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Mahmud Ahmadinejad

di Giuseppe Giaccio - 22/01/2006

Fonte: Giuseppe Giaccio

 

“Bisogna cancellare Israele dalle carte geografiche”. Queste parole, pronunciate dal presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad nel corso di una conferenza tenuta a Teheran sul tema “Il mondo senza sionismo”, sono indubbiamente gravi e vanno condannate. Su questo non ci piove. Anche i dirigenti palestinesi dell’Anp si sono associati alla riprovazione generale. Ciò che, tuttavia, in questa come in altre precedenti occasioni, colpisce e fa riflettere è che, al di là delle ovvie e scontate reazioni indignate, nessuno, nell’ambiente politico e dei mezzi di informazione (naturalmente, ci riferiamo a quelli che contano e che raggiungono milioni di persone), sia andato oltre questi atteggiamenti epidermici per tentare qualche analisi lucida e razionale. Se si fosse battuta questa pista – che dovrebbe essere del tutto fisiologica in paesi che si vantano della loro libertà di stampa – ci si sarebbe subito accorti che, in primo luogo, le parole del presidente iraniano sono, con ogni probabilità, dettate più da ragioni di politica interna (tenere a bada i cosiddetti riformisti, a cominciare dallo sconfitto Khatami, con un richiamo dai forti contenuti ideologici) che da un reale ed imminente pericolo di attacco militare dell’Iran verso Israele. In secondo luogo, si sarebbe capito che, pur nella loro gravità, quelle del leader iraniano sono pur sempre parole, solo parole, mentre la maggior parte dei suoi zelanti critici non si è limitata alla parole, ma è passata spesso e volentieri ai fatti. E si tratta, in genere, di fatti poco commendevoli nei confronti del mondo arabo dei quali nessuno è stato chiamato a rispondere, nessuno si è scandalizzato. Pensiamo alla guerra di aggressione condotta contro l’Iran da Saddam Hussein, all’epoca amico dell’Occidente, con armi occidentali e con la benedizione dell’Occidente. O alla campagna di stampa internazionale da tempo in atto, sempre contro l’Iran, per la sua presunta, e non dimostrata, volontà di dotarsi di armi atomiche, in un’area dove l’unico paese di cui si può dire con certezza assoluta che dispone di un armamento atomico è Israele. Armamento il cui possesso è privo di ogni giustificazione, giacché anche senza di esso Israele rimane di gran lunga lo Stato militarmente più potente dell’area. In queste condizioni, voler avere a tutti i costi armi nucleari vuol dire assumersi la responsabilità di innescare una pericolosa corsa al riarmo. Invece di prendersela con l’Iran per la sua eventuale intenzione di munirsi di bombe atomiche, la comunità internazionale dovrebbe compattamente esercitare delle pressioni su Israele per indurlo a rinunciare alle sue testate nucleari, ma è molto difficile che questo possa accadere, dati gli ottimi rapporti esistenti fra Israele e gli Usa. 

Il segretario generale dell’Onu Kofi Annan ha così commentato le affermazioni di Ahmadinejad: “Secondo la Carta delle Nazioni Unite tutti gli aderenti sono impegnati a non ricorrere alle minacce o alla forza contro l’integrità nazionale o l’indipendenza politica di uno stato”. Perché il buon Annan queste cose non le dice agli Stati Uniti e a Israele, paesi i cui capi non si sono limitati a rilasciare dichiarazioni suscettibili di violare la Carta dell’Onu, ma che quella Carta hanno già ampiamente violato, gli Usa attaccando uno stato, l’Iraq, contro il quale hanno cercato di fabbricare prove false per tentare di giustificare la loro aggressione, come sta emergendo dal cosiddetto scandalo Niger-gate nel quale, a quanto pare, sono implicati anche i nostri servizi segreti; e Israele sottraendo con la forza al popolo palestinese i suoi territori, compiendo ogni sorta di vessazioni e violenze nei suoi riguardi e gettando nel cestino della spazzatura le innumerevoli risoluzioni delle Nazioni Unite che gli ingiungevano di smetterla. Ancora: l’attuale capo del governo israeliano, Ariel Sharon, è anche il responsabile dell’eccidio di Sabra e Chatila (2000 morti secondo le stime più recenti, tutti civili), per il quale non è stato mai processato, mentre non risulta che il presidente iraniano abbia commesso simili delitti. Il premier britannico Tony Blair ha invece rilasciato questa surreale dichiarazione: “Nella mia vita non ho mai incontrato un presidente che vuole spazzare via un’altra nazione”. Strano. Blair deve essere una persona un po’ distratta, perché non dovrebbe avere difficoltà a incontrare tipi del genere nei suoi frequenti viaggi a Washington e a Tel Aviv.

La totale mancanza di senso critico e di dignità dei media e dei politici quando si affronta il tema del Medio Oriente è in parte spiegabile con il conformismo che induce molti ad aderire automaticamente alle posizioni del più forte, gli Stati Uniti, i quali non hanno nemmeno bisogno di esercitare censure preventive, dal momento che gli operatori dei media e gli uomini politici sanno benissimo che cosa il padrone si aspetta di leggere, ascoltare e vedere. In parte – ed è forse la parte più importante – è spiegabile con lo statuto particolare, unico, che gli israeliani sono riusciti a dare al loro Stato, in virtù delle persecuzioni subite dagli ebrei. Eloquente, in questo senso, è un articolo di Stefano Mannoni, pubblicato dal quotidiano napoletano “Il Mattino” dello scorso 31 ottobre, in cui si legge testualmente che la ragion d’essere dello Stato d’Israele “è patrimonio comune dell’umanità”. È in considerazione di questa convinzione che l’assemblea generale dell’Onu ha proclamato il 27 gennaio giornata mondiale della memoria dell’Olocausto. Questo significa mettere lo Stato di Israele su un piedistallo, accordargli uno status privilegiato che lo sottrae a ogni possibile comparazione e per il quale, perciò, non possono valere le stesse regole, gli stessi diritti e obblighi che valgono per gli altri Stati. Una tesi del genere è, innegabilmente, molto politically correct, ma chi la sostiene, dentro e fuori Israele, rende inconsapevolmente ad Israele e agli ebrei il peggiore dei servigi immaginabili. Come ha osservato Abraham B. Yehoshua, uno dei più importanti scrittori ebrei contemporanei ed autore di un “Elogio della normalità” (si veda il suo Ebreo, israeliano, sionista: concetti da precisare, Edizioni e/o, Roma 2004), Israele avrebbe, in realtà, tutto l’interesse a essere considerato alla stessa stregua degli altri paesi, ad essere ritenuto un paese “normale”, soggetto alle medesime dinamiche storiche e politiche. Il rifiuto della normalità viene spiegato da Yehoshua con l’atavico timore, da parte ebraica, di essere assimilati e di sparire. Di qui la continua sottolineatura della unicità ed eccezionalità del popolo ebraico, dei suoi patimenti e della sua missione nel mondo. Le sofferenze subite dagli ebrei a causa di Hitler e del nazionalsocialismo fanno parte di un preciso processo storico, tipico della modernità e che purtroppo non ha affatto riguardato in via eccezionale il popolo ebraico, ma è stato una triste e sanguinosa costante. Questo processo è stato illustrato da Tzvetan Todorov, ne La conquista dell’America (Einaudi), nei termini di un passaggio dalle società premoderne basate sul sacrificio, dove la violenza era incanalata e ritualizzata, alle moderne società del massacro nelle quali l’incontro con popoli percepiti come qualcosa di assolutamente altro ed estraneo (gli indios) fa cadere ogni barriera morale e scatena una violenza sfrenata, priva di regole in quanto rivolta contro esseri considerati subumani. Una terza fase, quella in cui sono stati coinvolti anche gli ebrei, è quella delle società del “massacrificio”, neologismo con il quale Todorov si riferisce, tra l’altro, ai regimi totalitari che hanno unito, in un mostruoso connubio, alcuni aspetti delle due precedenti forme sociali: l’estrema meticolosità e pianificazione delle uccisioni e l’efferatezza e l’estensione delle medesime (pensiamo ai campi di concentramento dei comunisti e dei nazionalsocialisti o, per andare un po’ più indietro nel tempo, allo sterminio dei vandeani e al terrore giacobino). Questa cornice storica non viene però presa in considerazione nella retorica ufficiale, sia israeliana che occidentale, e ad essa si preferisce una cornice mitica, un grande “racconto”, per cui le sofferenze subite sono un’irruzione del Male che si accanisce contro gli ebrei e il cui modello metastorico è rinvenibile nel biblico libro di Ester, dove si narra di una persecuzione scatenata da Aman contro i giudei, colpevoli ai suoi occhi di essere un popolo diverso dagli altri, con vittoria finale degli ebrei, cui segue la morte del persecutore e la vendetta dei giudei. Hitler diventa quindi una sorta di reincarnazione di Aman e la sua sconfitta coincide con la riaffermazione della particolarità giudaica. In cosa consista, poi, questa particolarità ce lo spiega Thomas Cahill in un saggio (Come gli ebrei cambiarono il mondo, Fazi, Roma 2004) che è un inno alle glorie dell’ebraismo e dove i toni enfatici si sprecano. Cahill mette subito le carte in tavola: “Tutto ebbe inizio con gli Ebrei. E con ‘tutto’ intendo tantissime delle cose che ci stanno a cuore, quei valori fondamentali che muovono tutti noi, ebrei e pagani, credenti e atei […] Con ‘noi’ intendo il solito ‘noi’ di chi scrive alla fine del ventesimo secolo: la gente del mondo occidentale, la cui mentalità peculiare ma vitale ha contagiato ogni cultura sulla faccia della terra, cosicché, in un senso sorprendentemente preciso, l’intero genere umano è oggi, che lo voglia o no, intrappolato in questo ‘noi’. Nel bene e nel male, il ruolo dell’Occidente nella storia dell’umanità è unico. Per questo motivo, il ruolo degli Ebrei, inventori della cultura occidentale, è altrettanto unico: semplicemente non c’è nessun altro che somigli loro neanche da lontano. La loro è una vocazione unica”. Di ogni evento storico si può dire che è unico, perché presenta delle particolarità che lo distinguono dagli altri e, appunto, lo storicizzano. Ma non è in questo senso che Cahill parla dell’unicità del popolo ebraico. Per lui gli ebrei sono unici in quanto rappresentano il senso della presenza umana sulla terra, il suo sale, avendo consentito all’uomo di passare da culture il cui simbolo era il cerchio, la ruota – culture, quindi, naturalistiche, nelle quali l’umano non emergeva in pienezza – a culture basate sulla vocazione individuale, sul progresso lineare. Insomma, secondo questa lettura della vicenda umana, se l’uomo è diventato veramente e sino in fondo uomo, è grazie agli ebrei e oggi siamo tutti un po’ ebrei. A dire il vero, nemmeno questa pretesa è unica, dal momento che ogni antropologo ed etnologo sa che in tutte le culture si manifesta questa forma di etnocentrismo che porta a ritenere che solo in quella data cultura l’umanità si sia espressa nella sua totalità. Il punto importante, però, non è questo, bensì il fatto che tale auto-esaltazione, spinta al parossismo, si rovescia poi nel suo contrario, nel disprezzo. Si spiegano così le parole dell’illuminista Voltaire rivolte agli ebrei: “Insomma, non troverete in essi che un popolo ignorante e barbaro, che unisce da molto tempo la più sordida avarizia alla più detestabile superstizione e al più tenace odio per tutti i popoli che li tollerano e li arricchiscono” (cfr. Juifs, Gallone, Milano 1997). Dalle stelle alle stalle, come suol dirsi. Proprio per evitare questi eccessi, Yehoshua suggerisce agli ebrei (ma il suggerimento si può estendere agli statunitensi e agli occidentali neo/teocons) la ricetta della “normalità”, che non è sinonimo di piattezza e banalità. Al contrario, se ci guardiamo intorno, ci accorgiamo che la vita, sia quella naturale, sia quella umana, culturale, è normalmente ricolma di diversità: “La normalità”, scrive Yehoshua, “non è che un pluralismo ricco e creativo in cui una persona può controllare nei limiti del possibile i suoi atti e il ventaglio delle sue possibilità è ampio”. Yehoshua vede nel culto ebraico della anormalità, della eccezionalità giudaica, una delle cause dell’Olocausto: “L’Olocausto ci ha mostrato in modo brutale e terribile il profondo abisso nel quale eravamo rotolati a causa della situazione di anormalità e del nostro essere diversi da tutti i popoli; ha rivelato il terribile prezzo di sangue delle teorie della missione, della giustizia, della creatività”. Il primo, propedeutico passo da compiere per costruire una pace vera in Medio Oriente, deve essere, per Israele e per gli ebrei, quello di porsi su un piano di parità con gli altri, rinunciando alle teorie che interpretano il conflitto arabo-palestinese in termini di destino allo scopo di “provare che la anormalità è essenziale, quasi genetica, e ci accompagna in ogni situazione in cui ci veniamo a trovare”. Fatto questo, la via della pace sarà spianata, e allora “ci renderemo conto che la ‘normalità’ non è una parola spregevole ma, al contrario, l’ingresso in un’epoca nuova e piena di possibilità, in cui il popolo ebraico potrà modellare il proprio destino, produrre una propria cultura completa, associarsi alla formazione dell’umanità come un membro di pari diritti nella comunità internazionale. Si dimostrerà il modo migliore per essere altri e diversi, unici e particolari (come lo è ogni popolo) senza preoccuparci continuamente di perdere l’identità”. Sono parole ispirate al buonsenso. Di più: alla saggezza. Riusciranno ad emergere, ad essere udite tra i bagliori delle fiaccolate e i clamori delle opposte tifoserie?