussioni fra il pubblico e la stessa critica. La maggior parte di quest'ultima non lo accolse favorevolmente; mentre Verga, che da alcuni anni (dal 1874, con la novella Nedda), era passato dalla fase erotico-sentimentale della sua produzione a quella, più matura, del verismo, lo definì subito un libro notevolissimo; uno di quei libri - aggiungiamo noi - che, in un certo senso, segnano la loro epoca.

E aveva ragione Verga, contro il parere dei critici paludati; anche se Fogazzaro non è stato un grande scrittore; anche se non possedeva quelle doti di pensiero e di stile che contraddistingono l'artista veramente creatore. Ma la giovane Marina di Malombra, la protagonista del suo romanzo, in un certo senso è stata una creazione più grande del suo stesso autore; perché in lei Fogazzaro aveva saputo cogliere i segni premonitori di una crisi epocale. Sbaglierebbe chi, leggendo questo romanzo del tardo Ottocento, vedesse in lei, semplicemente, una improbabile figura di donna sospesa fra  tardo romanticismo, verismo e primi presagi del decadentismo; una delle tante eroine banali di storie esagerate e melodrammatiche, con le quali gli scrittori dell'epoca venivano incontro ai segreti desideri di trasgressione di un pubblico d'ordine, borghese e benpensante.

No; nel personaggio di Marina c'è anche questo aspetto, che emerge specialmente nella scena finale dell'assassinio dell'amante, Corrado, giovane scrittore sconosciuto, in cui si agitano e si scontrano pulsioni idealistiche e religiose (la radicale crisi religiosa di Fogazzaro, sfociata nel ritorno al cattolicesimo, risale al 1860) e pulsioni erotico-estetizzanti. Ma c'è anche molto di più: ci sono un'atmosfera torbida e sensuale e una spinta all'autodistruzione, alla degradazione, che sta fra gli echi della Scapigliatura e i presentimenti della grande stagione simbolista; e, soprattutto, una inquietudine, una tensione cerebrale, una fragilità nervosa e una disperata frustrazione che sono, tutte, estremamente moderne.

Marina ricorda da vicino la Polina de Il giocatore di Dostojewski, e anche la Katerina Ivanovna de I fratelli Karamazov: altera, superba, intelligente, bella di una bellezza alquanto algida e scostante; e, al tempo stesso, tormentata da cento demoni e da cento fantasmi; dilaniata da passioni impetuose che, per orgoglio, cerca di soffocare entro di sé o, almeno, di dissimulare; irresistibilmente attratta verso la sofferenza, la tortura auto-inflitta, la disgregazione del proprio io e l'umiliazione suprema del proprio atavico orgoglio.

Su di lei incombe, fin dall'inizio, un'atmosfera da antica tragedia greca; un'aura maligna la circonda, la avvolge, la accompagna passo dopo passo, giorno dopo giorno, verso l'ineluttabile caduta; su lei pesano le nuvole opprimenti della claustrofobia spirituale, dell'isolamento morboso, del masochistico piacere d'infliggersi la peggior forma di infelicità. Moderna, assolutamente moderna, è Marina di Malombra: nella sua cultura che non le apre gli orizzonti dello spirito; nella sua raffinatezza che non è lo specchio di un equilibrio raggiunto e conquistato; nella sua alterigia che non nasce dalla consapevolezza della propria forza, ma dal terrore della propria debolezza; negli atteggiamenti di sfida che sono, in fondo, altrettante invocazioni, mal dissimulate, d'aiuto e di soccorso; nel suo richiudersi su se stessa, inesorabile, come conseguenza della percezione della propria fondamentale inadeguatezza.

Come Anna Karenina, Marina è spaventata dalla vita; ma, a differenza dell'eroina di Tolstoj, il suo spavento non nasce da una consapevole infrazione al codice sociale dominante, da una ribellione intenzionale alle leggi non scritte, ma inflessibili, della rispettabilità borghese. È spaventata dalla vita in un senso più ampio, più radicale, più "ontologico"; o, almeno, dalla vita così come si va configurando nella esordiente società di massa. Aristocratica per temperamento prima ancora che per nascita o per scelta, ella rappresenta l'impossibilità di adeguarsi ai nuovi stili e ai nuovi ritmi della borghesia imprenditoriale; c'è, in lei, qualche cosa di antico, di obsoleto, di irrimediabilmente superato, come le care, vecchie cose di pessimo gusto di Guido Gozzano, ma senza l'ironia salvifica che percorre le pagine dello scrittore decadentista torinese.

E si capisce. Fogazzaro appartiene al Veneto profondo, al Veneto che rimase austriaco fino al 1866, al Veneto cattolico che ha dato tanti santi e tanti uomini di chiesa, ultimo quel Pio X che si scaglierà con violenza contro il modernismo, provocando nello scrittore vicentino una drammatica crisi di coscienza, che sarebbe culminata nella sottomissione al magistero ecclesiastico, lasciando però nel suo animo ferite profonde, mai del tutto risanate. In Marina, dunque, coesistono il desiderio della trasgressione e il dilaniante senso della colpa; la fedeltà alla morale ricevuta dall'educazione e la spinta verso il proibito, il sensuale, il peccaminoso.

E tutto è ciò è straordinariamente moderno; più moderno, forse (anche se, in apparenza, più "datato") della furia carnale della "Lupa" di Verga, della follia sadica e omosessuale della Ninì di Pratolini, della virile, inesauribile forza d'animo dell'Andreana di Moretti. Per trovare un personaggio femminile che le stia alla pari, per disperata vocazione alla solitudine radicale e per l'incolmabile divario fra i sogni bovaristici e la coscienza della propria impotenza, bisogna arrivare alla scultorea, indimenticabile Adriana Mesurat di Julien Green; e, in misura minore, alla stanchezza e al progressivo inaridimento della Gisella di Carlo Cassola. Non è tanto importante la parentela nella malattia mentale, che conduce tanto Marina di Malombra quanto Adriana Mesuerat a commettere un delitto senza redenzione; quanto la parentela psicologica e spirituale nella solitudine, nell'orgoglio senza sbocchi, nel vano fantasticare che dissimula una fondamentale incapacità - o impossibilità - di accettare la vita così com'è.

Ecco, allora, che anche la specifica malattia mentale da cui è afflitta Marina, ossia la convinzione di essere la reincarnazione  di una sua antenata, Cecilia, che per un peccato d'amore era stata segregata a vita dal marito, e che ora ella vuol vendicare nelle persone dello zio (che lei crede il marito di Cecilia) e, poi, anche di Corrado (che lei crede la reincarnazione dell'antico amante) diventa un elemento non già convenzionale e secondario, ma - in un certo senso - la metafora di un male molto più profondo e sconosciuto, che affonda le radici nella nuova condizione della donna all'interno della società borghese, industriale, di massa.

Da questo punto di vista, il fatto che ella provochi la morte sia dello zio Cesare, sia dell'amante Corrado, non va visto alla luce del classico archetipo baudelairiano della donna-vampiro, distruttrice degli uomini che incontra nella vita; quanto alla luce di una furia distruttiva che, oltre ad essere eterodiretta, finisce inevitabilmente per ritornare a lei come un boomerang; e, dunque, come una preparazione e una sorta di prova generale dell'ultimo e definitivo delitto: quello contro se stessa.

La sua unica salvezza sarebbe quella di gettare le proprie paure e le proprie angosce tra le braccia di un uomo virile, che la sappia proteggere, rassicurare, pacificare con la parte sofferente e più profonda del suo io; che l'aiuti ad affrontare, uno ad uno, i fantasmi che si agitano dentro di lei, implacabili come le Furie della mitologia antica. Ma ciò non avviene, e la ragione va ricercata, molto probabilmente, nella stessa "astuzia" del suo istinto femminile: istinto di malata che non vuol guarire, di naufraga che non vuol essere salvata; che vuole, al contrario, perdersi.

Si potrebbe ragionare a lungo sulla inadeguatezza degli uomini che fanno da interlocutori a questi dolenti personaggi femminili: Fosca, Marina di Malombra, Adriana Mesurat, Gisella; per non parlare dei personaggi femminili di Francis Scott Fitzgerald, a cominciare dalla moglie del protagonista di Tenera è la notte (ove, però, si consuma una vendetta alla rovescia: la donna, malata di depressione, lentamente guarisce, mano a mano che il suo medico-marito sprofonda nella malattia e nell'autodistruzione). Si potrebbe, cioè, individuare nella loro perplessità esistenziale tutta moderna, nella loro sveviana "inettitudine", nella loro mancanza di virilità, il dramma delle loro mogli, amanti, amiche, costrette a fare i conti con un universo maschile che non offre più rassicuranti certezze, proprio mentre la società sembra esigere da esse un di più di lavoro, d'impegno, di responsabilità, che si aggiunge a quelli tradizionali legati alla maternità e alla cura della casa.

Ma il punto, crediamo, non è questo.

Marina si perde perché, come abbiamo già detto, in fondo al suo essere desidera perdersi (e poco importa il come: nelle ultime pagine del romanzo la vediamo allontanarsi, a forza di remi, sull'orizzonte cupo del lago del Segrino, in Brianza: forse finirà annegata, forse si getterà in una forra della riva opposta, tra boschi e rocce). Desidera perdersi perché nell'autodistruzione intuisce la sola via di fuga che le rimane aperta dinanzi; e, forse, la sola possibile catarsi, la sola possibile redenzione, dopo che né Dio né gli uomini hanno potuto o voluto salvarla. Il fantasma che la possiede - l'ossessione di essere la reincarnazione dell'antenata Cecilia e di avere come scopo di vita la vendetta contro lo zio, il conte Cesare d'Ormengo - non è che la condensazione di un altro fantasma, consustanziale alla sua anima: la consapevolezza della propria inettitudine e la lotta incessante fra il desiderio di felicità e la volontà di auto-punizione: non per una specifica azione, ma per il fatto di esistere.

C'è una breve scena notturna, nell'antico palazzo ove ella vive sepolta (e che poi è la Villa Pliniana sul Lago di Como, ove Mario Soldati girerà, nel tragico 1942, una bellissima versione cinematografica del romanzo), che bene illustra l'angoscia esistenziale di Marina e l'errore da lei commesso affidandosi a un amante ancor più di lei, se possibile, insicuro e bisognoso di conforto e protezione (Milano, Mondadori, 1931; 1965, pp. 301-302):

 

"marina discese lentamente, con piedi silenziosi di fata, in mezzo alla larga scala semioscura. Silla le teneva dietro, stretto alla gola da emozioni inesprimibili, quasi cieco. Ancora un momento e sarebbe stato solo con lei, nella notte.

"La porta a vetri che mete in guardino era spalancata. Il lune del vestibolo, oscillando all'aria notturna, mostrava di fuori un lembo di ghiaia rosea; presso all'uscio, presso una sedia, lo scialle bianco di Marina. Ella lo porse a Silla, si fermò perché glielo posasse sulle spalle. Le loro mani si incontrarono; eran gelate.

"«Fa freddo»,disse Marina, stringendosi lo scialle sul petto. Pareva un'altra voce; quasi tremante. Silla non rispose; credeva ch'ella gli sentisse il cuore a battere. Le posò un momento le mani alle braccia quasi per ravviarle lo scialle. Ella trasalì; le spalle, il seno le si sollevarono.  Uscì senza dire parola, fece una cinquantina di passi nel viale e s'appoggiò alla balaustrata, guardando il lago.

"La notte era oscura. Poche stelle lucevano nel cielo nebbioso fra le enormi montagne nere che affondavano l'ombre nel lago. Il gorgoglio delle fontane, il canto lontano dei grilli nelle praterie, andavano e venivano col vento.

"Silla non vedeva che la elegante figura bianca, curva sulla balaustrata presso a lui.

"«Cecilia» disse piano accostandosele.

"Ell'appoggiava il mento alle mani congiunte. Ne stese una a Silla senza voltar la testa,, e gli disse appassionatamente:

"«Sì, mi chiami sempre così. Si ricorda?»

"Egli strinse con ambedue le proprie quella mano di raso odoroso. Temeva di esser freddo, di non aver neppur sensi in quel momento. Se la recò alle labbra, ve le impresse, veementi, sul polso.

"«Mi dica: si ricorda?» ripeté Marina.

"«Oh, Cecilia!» diss'egli. Le voltò la mano, vi abbassò rapidamente il viso sul palmo, se la serrò sugli occhi, parlò convulso:

"«Non v'è più mondo, se sapesse, per me! Non vi son parenti, né amici, né passato, né avvenire; niente, niente; non v'è che Lei; mi prenda, mi prenda tutto!»

"Voleva esaltarsi e vi riusciva. Si trasse quel piccolo palmo sulla bocca; pensò alla propria vita amara, al mondo ingiusto, vi soffocò uno spasimo di passione che dovette entrar nel sangue di lei, attraversandolo sino al cuore.

"«No, no», diceva ella con voce interrotta, mancante, «adesso no».

"avevan la febbre tutti e due."

 

Povera Marina!

Cercava sicurezza e protezione presso un uomo che, ben lungi dal potergliele dare, ne aveva bisogno egli per primo; e che si offriva a lei come, di solito, una ragazza si offre a un amante ("Mi prenda, mi prenda tutto!"). Eppure è giovane, bella, alta, intelligente, colta e, infine, ricca: potrebbe far innamorare qualsiasi uomo. Perché dunque  sceglie così male la persona con cui confidarsi, con cui aprirsi, sulla quale appoggiarsi?

Fondamentalmente, la risposta è che Marina, nonostante le apparenze sembrino indicare il contrario, non ha alcuna autostima. Ma è troppo orgogliosa per ammetterlo, anche con se stessa; perciò si condanna, con le proprie mani, a ripetere i medesimi errori, a ricadere nelle stesse situazioni false, dalle quali ricaverà solo sofferenza e ulteriore solitudine.

Tutto ciò, lo ripetiamo, è terribilmente moderno. La società odierna è popolata da innumerevoli donne simili a Marina di Malombra: giovani, belle, intelligenti e terribilmente sole, inguaribilmente infelici.