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L'etica e la filosofia antica

di intervista a Mario Vegetti* - 22/01/2006

Fonte: gianfrancobertagni.it

 

Professor Vegetti, si può identificare un momento o un luogo da cui è ipotizzabile sia iniziata una riflessione sul problema della morale nella Grecia antica?

Io credo che questo luogo sia rappresentato dall'Iliade, il poema inaugurale della cultura greca e quello sul quale i Greci hanno continuato a ispirarsi nel formare le loro immagini del mondo. L'Iliade presenta una situazione di conflitto tra Achille e Agamennone che non è decidibile nell'ambito dei valori di quel mondo arcaico. La virtù del guerriero consiste essenzialmente nell'eccellenza della sua prestazione in guerra, e viene ricompensata dal bottino e dalla fama che si sparge presso gli altri uomini.

In questa circostanza Agamennone viene privato di una parte del suo bottino, quindi della sua gloria e, in fondo, della sua dignità, per colpa di una sorta di superguerriero, il dio Apollo. Agamennone decide di rivalersi di questa offesa su Achille. Questo gesto comporta la rottura della comunità che l'esercito greco formava sotto le mura di Troia.

Come accennavo prima, il conflitto tra Agamennone e Achille è indecidibile, perché entrambi hanno ragione, non essendoci altra norma di valore oltre le virtù guerriere individuali. Occorre, allora, pensare a norme morali, politiche, giuridiche o di altro genere che possano valere al di là della rivendicazione individuale dell'eroe.

Di qui la riflessione etico-politica greca si muoverà verso direzioni molto differenziate: da un lato, si cercherà un livello sopraindividuale di valori e norme; a questo proposito si può citare come personaggio emblematico Solone, il primo legislatore della polis ateniese. Dall'altro, s'identificherà un soggetto morale che non è immediatamente vincolato alle circostanze dei conflitti interpersonali e sociali. Nasce il pensiero dell'anima come vero soggetto della responsabilità e del valore morale.

Il pensiero dell'anima, più che in un personaggio, può essere identificato in una tradizione religiosa prima e filosofica poi, che è quella Orfico-Pitagorica. Questa tradizione ha probabilmente origini culturali non greche, ma riuscirà ad avere una straordinaria diffusione proprio nella Grecia post-omerica del VI secolo. Imporrà alla cultura greca la figura dell'anima immortale, svincolata dalla vicenda corporea, attesa da un destino divino o da una punizione atroce a seconda delle colpe o dei meriti di cui durante la vita terrena essa si è resa protagonista.

Alla base della visione greca del mondo c'è, fin dalle origini, il concetto di kósmos, di "ordine del reale". Esiste una relazione tra questo concetto e le concezioni morali dell'uomo greco?

Certamente. C'è una consapevolezza antica del fatto che il mondo sul quale governano gli dei, ossia il mondo degli astri, nel suo insieme, è ordinato. L'ordine che regna a questo livello è però immediatamente in contrasto con il disordine che regna nella società degli uomini. Occorre, allora, rendere la società umana altrettanto ordinata quanto lo spettacolo del cosmo che gli dei ci offrono. La tradizione di tipo religioso, incentrata sul santuario di Delfi, e le riflessioni più propriamente morali, filosofiche e politiche trovano qui un punto di convergenza.

Questo è il centro del pensiero morale e politico di Solone, nel quale si parla di eunomía, della buona legge che bisogna istituire nella città. L'ordine prevede che ognuno riceva la sua giusta parte, in base ai meriti e, naturalmente, alla condizione sociale; che ognuno rispetti la parte che gli altri hanno ricevuto e non chieda niente di più, non perché costretto ma perché capace di interiorizzare le ragioni dell'ordine.

Esiste poi un altro aspetto che resterà duraturo nella coscienza greca: il kósmos, il mondo della natura ordinata, ha anche un significato estetico. Nasce così l'idea che l'ordine è la bellezza. Così nella vita sociale e morale il bello sta nel comportamento misurato, ordinato e regolare.

Anche le dottrine fondamentali del pitagorismo si possono racchiudere nell'opposizione fra ordine e caos. Quale morale scaturisce da queste dottrine, e in quale contesto storico va collocata?

Il pitagorismo rappresenta la trasposizione in termini filosofici di una tradizione prevalentemente religiosa, maturata nell'orfismo. Essa si basa sull'idea che l'ordine cosmico vada trasferito nella vita individuale e collettiva degli uomini. I pitagorici si costituiscono come setta, adottando un insieme di regole di vita precise e rigorose, capaci di differenziarli dalla moltitudine.

Questa setta di uomini puri aveva intenzione di riformare e governare anche la vita degli altri uomini; infatti, i pitagorici tentarono di realizzare a Crotone un programma di riforma morale e politica della vita sociale.

Per i pitagorici il problema consiste nel purificare l'anima dai suoi contatti con la corporeità, riportandola alla sua condizione divina già durante la vita terrena. E' tipica del pitagorismo più antico la dottrina nota come metempsicosi, e più propriamente definibile come "metensomatosi". Questa idea nasce dal presupposto che, se l'anima è immortale, mentre il corpo è mortale, la prima conoscerà una serie di reincarnazioni, ovvero di ritorni a una condizione corporea. Questa condizione sarà però diversa a seconda della condotta dell'anima durante la precedente esistenza: un'anima che si lascia coinvolgere dalla corporeità conoscerà reincarnazioni in forme di vita sempre più basse; un'anima che seguirà invece le regole di ascesi proprie della setta incontrerà forme di vita terrena sempre più alte, fino a staccarsi definitivamente dal ciclo delle reincarnazioni e riprendere la sua condizione divina. Le fonti sul pitagorismo di cui disponiamo non spiegano adeguatamente il motivo per il quale l'anima si è staccata da Dio. Sappiamo, tuttavia, sia dalla tradizione orfica, sia dal pensiero di Empedocle - del resto vicino al pitagorismo - che si tratta di una colpa originaria. Empedocle afferma, in forme metaforiche e mitiche, che l'anima ha accettato la dimensione dell'odio, ha voluto individualizzarsi, ha commesso spergiuro o omicidio.

Passiamo ora alle teorie etiche elaborate dai successivi grandi pensatori della grecità. Vorrei partire da Aristotele, che per molti versi può essere assunto come un modello paradigmatico, sul quale confrontare anche altre concezioni della morale. Com'è fatto per lui l'uomo, e qual è lo scopo della sua esistenza?

Secondo Aristotele, l'uomo è innanzitutto un complesso psicofisico, ossia un'integrazione funzionale tra anima e corpo. Non c'è, in altri termini, quell'opposizione di valore fra anima e corpo su cui aveva tanto insistito la tradizione orfico-pitagorica e per certi aspetti anche Platone. L'anima è la forma del corpo organico, l'insieme delle funzioni vitali a diversi livelli dell'individuo, dal livello riproduttivo, a quello percettivo, fino al livello conoscitivo. Questo significa che non esiste, per Aristotele, nessuna forma di immortalità dell'anima individuale. Questo concetto ha un risvolto importante anche per la morale aristotelica, perché la felicità o l'infelicità si concludono in questa vita, e non c'è rinvio a un'attesa di premi e punizioni in una vita dell'anima nell'aldilà.

La struttura fondamentale dell'animale uomo è quella politica; esso vive in società dove la sua vita è caratterizzata da varie forme di interazione politica con gli altri uomini: chi vive fuori dalla polis o è Dio o è bestia. Bisogna tener conto però del fatto che per Aristotele non tutti gli individui umani sono propriamente uomini: esistono forme inferiori rispetto all'umanità in senso proprio, incapaci di giungere al livello della vita politica. Si tratta dei soggetti che non possiedono la capacità razionale di vivere le forme della vita etica e morale della polis: i barbari - i popoli non-greci -, gli schiavi e in parte le donne.

Esiste, poi, una forma di vita più che umana, che eccede i limiti normali della dimensione politica e sociale in cui il cittadino vive: è la condizione del filosofo. Egli tende ad essere estraneo alla città perché si avvicina alla divinità, dedicandosi alla pura conoscenza, allo studio di quell'ordine del mondo di cui anche i pitagorici avevano cominciato a parlare. Vi è, dunque, una delimitazione verso il basso nella antropologia aristotelica - schiavi e barbari - ed una verso l'alto - il filosofo.

E quali sono le differenze sostanziali di tale approccio all'uomo da quello di Platone?

Platone pensava che il mondo e l'ordine politico esistenti fossero erronei, conflittuali, incapaci di realizzare la giustizia tanto nella città quanto nell'anima individuale. Pensava, quindi, che occorresse trasformare profondamente la vita individuale e collettiva degli uomini, richiamandosi ad un piano di valori esterni all'esistente, per rifondare a partire da essi l'esistenza. Il bene platonico non si è mai attuato compiutamente nel mondo, è sempre un limite verso il quale orientarsi.

All'opposto, Aristotele pensa che la forma di vita sedimentata dalla tradizione culturale e morale che ha dato luogo alla polis sia in se stessa perfettamente legittima. Seppure non perfetta la forma di vita della polis rappresentano il compimento delle potenzialità attuali della specie umana.

Soprattutto nella tradizione liberale, Platone è stato considerato l'inventore della società autoritaria. Karl Popper, nell'opera La società aperta e i suoi nemici, è il maggior sostenitore di questa accusa. Lei è d'accordo con interpretazioni del genere?

E' difficile dirsi completamente d'accordo o completamente in disaccordo. Esiste sicuramente un aspetto fondamentale in Platone che si situa all'esatto opposto della tradizione liberale e democratica tipica della cultura occidentale moderna. Per Platone il punto di vista della comunità viene sempre prima rispetto a quello dell'individuo: "Solo una comunità giusta può produrre individui giusti". L'individuo è strumentale rispetto alla comunità. Proprio per questo, il pensiero liberale ha accusato Platone di arcaismo, se non addirittura di spirito tribale, visto che non considerava la città come aggregato di individui autonomi e liberi. Inoltre, Platone pensa che possa esistere un gruppo ristretto di uomini, i filosofi, che, possedendo la conoscenza del bene, hanno il diritto e il dovere di trasformare la città e di governarla; agli altri uomini spetterebbe solo il dovere di seguire le indicazioni dei filosofi. Da questo punto di vista, Platone può essere visto come un filosofo totalitario.

Tuttavia, egli, introduce anche una possibilità di critica liberatrice e libertaria. Se il bene per Platone non coincide mai con una data situazione, neppure con quella che i filosofi potrebbero realizzare, allora ogni esistente è precario, criticabile, trasformabile. Da questo punto di vista, non credo che Platone possa essere considerato un pensatore totalitario. In effetti, Platone, a volte, è stato visto con simpatia da filosofi che hanno elaborato forme di pensiero rivoluzionario.

 *di Renato Parascandolo