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Mente locale: per un’antropologia dell’abitare

di Paolo Vicentini - 24/04/2008

 

 

In passato, più volte autori provenienti da varie discipline -ad esempio recentemente l'economista Jeremy Rifkin nel bel libro Guerre del tempo. Il mito dell'efficienza e del progresso e lo sconvolgimento dei ritmi naturali (Bompiani, Milano 1989)- avevano rilevato come nelle culture premoderne la temporalità avesse una dimensione qualitativa ben diversa da quella solo lineare-quantitativa ora dominante. Mancava chi, in maniera organica, ponesse l'attenzione anche sulla diversa comprensione dello spazio che caratterizzava e caratterizza, dove esse sopravvivano, queste culture.

È quanto si è preso la briga di fare l'architetto e antropologo Franco La Cecla, docente all'Università di Venezia, cui si devono due importanti lavori sull'argomento: Perdersi. L'uomo senza l'ambiente (Laterza, Roma-Bari 1988) e Mente locale. Per un'antropologia dell'abitare (Elèuthera, Milano 1993).

Si sentiva la mancanza di un serio studio su questo tema anche perché spazio e tempo nelle società tradizionali sono strettamente interrelati. Come dire, insomma, che quelle che La Cecla chiama "culture dell'abitare", spazzate via dalla modernità, erano e sono, dove persistano, paradossalmente più moderne di quest'ultima, in quanto aderiscono ad una concezione relativistica (einsteiniana) e non newtoniana dello spazio, e più in generale ad una visione organicistica ed olistica e non meccanicistica della realtà.

Se dunque giustamente La Cecla parla di una antropologia dell'abitare, con altrettanta giustezza potrebbe parlare di una cosmologia dell'abitare, poiché in queste società ordine umano e ordine cosmico sono sempre strettamente interrelati.

La Cecla, del resto, non manca di evidenziarlo, mostrando sulla scorta di ricerche antropologiche ed etnologiche, oltre che di sociologia e storia delle religioni, che nelle cosiddette società primitive:

«L'insediamento è una cosmografia, una cosmologia, ma non come può esserlo un modello statico. Il sistema villaggio, pur essendo il riassunto del cosmo, è esso stesso il cosmo, cioè un sistema compiuto che si autoregola e autoproduce. Infatti è anzitutto un "centro" del mondo. Solo da un centro si possono lanciare le direzioni dell'orientamento»1.

Ciò si deve al fatto che in queste culture la comprensione dello spazio, dell'ambiente, del luogo di vita, non è mai asettica e oggettiva, bensì propria, personale, interrelazionale. La percezione di se stessi si definisce in rapporto al proprio ambiente, creando un profondo senso di appartenenza ad esso e al contempo una profonda conoscenza di ogni suo aspetto. Al punto che si può dire l'abitare diventi una forma di conoscenza locale, una "mente locale" come dice La Cecla, e viceversa. Come sarebbe possibile infatti apprendere in astratto? Il nostro pensare, sentire, conoscere non possono che variare di luogo in luogo, così come i luoghi nascono e si ridefiniscono in rapporto a chi vi si ambienta. Di più, abitare uno spazio significa non tanto trovarsi in esso, ma che esso è fatto della nostra stessa sostanza: soggetto e luogo si co-originano. È per questo che fondamentale presso le popolazioni tradizionali è porsi in ascolto della sapienza dei luoghi.

Abitare vuol dire infatti creare una habitudo, cioè un'abitudine al luogo che è attenzione alla sua specificità, un modo di comportamento e uno stile di vita che come un abito ci caratterizzano e che sono la nostra comprensione del mondo abitato. La mente locale non si può improvvisare, la conoscenza del proprio ambiente vitale si forma anche attraverso il contributo di esperienza di generazioni di abitatori che viene a costituire così un deposito, un tesoro di conoscenze, di abitudini da tramandare; una "tradizione" appunto.

Inoltre, se non vi è separazione fra se stessi ed il proprio spazio vitale allora l'abitare non potrà essere solamente un'attività di progettazione. Lo spazio verrà non solo pianificato, concettualizzato, misurato, ma sentito a partire da un luogo, da un polo che orienta la nostra intera vita incardinandola al cosmo. Non si cercherà di fuoriuscire da esso fingendo imparzialità ed estraneità per poi tentare di imprigionarlo gettandovi sopra una rete di coordiante oggettive, ma lo si costruirà a partire dall'interno, orientandolo a cominciare dal suo centro e dalle direzioni che da questo scaturiranno.

L'orientamento è fondamentale nella visione qualitativa dello spazio. Nelle culture dell'abitare non è tanto la capacità di leggere una mappa, seguire un sistema di coordinate per raggiungere una meta, come s'intende al giorno d'oggi, quanto la capacità di organizzare il proprio ambiente circostante, di creare una struttura generale di riferimento al cui interno agire e relazionare la propria conoscenza all'ordine del cosmo:

«L'orientamento è disporre un insediamento ancorandolo al resto del cosmo, alla volta celeste, al Sole, alla Luna o a Sirio, ai luoghi da dove secondo i racconti dei padri è nata la vita o è stata rinnovata. Staccato dal Cosmo intorno, un insediamento è impossibile».2

Si può ben comprendere da ciò come la scelta del luogo dove costruire una dimora sia nelle società tradizionali un atto estremamente importante, che ha a che fare con la propria identità. Significa creare un ordine a partire da un caos, suscitare il sacro a partire dal profano. È un gesto che riproduce la genesi del cosmo, ed è per questo che la casa o il villaggio rappresenta, anzi è, in queste culture il centro del mondo, inteso in senso non geografico ma ontologico.

Riti e cerimonie compiute in genere da sacerdoti o sciamani e codificate in scienze sacre gelosamente tramandate, come il feng shui nel mondo cinese o la disciplina augurum nel mondo latino, guidano il reperimento dei siti di insediamento.

Il limite tra lo spazio abitato e disabitato è il limite fra il domestico ed il selvaggio, fra l'ospitale e l'ostile, fra il reale e l'irreale, fra il cosmo ed il caos. È quindi un luogo estremamente carico di significati e di potenze, la cui importanza è difficilmente esagerabile e pari solo al centro dell'abitato, di cui non è in fondo che un'emanazione, un'estensione.

Per tali ragioni le culture dell'abitare considerano il perdersi nello spazio selvaggio un atto importantissimo. Perdersi nel mondo selvaggio, oltre i confini dell'abitare, è infatti la condizione d'inizio, di fondazione di una mente locale. Non è frutto di errore o distrazione e non è nemmeno la negazione dell'abitare. È il confronto con l'altro rispetto al domestico, che però è essenziale alla sua esistenza. È il processo in cui conoscere ed abitare una località diventano indisgiungibili, un vero e proprio rito di passaggio, e come tale celebrato in tutte le culture propria dimora. È il ripercorrere l'origine di quella più grande dimora che è il cosmo. È, infine, il processo in cui si costituisce la propria identità, una identità possibile solo se si riesce a mettersi in relazione, a dialogare, con l'altro, con le potenze del luogo in cui si abita. Questo contatto, questo ascolto della sapienza locale, non è mai realizzato una volta per tutte, ma si rinnova ciclicamente, con l'ausilio anche di complesse ritualità.

Casa, villaggio, città non sono oggetti statici. Possono nascere e sopravvivere solo grazie alla costante comunicazione interno/esterno, poiché, come ci ricorda Henry Thoreau nel memorabile scritto Camminare, opportunamente citato da La Cecla:

«Il villaggio è il luogo verso cui tendono le strade, una sorta di espansione della strada maestra, come il lago rispetto al fiume. È il corpo cui le strade fanno da braccia e da gambe, trivio o quadrivio, crocevia obbligato dei viaggiatori. La parola deriva dal latino villa, che insieme a via, una via, o ancora più anticamente ved e vella, Varrone fa discendere da veho, trasportare, poiché la villa è il luogo verso cui, e da cui, le cose vengono trasportate»3.

La rigida e sterile opposizione fra città e mondo selvaggio nasce solo in epoca moderna e si deve al venir meno della stessa funzione costitutiva della città: abitare un luogo.

Nel moderno si passa ad un regime di indifferenza territoriale, di estraniamento cronici tra gli abitanti ed il loro territorio, ad una distrazione permanente rispetto al proprio luogo.

Questo perdersi moderno è ben diverso dal perdersi proprio delle culture dell'abitare. Qui esso aveva una funzione fondamentale nel conoscere e abitare il proprio luogo, al punto da assumere una valenza religiosa, rituale, sacralizzante. Il perdersi del cittadino moderno non è un perdersi nel mondo selvaggio e disabitato, è un perdersi nello stesso ambiente in cui si vive. È un essere rispetto ad esso stranieri, distratti, ostili. È l'essere sempre fuori luogo e spaesati; non nel senso di essere altrove, ma in quello di essere esattamente dove si vuole pur non sapendo dove si è. È una mancanza di attenzione al mondo circostante.

Si è persa quindi la stessa capacità di perdersi. È possibile perdersi solo rispetto ad un qualche luogo in cui si abita, ma come farlo se invece non si abita oramai in nessun luogo? Se si è persa l'arte di abitare?

Lo stesso turismo di massa, il muoversi agitato della scentrata umanità contemporanea, non è che la commercializzazione di questo spaesamento, uno smarrimento che come abbiamo visto non prelude ad una conoscenza del luogo visitato bensì alla negazione di ogni sua specificità. Si è persa anche l'arte di viaggiare.

È venuta affermandosi in Occidente una concezione della conoscenza, e quindi dell'abitare, non più locale bensì oggettiva, cioè non centrata, che nega i molteplici centri del mondo, valida in qualsiasi luogo, a qualsiasi latitudine. Il differente, il diverso, il particolare è stato soppresso a favore dell'uguale, dell'omogeneo, del generale.

Un desiderio illimitato di controllo, pianificazione, manipolazione, istituzionalizzazione, razionalizzazione a fini economici ed amministrativi, colpì l'Europa, che a partire dal XVII secolo vide il diffondersi dei primi sistemi di divisione oggettiva dello spazio cittadino svincolati dal riferimento alle località. L'occasione fu la costruzione delle prime reti fognarie, con la scusa di una presunta igienizzazione dell'abitare, che di fatto eliminò insieme agli escrementi una risorsa preziosa per il mondo rurale e, quanto all'igiene, ottenne effetti diametralmente opposti:

«Le fogne inquineranno le risorse idriche naturali. Andando contro ogni protesta e buonsenso, la tecnologia dello smaltimento dei rifiuti con acqua renderà infida e fonte di malattie ogni polla, fonte e sorgente, segnando per la prima volta l'impossibilità per gli abitanti di un luogo di essere dissetati dal loro stesso terreno: dando inizio alla astrazione degli abitanti dalla realtà ecologica del proprio vivere quotidiano. Il luogo viene ucciso nella sua capacità di sostentare i suoi abitanti. La stessa evidenza e memoria di tale possibilità viene occultata»4.

Lo spazio perde la sua unicità, la sua capacità di interagire con l'abitante, viene defisicizzato, delocalizzato, trasformato da occasione per abitare a vuoto da riempire, ad apparato per definire e indurre comportamenti. Prevale il funzionalismo dell'edilizia moderna, secondo il quale il cittadino non deve perder tempo con lo stabilire una relazione troppo complessa con il suo ambiente, l'importante è che quest'ultimo 'funzioni', soprattutto dal punto di vista igienico ed economico. L'abitare è ridotto ad un'istituzione fra le altre: la 'residenza', domicilio regolarizzato e disciplinato.

Lo stesso furore uniformante e delocalizzante invaderà poi le colonie, dove ne faranno le spese le popolazioni native.

La finalità, più o meno consapevole, di questo mutamento è chiara. In una società ridotta a grande mercato l'importante è creare una massa di acquirenti, privati il più possibile della loro autonomia e resi per converso sempre più dipendenti, in tutto ciò che è indispensabile alla loro esistenza, dall'acquisto di merci. Ogni bisogno e ogni facoltà umana sono trasformati in occasione di consumo, per dei compratori ignari che il bene che considerano scarso è invece alla sua origine abbondante e già a loro disposizione.

Il risultato è la desolazione, l'omologazione, l'anonimità tipiche delle città moderne prive di centro e di confini, il senso di smarrimento che si impossessa dei suoi dispersi 'utenti' il cui unico spazio personalizzabile è oramai solo la disposizione dei mobili nella propria casa, la perdita di contatto tra abitare e costruito che rende impossibile i processi di identificazione con il luogo, di appartenenza ad una località, e quindi la percezione della propria stessa identità.

Di più, è stata mutilata, lobotomizzata, la capacità dell'uomo di fare esperienza dell'alterità, di relazionarsi al diverso, esperienza impossibile a chi non possiede più nemmeno una propria identità, e che invece nelle culture indigene era un momento importantissimo nella costituzione e nel mantenimento della comunità.

Quale può essere il ruolo e la capacità dei movimenti ecologisti nel riattivare la facoltà umana dell'abitare, di opporsi alla furia delocalizzante delle multinazionali economiche?

La Cecla è fortemente scettico nei confronti del tentativo di utilizzare gli strumenti del mercato, i media, per rendere maggiormente consapevoli le persone di ciò che è accaduto e sta accadendo. Applicare le strategie dell'industria alla lotta ambientalista significa solo stravolgerne i contenuti e scadere in quella che La Cecla definisce 'pornoecologia'5. Pornoecologia è l'uso da parte dei media della politica dell'ecologia, l'ecologia ridotta a creazione di immagini patinate, suggestive, artificiose dell'ambiente, da poter vendere sul mercato pubblicitario per poter convincere le masse ad una difesa attiva della natura, senza capire come i singoli siano stati talmente desautorati e disidentificati da questa stessa logica di mercato da poter diventare benissimo convinti, ma continuare ad essere egualmente indifferenti.

Inoltre, opporsi alle strategie di neutralizzazione dei soggetti vuol dire anche opporsi a quel neocolonialismo ecologista dell'Occidente che pretende di esportare modelli assoluti, decontestualizzati, di protezione ambientale, che pretende di insegnare alle popolazioni native del 'Terzo Mondo' come fare la loro rivoluzione ecologica, come prendersi cura del loro ambiente, nell'illusione di poter salvare la natura a prescindere dagli indigeni o dalle popolazioni locali e come se le culture locali non avessero le proprie soluzioni che aspettano solo di essere riattivate.

E vuol dire, infine, comprendere che ogni soluzione gestionale o tecnica del problema ambientale, ogni ecosviluppo o tecnoambientalismo, è destinata a fallire miseramente finché non verrà messa in discussione la logica utilitaristica ed egoistica che la corrode fin dalle sue radici.

«La stessa visione del nuovo uomo "ecologico" che gestisce con criterio ed efficienza gli equilibri ambientali è solo la continuazione di un pensiero prometeico, senza limiti, a cui la crisi del pianeta serve per rilanciare l'uomo demiurgo padrone del proprio destino. Avere il coraggio ancora di affermare che il futuro è bioregionale, legato alla identità e alle vocazioni che nascono dall'interazione tra popolazioni e loro territorio, farsi portavoce di una "mente locale" che sa che buona parte dei problemi riguardanti le risorse si possono affrontare solo a livello del micro. Tutto questo potrebbe ancora essere l'ambientalismo.
O l'ecologia è la riscoperta delle ragioni dell'alterità, siano questa gli animali, le altre forme viventi, le stesse pietre, le culture differenti, ciò che in noi è alieno a noi stessi e non va però cancellato, oppure è un ennesimo falso»
6.

 


Note

1-  F. La Cecla, Mente locale, cit., pp. 34-35.

2-  F. La Cecla, Perdersi, cit., p. 59.

3-  H. Thoreau, Camminare, Mondadori, Milano 1991, p. 18.

4-  F. La Cecla, Perdersi, cit., pp. 62-63.

5-  Cfr. F. La Cecla (a cura di), La pornoecologia, Elèuthera/Volontà, Milano 1992.

6-  F. La Cecla, Le tre ecologie più una: la pornoecologia, postfazione al testo di F. Guattari, Le tre ecologie, Edizioni Sonda, Torino-Milano 1991, p. 66.