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L’esploratore Bottego come un Custer africano

di Carlo Lucarelli - 26/05/2008

  
Si possono conoscere i personaggi storici di paesi lontani e non sapere chi è immortalato nella statua di bronzo davanti a cui passiamo ogni giorno. Ci si può sbarazzare della propria storia nascondendola sotto il tappeto come con la polvere, ma poi la polvere torna fuori. Questo è il messaggio di Carlo Lucarelli e del suo nuovo libro storico su un esploratore italiano di inizio 800.
Attraverso la storia di Vittorio Bottego, Lucarelli racconta la presenza italiana in Etiopia, quando la rottura del Trattato di Uccialli e la conseguente guerra fra l’Italia e il paese africano retto dal negus Menelik II, si concluse con la sconfitta italiana ad Adua nel 1896.


In quinta ci toccò la prima ricerca di storia. Parmigiani illustri. E non è che potevi scegliere, se no io avrei preso Giuseppe Verdi, perché a mia mamma piaceva molto la lirica e sapeva tutto di Giuseppe Verdi, ma no, te li dava la maestra, e non ti potevi rifiutare. A me e a Giubilini, che era il mio compagno di banco, toccò Vittorio Bottego. Fu a causa mia: Lucarelli, non stai davanti alla stazione, te? e allora prenditi Bottego, c’è anche la statua, vè, perché Giubilini abitava in via Garibaldi, ma Giuseppe Garibaldi mica era di Parma. In un primo momento abbiamo pensato di cavarcela con un disegno — Giubilini ha detto ritagliamo una cartolina e ce l’attacchiamo — ma non era così facile, eravamo in quinta, ormai, bisognava fare le cose per bene. Avevamo un libro che ci aveva dato la maestra, una cosa facile, per bambini, ma non ci capivamo niente. Africa, colonie, questo Menelicche, soldati, va bene, ma di che tipo? Non riuscivamo ad inquadrarlo da nessuna parte, questo capitano Bottego, poi a me è venuta un’illuminazione, così ho dato un pugno sulla spalla a Giubilini e lui me ne ha ridato indietro uno che mi ha informicolito tutto il braccio. Ho capito! ho detto. È come il generale Custer! (...) Sul libro che ci aveva dato la maestra c’erano un sacco di disegni di animali, un granchio, dei pesci, una lucertola dalla coda lunga, anche degli scarafaggi, tutti scoperti da Bottego, perché lui era un esploratore, aveva viaggiato per metà Africa su una lunga linea rossa che partiva da un posto che si chiama Mogadiscio fino a uno che si chiama Gambellà [...]. Però questa cosa dell’esploratore non ci tornava. Esploratore come? Come Black, Black Macigno è un esploratore, ma mica aveva quel cappello, Bottego, quello con la coda da castoro, aveva un elmetto con una piuma, e poi la spada, insomma era un soldato. Però il libro diceva esploratore, aveva scoperto le foci del Giuba e dell’Omo. [...]
Poi, all’improvviso, a Giubilini è venuto un colpo di genio. Non gli succedeva spesso, ma ogni tanto sì, ha schioccato le dita e ha detto Sandokàn! e io: cosa, Sandokàn? ma mentre lo dicevo mi erano venuti in mente i soldati inglesi proprio con quei caschi lì, con la piuma, e poi ci sono venuti in mente gli elefanti, la giungla, è ovvio, gli esploratori col macete, e ci è sembrato di aver capito tutto. Così, siccome ormai tra disegni di pesci e scarafaggi e la cartina con la riga rossa che andava da Mogadiscio a Gambellara eravamo a buon punto, ce la siamo presa comoda e ci siamo messi a giocare a soldatini.

Bottego contro Sandokàn.
L’esercito di Bottego lo facevano i nordisti e quello di Sandokàn gli indiani, perché i Tigrotti della Malesia non ce li avevamo. [...]
Da allora, e per molto tempo, a Vittorio Bottego non ci ho più pensato (...). Poi, un giorno, mi è venuta l’idea di scrivere un romanzo ambientato da quelle parti, e in quegli anni, e mi sono visto una scena, come succede quando si scrivono i libri: un cavaliere con lo scudo la lancia e le penne in cima ad un costone, davanti al disco rosso del sole del tramonto, e sotto un soldato con la sciabola e la pistola, anche lui a cavallo.
E siccome mi era successa la stessa cosa di quando ero in quinta, e cioè che per capirla bene, per inquadrarla, quell’immagine fissa come il fotogramma di un film, dovevo pensare ad un nordista e ad un apache invece che ad un soldato del Regio Esercito — come Bottego — e ad un cavaliere Galla del Negus — come i due selvaggi del monumento — mi sono chiesto perché sapevo quasi tutto del generale Custer e di Sandokàn e quasi niente di quell’uomo di pietra — di bronzo, va bene, ma a me sembrava di pietra — che per dieci anni ho visto tutti i giorni davanti a casa mia. Protagonista assieme a tanti altri di una storia avventurosa ed epica, contraddittoria, feroce e torbida che altro che il Far West. Non sarà perché noi italiani abbiamo un rapporto con la nostra storia che è un po’ come quello che si ha con la polvere che si spazza sotto il tappeto quando si ha fretta? Solo che poi succede come con la polvere, che appena muovi il tappeto torna fuori e te la ritrovi sulle cose, tutti i giorni. [...]

Addis Abeba, marzo 1897.
Prima o poi qualcuno dovrà dirlo. Lo sanno che alla fine si metteranno d’accordo su tutto, che gli italiani si fermeranno lungo le sponde del Mareb, di qua la colonia d’Eritrea, di là l’impero del Negus. Però c’è un particolare.
C’è Vittorio Bottego. Il dottor Nerazzini li conosce gli ordini di Bottego, è venuto un ufficiale da Massaua per spiegargli l’esatta natura della missione del capitano. Esplorare il corso dell’Omo fino a risolvere il mistero secolare delle sue foci. Catalogare specie umane e animali rare o sconosciute. Tracciare mappe per una più completa cartografia della regione. E intanto, razziare materie prime, portare la guerriglia nel cuore dell’Abissinia, sollevare le popolazioni all’autorità del Negus, bruciare, saccheggiare, uccidere, insomma, fare la guerra. Solo che adesso la guerra è finita, ma Bottego questo non lo sa. Arrivano notizie dalla sua carovana, Bottego si congratula per la vittoria italiana nella piana di Adua, Bottego festeggia la morte del Negus, ma quale vittoria, ma quale morte del Negus, Bottego non lo sa come stanno le cose, oppure non vuole saperlo, e comunque va avanti, sempre più avanti e non torna più indietro, e adesso non è più una missione, la sua, è un problema. Bisogna fermarlo. Bisogna fermarlo, in qualche modo, e porre fine al suo comando. Il dottor Nerazzini vorrebbe bere (...). Vorrebbe una grappa. Una grappa di vinaccia come si fa a casa sua, a Montepulciano, e chi se ne frega del caldo, chi se ne frega del Negus, vuole finire in fretta, chiudere tutto e tornarsene ad Asmara, dove ce l’ha la grappa, se ne è fatta mandare una cassa. Adesso lo dico, pensa, ma Menelik è più veloce, perché lo dice prima lui. Muove le labbra in un mormorio leggerissimo che si perde tra i peli della barba, come se invece di parlare avesse sputato qualcosa. Nerazzini non lo sente, ma l’interprete sì. E Bottego? Bottego chi? dice Nerazzini, e il Negus non ha bisogno di traduzione, capisce tutto dal tono, annuisce e si gira verso la regina, che sorride (...). La collina su cui si sono accampati per la notte è bassa e stretta, poco più di una cunetta tutta rocce e sterpi, senza alberi e senza ombra. Qualcuno, Vannucci, Sacchi, non importa chi, qualcuno gli indica giù, tra i cespugli, quel movimento nero, luccicare di sudore e di fucili sotto il sole dell’alba, ma quanti saranno? Non ci lasciano passare, pensa Bottego, questa volta no. Cani neri, pensa Bottego. Ma quanti sono, pensa. Poi tutti cominciano a sparare, gli ascari, gli ufficiali, il cartografo in borghese, Bottego, sparano dalla collina, in ginocchio sui sassi, stesi tra i ciuffi d’erba crespa, e sparano anche i soldati del Negus, giù tra i cespugli, gridano agès! agès! e agli ascari sulla collina si ghiaccia il sangue nelle vene, perché anche se è in lingua Galla lo sanno che agès significa uccidere, e lo sa anche Bottego, che pensa ma quanti sono, quanti diavolo sono. Sono più di mille e loro, lassù su quello sputo di collina, sono meno di novanta. Poi un soldato galla si alza, scivola più avanti tra i cespugli e mira a quel ferengi con i baffi che così sotto il sole sembra fatto di sasso, e spara, e quando lo vede sobbalzare e annaspare all’indietro, una mano sul cuore e l’altra a mulinare nell’aria come se cercasse di afferrarsi a qualcosa, spara ancora, e allora l’uomo di pietra sposta la testa di colpo, uno sbuffo di sangue chiaro gli schizza dalla tempia, e poi cade giù.

© 2008 by Carlo Lucarelli. Published by arrangement with Agenzia Letteraria Roberto Santachiara