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Salvator Rosa. L'artista più amato dai romantici

di redazionale - 21/04/2008


Il mito di un personaggio guascone, mago, filosofo e brigante

Rimasto finora ai margini della grande abbuffata espositiva di questi ultimi decenni, Salvator Rosa è tornato prepotentemente alla ribalta in questi mesi, prima come uno dei principali poli d´attrazione dell´eccellente rassegna sulla pittura napoletana del ‘600 nelle collezioni medicee, tenutasi di recente agli Uffizi, ed ora, nella sua Napoli, come protagonista assoluto della prima mostra monografica che gli sia stata dedicata in Italia (Salvator Rosa tra mito e magia, Museo di Capodimonte, fino al 29 giugno).
Nato nel 1615 a Napoli, ma attivo principalmente in Toscana, dove si trattenne per nove anni al servizio dei Medici, e a Roma, dove svolse la maggior parte della sua carriera morendovi nel ‘73, Rosa fu un artista vivacissimo e dalla personalità esuberante, che non si limitò a produrre un gran numero di dipinti, ma si cimentò in molteplici attività, atteggiandosi a filosofo, scrivendo componimenti poetici, dilettandosi di musica e recitando in commedie.
Apprezzatissimo in vita soprattutto per i suoi quadri di genere - furiose battaglie, paesaggi aspri e selvatici animati da figurine di zingari, pitocchi e soldati di ventura, ma anche soggetti capricciosi a sfondo stregonesco - , Rosa godette di un´immensa fama postuma, specie tra fine Sette e Ottocento, ma tale da stravolgerne completamente la reale fisionomia storica. Affascinato dai suoi istrionici autoritratti e dai suoi dipinti, interpretati in chiave di sublime e pittoresco, il Romanticismo europeo, ed in particolare d´Oltremanica, confuse allegramente arte e vita, scambiando il pittore per i suoi personaggi e costruendo il mito di un artista guascone ed abile spadaccino, mago e alchimista, per metà filosofo e per metà brigante, in un crescendo onirico il cui estremo prodotto fu addirittura un delizioso film girato da Blasetti nel ‘39, in cui il giovane Gino Cervi interpretava la parte di un Rosa vezzeggiato dalla corte napoletana, ma che in segreto, nascondendosi sotto una maschera carnevalesca, riattizzava la ribellione popolare, sopita dopo l´amaro fallimento di Masaniello.
Il merito di aver demolito l´ingombrante sovrastruttura che si era incrostata sulla figura storica del Rosa va attribuito principalmente a Luigi Salerno, che dedicò al pittore una monografia nel 1963. Ma nell´immagine dell´artista delineata da quella meritoria revisione storiografica sopravvive ancora qualche residuo del mito romantico che ne ha offuscato per secoli la vera identità.
L´identikit tratteggiato da Salerno è senz´altro più attendibile, ma forse ancora un po´ troppo sbilanciato in favore di un´interpretazione del pittore come fiero esponente del «dissenso», artista che in nome dello stoicismo denuncia il lusso delle corti, anticipando con i suoi atteggiamenti, laici e spregiudicati, i philosophes dell´età dei Lumi.
La grande mostra monografica che si è aperta in questi giorni a Capodimonte non è pertanto solo un evento di richiamo per il grande pubblico, ma anche una preziosa occasione di studio in vista di un più aderente e approfondito bilancio critico su questo artista singolare, ma ancora un po´ misterioso. Ne è garanzia l´ampia ed intelligente selezione compiuta dal Comitato scientifico presieduto da Marco Chiarini, che ci consente di ammirare e confrontare tra loro oltre ottanta dipinti dell´artista, cui si affianca un´adeguata rappresentanza di sue incisioni.
Rosa è artista eclettico che sa abbeverarsi alle fonti più diverse, ma non dimentica mai l´imprinting ricevuto a Napoli dal cognato Francesco Fracanzano, e soprattutto dal vivace e colorito naturalismo di Aniello Falcone. A Roma, dove si recò poco più che ventenne, si fece subito apprezzare per i soggetti di genere, ma si segnalò anche per l´intraprendenza e l´aggressività polemica con cui attaccava l´establishment culturale dominato da Bernini. Il biografo Giovan Battista Passeri, che lo conobbe bene, ce ne offre un ritratto vividissimo: «Salvatore fu di presenza curiosa, perché essendo di statura mediocre, mostrava nell´abilità della vita qualche sveltezza e leggiadria: assai bruno nel colore del viso, ma di una brunezza africana, che non era dispiacevole. Gl´occhi suoi erano turchini, ma vivaci a gran segno; di capelli negri e folti, li quali gli scendevano sopra le spalle ondeggianti e ben disposti naturalmente. Vestiva galante, ma senza gale e superfluità».
A Roma entrò in contatto con quegli ambienti intellettuali che si ispiravano al classicismo e alla filosofia stoica, attorno ai quali ruotavano anche pittori del calibro di Poussin e di Pietro Testa, ma fu a Firenze, dove si recò nel 1639 trattenendosi per quasi un decennio, che strinse i maggiori legami intellettuali: con scienziati come Evangelista Torricelli, allievo di Galilei, e con letterati come Valerio Chimentelli, Andrea Cavalcanti e il cattedratico di Pisa Giovan Battista Ricciardi, che gli rimase indefettibilmente amico per tutta la vita. Con essi Rosa fondò l´Accademia dei Percossi, che si riuniva nella sua dimora della Croce al Trebbio per rianimare l´antica usanza delle Compagnie fiorentine, organizzando cene a tema, in cui si recitavano poesie satiriche e ci si cimentava nella recita di commedie «all´improvvisa».
Comincia a manifestarsi già a Firenze, dove l´artista lavora intensamente per la corte medicea e la nobiltà cittadina, quel dissidio tra l´inclinazione di Rosa a dipingere grandi quadri di storia, in cui riversare temi allegorico-filosofici tratti dalle fonti classiche, e il favore di una committenza che di lui apprezzava soprattutto le battaglie, le marine, i paesaggi aspri e pittoreschi e i capricci negromantici. Un dissidio che si acuirà ancor più dopo il definitivo ritorno dell´artista a Roma nel ‘48-´49, e su cui vale di nuovo la pena di citare un illuminante brano del Passeri: «Gran contrasto hebbe nell´animo suo per voler sostenere che le figure di sua mano della grandezza del naturale fussero della stessa vaglia quanto quelle di minore proporzione...et era entrato in una smania così inquieta per tante opposizioni che ne sentiva, che si era stabilito di non voler mai più dipingere quadri in piccolo...Sentiva dirsi che in grande egli era assai mancante nel disegno quanto alle parti, e che il colorito di quel genere non era adattato né naturale, che le tinte delle sue carni erano di legno e senza sangue, e che l´arie delle teste erano tutte dispettose...che li suoi panni non formavano pieghe elette...che poco intendeva l´ignudo...Si travagliava quando sentiva lodarsi che nelli Paesi occupava il primo luoco nella gloria, nelle marine era singolare, in macchiette e componimenti minuti di capricciose invenzioni prevaleva ad ogni altro, nelle battaglie era unico; nel capriccio e nelle invenzioni delle storie pellegrine e recondite toccava il segno maggiore; nella maestria del pennello non haveva uguale, nell´armonia del colore era il maestro; ma nelle figure grandi perdeva tutte quelle sue buone qualità, perché gli mancava il principale che gl´è lo studio».
Un giudizio per tanti aspetti impietoso e non immune da pregiudizi accademici, ma che, a conti fatti, mi sento di poter sottoscrivere in massima parte.