Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Riflessione sulla morte: prepararsi a un congedo sereno, senza rimpianti

Riflessione sulla morte: prepararsi a un congedo sereno, senza rimpianti

di Francesco Lamendola - 01/04/2008

 

 

 

Siamo fatti per la vita, eppure la morte ci chiama.

Ci siamo già occupati di questo paradosso, in sede filosofica e religiosa, in alcuni precedenti articoli, quali L'ultimo nemico ad essere sconfitto sarà la morte e La  vocazione   alla  vita  degli  esseri si  realizza  attraverso il  paradosso della  morte (tutti consultabili sul sito di Arianna Editrice).

Ora desideriamo accostarci a questa problematica da un punto di vista più immediato e individuale, cercando di riflettere non sul senso della morte in generale, ma della nostra morte: di quell'evento unico e irripetibile che porrà fine, per ciascuno di noi, alla nostra vita, unica e irripetibile (anche coloro che credono nella reincarnazione, infatti, devono ammettere che la eventuale rinascita non riporterà la nostra vita negli stessi identici termini di "prima").

In particolare, riteniamo che un esercizio di meditazione sulla nostra morte possa essere quanto mai utile ed opportuno per aiutarci a chiarire sempre meglio il senso della nostra vita, nonché per predisporci all'evento della nostra morte nella giusta disposizione di spirito, in modo che esso - unico eventi assolutamente certo dopo la nascita - non ci colga totalmente smarriti e impreparati, come coloro i quali si trovassero di fronte a una eventualità che nulla faceva supporre possibile o anche solo probabile.

Per svolgere una meditazione sulla morte, dobbiamo, in qualche misura - almeno all'inizio - compiere un certo sforzo su noi stessi, perché l'istinto di conservazione è così forte che ci spingerebbe a rifiutare anche solo il pensiero della nostra morte - e, in una certa misura, delle persone a noi particolarmente care. È ben questa la ragione per la quale la grande maggioranza degli esseri umani rifugge istintivamente dall'idea di affrontare a mente fredda una tale meditazione, e tende a considerare come degli iettatori, o poco meno, coloro i quali hanno il "cattivo gusto" di ricordare loro questa semplice certezza: che anch'essi dovranno morire.

Più o meno, il ragionamento dell'uomo comune è, in proposito questo: dato che morire bisogna, perché angustiarsi nel tempo che ci è dato di vivere, anticipando con l'immaginazione le angosce della morte? Meglio star di buon animo e pensare a vivere; a morire, ci penseremo quando proprio non potremo più rimandarlo.

In questo ragionamento vi sono due punti deboli, che è facile mettere in evidenza a chiunque sia dotato di senso comune.

Il primo è che non ci si può preparare adeguatamente a una cosa, se si rinvia all'infinito il momento di prenderla in considerazione. Sarebbe come se uno studente dicesse:«Penserò all'esame il giorno in cui dovrò sostenerlo, e non un minuto prima; per adesso voglio godermi la vita, non sciupare le mie giornate sui libri»; o come se un atleta, poniamo un nuotatore, affermasse:  «Mi preoccuperò della gara quando sarà il momento; per ora, perché dovrei sobbarcarmi pesanti allenamenti in piscina e tenermi a dieta, angustiando i miei giorni prima del tempo?». Sono certamente entrambi atteggiamenti legittimi, ma poco sensati. È evidente, infatti, che le probabilità di affrontare con successo una determinata situazione dipende in primo luogo dal grado  di preparazione che avremo raggiunto nei confronti di essa.

Né giova obiettare che per la morte, essendo la fine della vita, non c'è nulla cui prepararsi; e che essa, a differenza di un esame o di una gara, non darà accesso né a un diploma, né a una vittoria sportiva. Infatti, a prescindere dal fatto che noi non sappiamo - razionalmente parlando - se la morte sia solo la fine della vita o non piuttosto l'inizio di un'altra forma di esistenza, che dipenderà, appunto, anche dal modo in cui avremo saputo vivere e morire, resta la semplice verità che la morte è sicuramente una prova, come lo sono un esame o una gara. Anzi, diciamo pure che è la prova per eccellenza, la prova che fa impallidire tutte le altre prove.

Se questo è vero, ne consegue che - come e più che per qualsiasi altra prova - noi non possiamo sperare di affrontarla con successo, se ci presentiamo all'appuntamento con essa totalmente impreparati.

Il secondo punto debole del ragionamento di coloro i quali si rifiutano di prendere seriamente in considerazione l'idea della propria morte, è che essi danno per scontato, più o meno esplicitamente, che la morte ci si presenti sotto la forma di una conclusione radicale e inappellabile della nostra esistenza e che, pertanto, ogni pensiero ad essa dedicato non sarebbe che una diminuzione volontaria, e autolesionistica, del tempo che ci è dato da vivere, anticipando, per così dire, col pensiero quella sottrazione definitiva che consisterà nella morte fisica.

Tale disposizione nasce da una visione puramente quantitativa del tempo. È come se quelle persone ritenessero di essere alla mercé di un creditore spietato e inesorabile, che un bel giorno pretenderà da loro una cifra così astronomica, che esse non saranno mai in grado di pagarla: perché dunque dovrebbero rovinarsi il piacere della vita, cominciando fin da ora a versare qualche centesimo - racimolato a fatica - a quel creditore smodato e crudele? Sarebbe un sacrificio inutile, perché non varrà a diminuire l'ammontare della cifra esorbitante che, alla fine, verrà loro chiesto di restituire, e servirà solo a impoverirli nelle loro presenti necessità.

Eppure, tutti sappiamo che il tempo veramente significativo della nostra vita non è quello cronologico, ma quello interiore; non quello quantitativo, ma quello qualtitativo. Tutti sappiamo, o ne abbiamo fatto l'esperienza, che cinque minuti accanto alla persona amata possono valere una eternità, mentre venti anni trascorsi in una condizione insoddisfacente ci sembrano meno degni di essere vissuti.

Per convincersene, basta richiamarsi all'esperienza dei poeti o, meglio ancora, dei bambini. Per il bambino, i cinque minuti in cui la mamma o il papà siedono sul bordo del loro lettino, alla sera, e raccontano loro una  bella fiaba, non rappresentano affatto una unità di tempo quantificabile e oggettivabile. Si tratta, invece, di una situazione in cui la fantasia e l'affettività dilatano i confini del tempo e dello spazio e proiettano la coscienza in un'altra dimensione, dove non esistono orologi che scandiscano i minuti, né meridiani e paralleli che delimitino lo spazio; ma draghi, principesse, streghe e principi azzurri, ossia creature di un altro mondo le quali - ecco il prodigio! - fanno irruzione nel qui-e-ora, portando, come un soffio possente di vento, il presentimento - anzi, la certezza - che esistono altre cose fra il cielo e la terra, che i sensi ordinari e la ragione raziocinante non sanno neppure immaginare.

 

Dunque, la morte; meglio: la nostra morte.

Uno dei libri più interessanti su tale argomento è quello scritto, a quattro mani, dai coniugi Anne-Marie e Reinhard Tausch, Allora potrò «partire» serenamente. Così la morte ci insegna a vivere (titolo originale; Sanftes Sterben, Reinbek bei Hamburg, 1985; traduzione dal tedesco di Raffaele Cavaliere, per l'Editrice Città Nuova di Roma, 1994).

Libro estremamente interessante, diciamolo subito, perché non nasce da una riflessione più o meno astratta, fatta a tavolino, ma da un confronto diretto e concreto con l'evento della morte (diciamo evento per semplificare i termini della questione, anche se ben sappiamo che si tratta di un processo dai confini così indeterminati, che gli stessi medici sono sovente imbarazzati nell'indicarne i limiti precisi).

Reinhard Tausch, docente di psicologia nell'Università di Amburgo, psicoterapeuta e, per lungo tempo, collaboratore di C. R. Rogers, è forse il maggiore esponente della psicologia umanistica in Europa, mentre sua moglie Anne-Marie, docente di psicologia, psicoterapeuta e scrittrice, è deceduta nel 1985 in seguito a un tumore maligno, dopo che, insieme al marito, aveva organizzato dei seminari  di incontro che avevano per tema la meditazione sulla morte.

Pertanto, la prima parte del libro offre soprattutto le meditazioni di Anne-Marie in prossimità della sua stessa morte, anche alla luce del confronto con i suoi familiari e con i numerosi partecipanti al suddetto seminario; la seconda, scritta da Reinhard, sviluppa la meditazione personale sulla morte,  ala luce dell'esperienza della scomparsa di una persona cara. L'opera ha, quindi, un forte sapore di cosa vissuta, ma vissuta senza enfasi e senza ridondanze emotive: è sobria quanto può esserlo una ricerca scientifica, e intensa quanto può esserlo una decisiva esperienza interiore.

C'è un brano che ci pare particolarmente denso di significato, e che desideriamo riportare (pp. 50-56), con l'auspicio che qualche lettore sia invogliato a leggere l'intero libro - uno dei non molti che trattano in maniera equilibrata, rasserenante e positiva il tema della morte.

 

"Gli ultimi dodici giorni, Anne-Marie li passò a casa. Era molto debole per la chemioterapia e la rapida degenerazione fisica. Adesso in entrambi i polmoni c'era acqua, anche nel pericardio. Respirare era difficile e doloroso. Il collo era molto gonfio, e lei trovava difficile magiare, aveva dolori nella trachea e nelle ossa, soprattutto alla colonna vertebrale.

"Come si svolgessero gli ultimi giorni, cosa lei provasse dentro e quale fosse il suo atteggiamento, lo si può comprendere attraverso un racconto che lei stessa dettò un anno e mezzo prima, quando sembrava giunto il suo ultimo giorno.

«Oggi è il 12 febbraio 1983. Sono a letto. I miei dolori sono calati notevolmente, anche se non posso fare a meno di analgesici. Il mio letto è al centro del mio studio. È un letto che ci siamo fatti prestare dall'infermiera comunale. Durante il giorno sto qui, e sono grata di stare nelle mia stanza, che mi trasmette, con i tanti posters, fiori, candele e luce diffusa, una buona sensazione. Come iniziò tutto? Due giorni prima di Natale, il mio radiologo mi disse che attraverso un tipo particolare di lastre si evidenziavano una serie di metastasi nelle ossa: cioè, cellule cancerose nelle ossa, soprattutto nel midollo spinale.

"È stato un Natale pesante, ma nella sua piena atmosfera familiare: bellissimo. Reinhard, io e le figlie sapevamo che, forse, era l'ultimo Natale insieme. La notizia delle cellule cancerose nelle ossa mi aveva terribilmente demoralizzata.

"Vivi la vita che ti rimane! Così passai giornate indimenticabili con i miei cari. Questo mi distolse, seppur per breve, da cupi pensieri.

"La sera prima di San Silvestro aumentarono i dolori vicino al punto di irradiazione del seno, e nelle spalle. Mi misi a letto e non riuscivo a muovermi dai dolori. Essi venivano a tratti, circa ogni cinque secondi. Venne il medico. Si venne a conoscenza che la metastasi al midollo: ora, la morte; l'aspettavamo da un momento all'altro. Il medico disse di esser certo di poter evitare i dolori prima che sopraggiungesse.

"Paragonai i dolori con le doglie, dicevo che erano doglie di morte. Ma Daniela mi rispose: 'No, se entri in una nuova vita, allora sono doglie di nascita!'.

"Adesso che ero totalmente impotente mi resi conto di quant'era facile chiedere aiuto. È stata una bella esperienza, per me. Le mie figlie e Reinhard mi facilitarono molto nel chiedere il loro aiuto; non avevano quei volti disperati e sconvolti, ma durante le conversazioni ci eravamo, in fondo, detti addio. Sapevo che sarei potuta partire! Non ero mai sola. C'era sempre qualcuno seduto sul letto, mi accarezzavano, mi davano da bere, o mi facevano delle iniezioni antidolorifiche.

"Il 2 gennaio la figlia più giovane, Daniela, festeggiò il suo ventiduesimo compleanno. Ero ancora nella fase dei forti dolori; le tre figlie, Reinhard e il marito di Cornelia avevano deciso di sdraiarsi sul letto, di stare tutti insieme per sentirci più uniti. È stata una sera particolare. Sentivo come tutti avessero accettato che dovessi morire e che ci tenessero a starmi vicino. Sono stata curata con tanto amore e delicatezza, per esempio da Daniela, che mi lavava e mi spalmava la crema e l'olio sulla pelle bruciata dalle irradiazioni. Ho ammirato la dolcezza e delicatezza con cui mi curava.

"Avevo un citofono, proprio nella stanza, collegato con tutte le altre stanze, così potevo chiamarli in caso di necessità. Ciò mi rassicurava molto. Potevo stare sola, ma potevo sempre chiedere aiuto. Le notti le passavo in camera da letto accanto a Reinhard, perché sapevo che bastava porgergli la mano e lui si svegliava immediatamente, per parlare con me o per accarezzarmi. Ricordo che una notte in cui mi lamentavo molto, lui si è messo vicino a me e il calore del suo corpo mi tranquillizzava.

"Cornelia, la figlia maggiore, espresse il desiderio di avere un nastro registrato da me, in modo che quando si sarebbe sentita triste dopo la mia morte, avrebbe potuto riascoltarlo. Passati due giorni, dopo una iniezione che mi tolse i dolori, registrai il nastro per le mie figlie e per Reinhard. Mi dava gioia sapere che ognuno avrebbe avuto una mia cassetta. Cornelia disse che l'avrebbe in futuro fatta ascoltare a suo figlio per fargli conoscere la mia voce, e di conseguenza me. Era molto doloroso per lei pensare che io non avrei mai potuto conoscere suo figlio, nascituro in maggio. Lei si metteva spesso nel mio letto, così il bambino che cresceva in lei stava tra di noi, e io gli parlavo.

"Nel frattempo il radiologo e l'internista della clinica si erano fatti sentire, prospettando altre irradiazioni e una nuova chemioterapia. Tutti insieme abbiamo riflettuto sulle proposte e poi insieme abbiamo deciso di rinunciare all'offerta. Mi sentivo troppo a pezzi per iniziare un trattamento ambulante in clinica.  Godevo troppo della vicinanza della mia famiglia, mi dava forza. Era troppo importante per me che la forza interiore non venisse meno. Non credevo nell'efficacia della chemioterapia e della cobaltoterapia.

"Non volevo più rimandare la morte. Il cancro continuava a diffondersi inesorabilmente e mi era rimasto poco da vivere. Noi tutti adesso volevamo vivere splendidamente uniti, anche per pochi istanti, ma intensissimi. Ascoltavamo musica meditativa, che mi facilitava l'abbandono della vita, vita gratificante e ricca che avrei volentieri continuato a vivere. Nel frattempo la notizia delle mie pessime condizioni si era diffusa, arrivavano moltissime telefonate, fiori e richieste di visite.

"È stato bellissimo, Nell'ultimo Natale mi erano giunte tante lettere  da persone che mi avevano conosciuta attraverso le trasmissioni televisive, i miei libri e le interviste. La gente mi inviava fiori, dischi, e una coppia a me sconosciuta inviò dolcetti di natale fatti in casa con miele e farina integrale. Questa coppia intuiva che mi ero sentita debolissima durante quel Natale, per farmi dei dolci. La grande partecipazione di persone che non conoscevo mi ha dato sempre una grande forza e speranza. Il non riuscire a rispondere a tutta la posta però mi affliggeva. Negli ultimi anni rispondevo a tutte le lettere con un grazie e un saluto. Così questo periodo non è stato un periodo buio. C'era molto amore intorno a me e non vedevo facce disperate.

"Dopo una settimana di fortissimi dolori avvenne il miracolo. Nessuno se lo sarebbe mai aspettato: i dolori diminuirono, prendevo meno analgesici. Ero confusissima,  non riuscendo a vivere la sorpresa come un regalo: tutti ci eravamo lasciati, salutati, avevamo accettato l'indesiderabile, la mia morte, che rimanemmo increduli!

"Una guarigione spontanea? Non riuscimmo a credere a un reale miglioramento. Pensavamo che fosse solo un arresto provvisorio, una pausa prima  della prossima ondata di dolori e debolezze. Ma il miglioramento rimase. Avremo potuto anche sperare, ma non ci provammo nemmeno. Molte domande mi assillavano:  Dove andrà la mia strada? Perché questo arresto? Qual è l'entità del miglioramento, per quanto tempo?  Parlavo con Reinhard, e chiedevo: Come ti senti?  Aveva delle sensazioni simili alle mie, anche lui era perplesso. Tuttavia, bandite le domande, accettammo tutti il miglioramento con enorme entusiasmo.  Mi cimentai, persino, a fare alcuni passi in casa e a lavarmi. Una spiegazione per la mia grave malattia, era che i dolori non provenissero dalla metastasi spinale, ma da un herpes zoster, che è molto doloroso e spesso colpisce i malati di cancro.

"Oggi, per la prima volta, sono stata fuori. Ho fatto alcuni passi lungo la strada, ho respirato aria fresca e mi sono ricollegata al mondo.  Adesso sì che provavo un sentimento di gratitudine per essere ritornata alla vita.  Nel periodo dei forti dolori, dissi a Daniela: Adesso sì, che sono capace di vivere, adesso che ho imparato ad apprezzare le più piccole cose che l'attimo mi offre!

"E nonostante la fase difficile e minacciosa avevamo vissuto la fondamentale bellezza della solidarietà.  Tanto intenso era il legame che ci cementava, quanto più acuto  era il sentimento che quei momenti fossero irripetibili! Non so ancora dove andrà la mia strada. I dolori ci sono, anche se meno acuti. Forse riuscirò a tornare in sesto. Chissà?! Comunque, qualsiasi cosa avvenga, lo accetterò con estrema gratitudine.

"Sono grata per l'esperienza profonda fatta durante la mia presunta ultima fase: conteneva ancora tanti minuti preziosi della mia vita.  E sono riuscita a vivere, finalmente, la vita ne suo significato vero per eccellenza: l'hinc et nunc. Ho vissuto! Inoltre ho fatto l'esperienza di non avere paura della morte, ma quasi - e questa è la stranezza - ne ero, per così dire, curiosa».

 

"Nelle settimane successive i dolori diminuirono. Anne-Marie si riprese un po' e andò a un seminario di una settimana  in Svizzera. Al rientro, le si scoprì acqua nei polmoni.  Su suggerimento del medico, andò in ospedale per sottoporsi a una chemioterapia.  In ua settimana le vennero fatte venti toracentesi per drenare l'acqua.

"Si fece dimettere il più presto possibile dall'ospedale. Andammo a un seminario , con 160 paramedici, a Basilea; Anne-Marie parlò della gestione di malattie gravi e condusse  una meditazione sulla morte. Nonostante tutto, ilsuo corpo era molto debole, seppure con delle piccole riprese.

"Solamente a 12 giorni dalla morte, il medico curante mi comunicò che altre  farmacoterapie non sarebbero servite a nulla. Non glielo comunicammo immediatamente.  Perdeva sempre di più le sue forze, aveva grosse difficoltà respiratorie  a causa dell'acqua nei polmoni. E quando ci chiese: «Per quale motivo dovrei riandare in clinica, cos'altro vogliono fare con me? Ho paura!», l'abbiamo messa a conoscenza della comunicazione del medico. Lei l'accettò.

"Come è riuscita ad adattarsi dal pensiero di vivere qualche altro giorno alla certezza  di dover morire in breve tempo? Nonostante tutto,  fino a quel momento sperava, incoraggiata anche dagli atteggiamenti dei medici: «Forse  potrò ancora vedere l'autunno!». Otto giorni prima della morte, mi disse: «Quando mi sono svegliata, stamane, mi sentivo in salute e pensavo cosa voler fare durante la giornata. Solo in quel momento, però, mi sono resa conto di avere un corpo moribondo».

"Il cambiamento dei suoi atteggiamenti li descrive Cornelia: «Quando stava in ospedale era ancora piena di speranza - potrebbe essere così, forse farò qualche altro viaggio, forse potrò conoscere mio nipote. In poche ore ha cambiato ha cambiato radicalmente tutte le sue prospettive di vita. Non è immaginabile  con qualche rapidità lo ha fatto.  La visitai nel giorno in cui venne a sapere che non ci sarebbero più state terapie per lei.  Entrai nella sua camera e l'atmosfera era diversa.  In qualche modo lei era più rilassata e si era più distaccata.  L'ho notato senza che ne parlassimo. Sì, lei lo aveva accettato. Penso che era anche molto felice di non sottoporsi più alla terapia».

"10 giorni prima della sua morte sapeva, definitivamente, che era giunta la sua ora.  Mi chiese di telefonare al medico della clinica per chiedere di poter rimanere gli ultimi giorni a casa invece di stare in clinica. I medici mi dissero che la potevamo tenere in casa, in uno stato prenarcotico. Non avrebbe sentito dolori e non avrebbe avuto attacchi di soffocamento, pur rimanendo in stato di veglia.  Il medico curante se ne prese la responsabilità.

"Ho trovato degli appunti scritti da lei di questi giorni: «Vivo di ora in ora e di giorno in giorno. E spero di non avere forti dolori e di potermi rilassare e di trovare la forza per morire».

 

Come si sarà notato, i coniugi Tausch non entrano nel merito delle conversazioni che ebbero in quegli ultimi tempi di vita di Anne-Marie; ed è giusto che sia così, si tratta di cose troppo intime per essere raccontate ad altri.

In compenso, ci offrono un quadro dettagliato, quasi minuzioso, del clima complessivo in cui la famiglia tutta intera, e la malata in primo luogo, vissero l'esperienza del distacco imminente.  L'elemento più importante che emerge dalla lettura di queste pagine è, appunto, quella dell'accettazione del distacco.

La sofferenza fisica, che spesso si accompagna alla consapevolezza della propria morte, è sicuramente un fattore di ulteriore difficoltà che, in certo qual modo, toglie lucidità e trasparenza al faccia a faccia con la morte. In base a quasi tutte le testimonianze che possediamo di malati terminali, emerge il dato che il dolore fisico distoglie, per così dire, l'attenzione del morituro dal problema essenziale cui è chiamato a far fronte: predisporsi al commiato dal mondo e dalla propria vita, nella giusta disposizione di spirito.

D'altra parte, esistono farmaci atti a rendere sopportabile il dolore fisico e, quindi, a recuperare margini di lucidità, affinché la persona possa rivolgere tutta la propria concentrazione sul difficile passo che è chiamata ad affrontare. Bisogna dire che, anche in questo campo, la cultura occidentale moderna ci ha gradualmente impoveriti di molte delle risorse psico-fisiche di cui l'organismo naturalmente dispone, mediante l'abitudine al ricorso "facile" agli analgesici. Abituati, come siamo, a ricorrere all'aspirina al minimo mal di testa, non siamo più allenati a sopportare i grandi dolori fisici; e questo, obiettivamente, costituisce una complicazione, dal punto di vista dell'accettazione della morte.

Un'altra complicazione ci deriva dalla scarsa consuetudine con l'esperienza della morte stessa, dovuta alla medicalizzazione della malattia - come avrebbe detto Ivan Illich - e alla circostanza che, ormai, sono ben poche le persone che possono concedersi il lusso di morire a casa propria, circondate dalle persone e dalle cose a loro care. Una cattiva medicina - la medicina occidentale moderna - ci ha illusi, e ci illude, di poter tenere a bada le malattie e la morte stessa; e così, quando giungiamo al dunque, ci troviamo terribilmente impreparati. Solo allora ci rendiamo conto di non essere quegli dei che la cultura materialistica, edonistica e tecnologica ci ha illusi di essere: ci troviamo, così, nelle condizioni di un alpinista che debba affrontare la parete nord dell'Eiger, senza aver mai affrontato, in vita sua, che modeste montagnole con difficoltà - al massimo - di primo grado.

Non è possibile affrontare la crisi della morte - comunque noi la vogliamo considerare, come una porta o come una fine; questo è secondario - se non ci siamo mai allenati a misurarci con il pensiero di essa; e, in particolare, se non abbiamo mai esercitato, in tutta la nostra vita, la disciplina del non attaccamento alle cose, della non avidità, della non dualità. Solo chi ha imparato a tuffarsi, sa che non è saggio aggrapparsi con tutte le forze a una zattera destinata sfasciarsi sotto la forza dei marosi.

Noi siamo a bordo di una zattera - il corpo - che, prima o poi, si sfascerà sotto la forza dei marosi. Di conseguenza, dobbiamo imparare a nuotare o, almeno, a non avere troppa paura dell'acqua, e dobbiamo farlo prima che ciò accada.

Impareremo tanto più facilmente, se impareremo a godere della vita senza diventare irragionevolmente avidi, egoici, attaccati a ciò che è transitorio; se sapremo focalizzare, per tempo, il meglio delle nostre energie verso ciò che è permanente. Se capiremo, in definitiva, che noi non siamo la zattera, né dobbiamo identificarci con essa. La zattera non è che un mezzo di trasporto che, un giorno o l'altro - forse prima di quanto pensiamo - dovremo abbandonare.

Tutta la vita umana, come diceva Platone, non è che esercitazione e preparazione alla morte.

Lungi dal gettare sulla vita un'ombra funesta e angosciosa, questa consapevolezza dovrebbe costituire la migliore premessa per vivere al meglio delle nostre possibilità, puntando energicamente verso ciò che davvero è essenziale e non indugiando inutilmente in ciò che è secondario e irrilevante.

Dobbiamo sbarazzarci della zavorra, se vogliamo puntare alla vetta. Ed è bene che impariamo a farlo fin da ora, subito: giorno per giorno, minuto per minuto.

Siamo solo dei viandanti, non dovremmo mai scordarcene.

La nostra vera patria non é questa, per quanto la vita possa essere stata generosa con noi, offrendoci cose buone.

La morte, allora, dovrebbe apparirci come quell'alta vetta, dalla sommità della quale potremo finalmente gettare lo sguardo verso l'altro orizzonte: l'orizzonte che, da quaggiù, non avremmo potuto mai vedere; e la cui scoperta è, appunto, il senso ultimo del nostro peregrinare.