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Lettera dall'isola che non c'è

di Sami Muhy al-Din al-Hajj - 11/01/2006

Fonte: peacereporter.net

Dopo quattro anni a Guantanamo, un sudanese si sfoga con il suo avvocato
  
  
  
 
 
Il sudanese Sami Muhy al-Din Hajj è stato arrestato nel novembre 2001 in Afghanistan, mentre lavorava come cameraman per conto dell'emittente qatariota Al Jazeera. E' detenuto nella base statunitense di Guantanamo da ormai quattro anni, senza che un'accusa precisa sia stata formulata contro di lui, come le centinaia di altri detenuti genericamente definiti "nemici combattenti" nella guerra al terrorismo. Questa è una lettera che ha scritto recentemente al suo avvocato, l'inglese Clive Stafford-Smith.
 
Caro Clive,
Permettimi di confessarti una cosa. Non posso fare a meno di continuare a chiedermi: “Perché mi puniscono?” Questa domanda mi ossessiona, non riesco a togliermela dalla testa. La mia storia di punizioni è cominciata alla prigione di Bagram. Avevamo il permesso di andare al bagno solo due volte al giorno: la prima subito dopo l’alba e la seconda prima del tramonto, e ciascuno doveva attendere il proprio turno. Ricordo una volta in cui ne avevo veramente l’urgenza, e sussurrai all’orecchio della persona che era davanti a me di lasciarmi passare avanti. Allora il soldato di guardia mi urlò rabbiosamente: “Non parlare,” e mi ordinò di uscire. Mi legò le mani con del filo di ferro e mi lasciò là fuori tutto il giorno a tremare di freddo, tanto che dovetti orinarmi addosso provocando l’ilarità dei soldati e delle puttane. Poi, a Kandahar, in piena estate, con il sole bruciante e la terra bollente, un soldato gridò: “Tu, fermati, e anche il secondo, il terzo e il quarto! Perché parlate? Mettetevi in ginocchio, le mani sulla testa”. Noi obbedimmo e lui ci lasciò lì, sotto quel sole torrido, le ginocchia sulle pietre roventi, finché uno di noi non svenne e gli altri andarono a soccorrerlo.
 
Una settimana dopo il nostro arrivo a Guantánamo un mattino presto i soldati arrivarono e ordinarono ai detenuti di mettere le braccia attraverso l’apertura usata abitualmente per far passare il cibo: dissero che volevano farci l’iniezione antitetanica. Quando venne il mio turno li informai che prima di partire da Doha mi ero fatto vaccinare contro il tetano, la febbre gialla, il colera e le altre malattie e che secondo il medico questi vaccini erano validi cinque anni. Dunque non dovevo rifarli. L’ufficiale mi urlò di non mettermi a discutere: “Metti fuori il braccio per il vaccino, o te lo tiriamo fuori a forza,” disse. Io mi rifiutai di farlo. Per un po’ mi lasciarono in pace, ma ritornarono dopo aver finito con gli altri. Io continuai a non accettare di rifarmi vaccinare. Allora mi requisirono tutto, dal materasso allo spazzolino da denti, e mi costrinsero a dormire per terra per tre giorni e tre notti. E io continuavo a chiedermi: perché mi puniscono? Dobbiamo per forza prendere le medicine? Siamo diventati improvvisamente un gregge di pecore? Dobbiamo accettare tutto senza discutere, senza fare la minima obiezione e senza sapere nulla di quello che ci accade?”.
 
Ma mi è successo di peggio. Una sera mi coricai molto presto. Ero esausto dopo essere stato interrogato per ore. Mi svegliarono le grida e gli ordini dei soldati: “Tira fuori la testa e le mani da sotto la coperta”. Mi svegliai di soprassalto e mi affrettai a obbedire. In effetti ci avevano proibito di dormire con la testa o le mani sotto la coperta. Mi ero appena riaddormentato quando il soldato venne a picchiare violentemente sulla porta della mia cella e gridò: “Perché hai messo il dentifricio al posto dello spazzolino?” Mi accusò di disobbedire deliberatamente alle leggi e ai regolamenti militari e mi ordinò di raccogliere le mie cose. Fui punito per un’intera settimana. Era una ragione sufficiente per punirmi, requisire tutte le mie cose e farmi dormire una settimana per terra, senza materasso né coperte?”.
 
Un’altra volta stavo facendo colazione, che consisteva in un barattolo di cibo freddo. Quando ebbi finito di mangiare, un soldato venne a raccogliere i resti del pasto e i sacchetti di plastica. Si fermò sulla porta della mia cella e cominciò a contare i pezzi di plastica e a metterli insieme. All’improvviso si mise a gridare: “Dov’è il pezzo che manca?” Io cominciai a frugare tra le mie cose, invano. Allora andò a riferire la cosa ai suoi superiori e ritornò con questa sentenza: meritavo una punizione che servisse da esempio per gli altri detenuti. E così mi requisirono le mie cose per tre giorni, e ritornò la vecchia domanda: “Perché mi puniscono, cosa mai avrei potuto fare con quel pezzetto di plastica introvabile?”.
 
Un’altra volta la provvidenza fece sì che finissi nello stesso blocco di detenzione con Jamel dell’Uganda, Mohamed del Ciad e il britannico Jamel Blama. Ci univa non solo la prigionia, ma anche il colore della pelle e l’odioso colore della tuta arancione dei detenuti. La nostra pelle nera era una ragione sufficiente perché i guardiani bianchi si accanissero contro di noi e ci punissero senza motivo. Spesso ci svegliavano nel mezzo della notte con il pretesto di perquisire la gabbia. Una notte mi svegliarono per un’altra perquisizione. Non trovarono niente di sospetto... a parte tre chicchi di riso per terra che avevo conservato per le formiche. Stavolta mi punirono per sette giorni. Ancora una volta ne approfittai per chiedermi ossessivamente: “Perché mi puniscono?” Non riuscivo a capire come tre chicchi di riso e quattro formiche potessero costituire un motivo sufficiente.
 
Un’altra notte due soldati si fermarono davanti alla porta della mia gabbia. Avevano con sé delle catene e delle manette. Quando bussarono violentemente alla porta mi svegliai in preda al terrore. Mi ammanettarono e mi condussero al blocco Romeo, dove mi misero in una gabbia dopo avermi spogliato di tutto lasciandomi con la sola biancheria intima addosso. Nient’altro, nemmeno il sapone o lo spazzolino da denti. Chiesi inutilmente una spiegazione per quella punizione. Qualche tempo dopo, mi fu detto che ero stato condannato a passare due settimane in isolamento perché un soldato aveva trovato un chiodo sul bordo esterno dell’apertura d’aerazione della mia cella! Allora chiesi: “Come mi sarei procurato quel chiodo e come avrei fatto a metterlo sul bordo esterno dell’apertura, e perché?” Ma si voltarono e se ne andarono, ignorando le mie domande. E così passai là 14 giorni seduto, evitando per pudore di dire le preghiere perché ero seminudo, e dormii per 14 fredde notti invernali per terra, senza coperte né materasso.
 
I tormenti e le provocazioni dei soldati si moltiplicarono e peggiorarono. Una volta venimmo a sapere che un soldato aveva calpestato il Sacro Corano, sporcandolo con le impronte dei suoi scarponi. I detenuti si ribellarono e decisero di restituire le copie del Sacro libro all’ufficio dell’amministrazione per evitare che fossero profanate sotto i nostri occhi. Il comandante del campo promise che non sarebbe più accaduto. Ma la promessa non fu mantenuta. I detenuti allora decisero di non lasciare le loro celle, nemmeno per andare a fare la passeggiata e la doccia di cui avevano tanto bisogno, finché tutte le copie del Sacro Corano non fossero state raccolte. Com’era loro abitudine, i responsabili vennero subito a urlare ordini e minacce. Fecero uscire le spietate unità antisommossa, che aprirono le gabbie e si misero a picchiare i detenuti, li incatenarono e li ammanettarono. Tagliarono loro i capelli, la barba e i baffi e li gettarono in isolamento.
 
Arrivò anche il mio turno. Mi spruzzarono del gas negli occhi, fui picchiato e gettato a terra. Uno di loro mi afferrò la testa e cominciò a sbatterla contro il pavimento di cemento. Un altro mi diede un calcio in faccia, causandomi un taglio da cui presto cominciò a uscire molto sangue. Tutto questo accadde mentre ero steso a terra, ammanettato e incatenato. Mi tagliarono capelli, baffi e barba e mi buttarono in una gabbia singola, ricoperto di sangue. Dopo un’ora un soldato venne a chiedermi se mi servivano le cure di un medico. Rifiutai l’offerta e mi raccomandai a Dio, mostrandogli l’ingiustizia dei miei carcerieri. A un certo punto mi accorsi che stavo svenendo, e allora chiesi di essere medicato. Mi misero tre punti di sutura, mi fasciarono la testa e mi diedero dei sonniferi, dicendo che erano degli antibiotici. Il tutto, attraverso un’apertura di pochi centimetri nella porta. Mi addormentai, oppresso dall’ingiustizia terribile di quegli uomini.
 
La mattina del giorno la solita domanda mi tormentava come una maledizione: “Perché ci puniscono? Forse difendere la mia fede e la mia religione è un crimine punibile con il carcere. La nostra richiesta di ritirare le copie del Corano perché non siano profanate sotto ai nostri occhi è un crimine? Perché mi trovo qui? L’esser andato in Afghanistan per quattro settimane con una telecamera per conto di Al Jazeera, per filmare la guerra brutale contro un popolo è anch’esso un crimine per il quale devo essere punito con (fino a qui) più di quattro anni di carcere? E per il quale devo essere accusato di terrorismo?”. Tante domande si affollano nella mia mente, tormentandomi lo spirito e andando ad infrangersi contro tutti gli slogan ingannevoli di cui si gloriano i promotori della libertà, i difensori della democrazia e i protettori della pace in terra.
 
 
 
*cittadino sudanese, è stato arrestato in Afghanistan nel 2001, mentre seguiva la guerra come cameraman per Al Jazeera. Da allora è tenuto prigioniero nella base di Guantanamo.