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I «non luoghi» di Tommaso Moro

di Maurizio Cecchetti - 01/03/2008


 

 P
assò gli ultimi mesi della sua vita, Tom­maso Moro, a pen­sare alla Passione di Cri­sto. E ne trasse scritti co­me
  La tristezza, l’amarez­za, l’angoscia e la preghie­ra di Cristo prima della cattura,
dove il suo genio interpretativo e intuitivo raggiunge intensità scon­certanti. Sono splendide, per esempio, le riflessio­ni che inanella attorno al­l’etimologia di Cedron, il torrente Cedron che attraversa la Val­le che porta all’Orto degli ulivi e che, scrive Tommaso, significa 'triste', 'nera tristezza'. Il Cedron dà il no­me alla valle che attraversa, e lascia su di essa la traccia di quel non-co­lore, il nero, che indica la notte e il peccato. Il Cristo 'annerito' è, per Tommaso, il Cristo insultato, sputa­to, sporcato dalle offese dell’uomo.
  Queste cose Tommaso le scrive nel­la cella che lo vede prigioniero nella Torre di Londra, dopo aver vissuto ai gradi più alti della scena politica in­glese, fino a quel cancellierato da cui si dimetterà, non potendo avvallare la mossa di Enrico VIII di mettersi a capo della Chiesa d’Inghilterra, ed è un capolavoro d’ironia il modo con cui ringrazierà il re per avergli per­messo di dedicarsi soltanto allo stu­dio. Tommaso rifiuta di sottoscrive­re la mossa del re, ma senza clamo­re, e si chiude nel silenzio. Questo però non farà che agevolare l’esito della tragedia. Il 6 luglio 1535 fu de­capitato nella pubblica piazza e la sua testa lasciata per un mese all’a­ria finché la figlia Margaret non poté riscattarla e darle degna sepoltura.
  Questa immagine di testa mozzata ed esposta allo sguardo di tutti, offe­sa indegna di un mondo minima­mente civile, ma certo ancor più in­degna se pensiamo alla grandezza umana della persona cui quella testa apparteneva, mi fa pensare al quadro di Caravaggio del David che mostra la testa di Golia. Golia ha le sem­bianze di Caravaggio, è il suo autori­tratto «in nero» – lo disse un giorno prima di morire, «i miei peccati so­no tutti mortali» – così come dalla nerezza del Cedron esce invece il lu­minoso autoritratto di Moro che si specchia nella passione di Cristo. C’è questa sostanza «personale» anche in ogni lettera di Tommaso, un tono
cordiale, senza eccessive preoccu­pazioni di seguire le regole della re­torica, insomma – come ricorda Francesco Rognoni nella prefazione a questo volume che raccoglie una quarantina di sue lettere – Moro non pratica il «genere letterario» dell’e­pistola, ogni lettera è una risposta al­le diverse sollecitazioni che lo ri­chiedono come padre, amico, pole­mista, teologo, uomo pubblico e quelle più assidue sono rivolte a E­rasmo e alla figlia Margaret, mentre le più impegnate sotto il profilo in­tellettuale e controversista sono quelle in risposta a Martin Dorp o a John Frith: nel primo, prendendo le difese di Erasmo e delle ragioni che ispirarono il suo Elogio della stoltez­za, accusa Dorp di cedere al vizio ac­cademizzante delle controversie teo­logiche di lana caprina, le «que­stioncelle », con l’aggiunta di un bel po’ di perfidia (tantopiù che Dorp e­ra amico di Erasmo e di Moro), men­tre nella lettera a Frith disquisisce in difesa del sacramento dell’Eucaristia che Frith, morto sul rogo nel 1533, tendeva a misconoscere con argo­menti «un bel po’ al di là di Lutero». In questa edizione che vede la luce sotto la cura di Rognoni, in realtà c’è un altro fatto degno di nota: autore della traduzione è quel don Alberto Castelli che fu uno dei pa­dri dell’anglistica italia­na, grande studioso di Shakespeare, di Moro, di Chaucer e di Eliot, stima­to da Mario Praz e da Lui­gi Firpo, docente alla Cat­tolica di Milano per vent’anni, poi chiamato alla responsabilità pasto­rale come vescovo e dal 1954 al ’66 segretario del­la Cei. Le traduzioni di Castelli sono tuttora di ri­ferimento e alcune ven­gono puntualmente ri­stampate. Egli aveva cu­rato nel 1966 un’edizione con 20 let­tere di Moro, una scelta a cui dove­va aver imposto una certa misura mentre altre ne avrebbe potute in­serire che avrebbero dato maggior completezza al quadro umano e in­tellettuale del grande inglese. C’è da dire che quando verso la fine degli anni cinquanta partì l’iniziativa del­la Yale University Press di pubblica­re i Complete Works of Thomas More,
 si auspicava anche un’edizione com­pleta del carteggio, e mentre nel 1997 si è conclusa quella degli scritti au­tonomi di Tommaso, ancora oggi, co­me ricorda Rognoni, manca l’edizio­ne dell’epistolario, così che di riferi­mento resta ancora adesso quella del 1947 della Princeton University Press. Questo dato dice anche l’importan­za per il lettore italiano di questa nuo­va edizione delle lettere tradotte da Castelli, nella quale Rognoni ha rac­colto non solo le venti apparse nel ’66, ma tutte le altre che Castelli tra­dusse fino al 1971, anno della morte. Lo stile di Castelli è straordinaria­mente attento a mantenere le sfu­mature dei toni che di volta in volta Moro adotta nelle lettere: attraverso la traduzione si ha l’impressione di sentire parlare un vivo e si tocca con mano la bravura con cui Moro è di volta in volta libero pensatore, apo­logeta, padre e amico, controversi­sta, si avverte la grazia, la tenerezza, l’ironia ma anche la severità che e­sercita non senza spazientirsi talvol­ta o dispensando straordinarie in­tuizioni di psicologia non soltanto politica o teologica, ma più specifi­camente umana.
  In ultimo due brevi annotazioni: mentre parla della celebre isola, U­topia, ripetutamente la definisce «il mio Nonluogo», ed Erasmo rispon­dendo si adegua parlando del «tuo Nonluogo [
Nusquamae] », termine di sorprendente modernità (mentre per Moro era la dimensione di per­fezione cui tende, con ben altre pro­spettive, l’utopismo moderno, oggi l’antropologo Marc Augé usa quel termine per i luoghi di una vita so­ciale marginale ma decisiva per ca­pire il mondo attuale). Di identica attualità la lettera a William Gonell, sacerdote e precettore in casa More, dove Tommaso spende parole dolci ma anche da paladino della promo­zione umana delle donne a partire da ciò che egli si augura per le sue tre figlie, per Margaret Elizabeth e Cecily, ovvero che crescano nutren­dosi di studi umanistici, cioè eccel­lendo in un’arte tipicamente ma­schile. Ecco, qui il padre parla, ma parla da uomo che sa come la cultu­ra e il sapere siano la strada maestra della promozione umana (all’epoca per tutti, ma tantopiù per le donne). Insomma, un protomanifesto di femminismo coltivato nel segno del­la verità, del bene e della bellezza.
 Tommaso Moro

 LETTERE

 A cura di Alberto Castelli

 Vita&Pensiero. Pagine 438. Euro 25

 Una edizione delle lettere getta nuova luce sulla grandezza morale del filosofo cancelliere messo a morte da Enrico VIII





«Tommaso Moro e la sua famiglia» (stampa del XVI secolo), fototeca Gilardi