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Budapest '56

di Antonio Carioti - 16/06/2008



«Tutto cominciò nel 1979, quando venni inviato a Budapest da Massimo D'Alema per rappresentare i giovani comunisti ai vertici della Fmjd, un'organizzazione internazionale di osservanza sovietica». Nel Pci lo storico Federigo Argentieri ha combattuto a lungo perché il partito cambiasse posizione sulla rivoluzione ungherese del 1956, sconfessando Palmiro Togliatti e la sua scelta di approvare non solo l'intervento dell'Urss, ma anche la condanna a morte del comunista riformatore Imre Nagy, capo del governo magiaro durante la rivolta, impiccato mezzo secolo fa, il 16 giugno 1958. Fu una battaglia difficile, che Argentieri considera vinta solo in parte: «Non condivido il modo in cui Walter Veltroni rimuove il passato e finge di non essere mai stato comunista. La storia non si può ignorare: bisogna rivisitarla criticamente».
A tal proposito Argentieri ritiene che Enrico Berlinguer fosse sulla buona strada già nel 1968: «Fu il comunista più deciso nel condannare il soffocamento della Primavera di Praga, come dimostrano anche i documenti sovietici che Victor Zaslavsky sta per pubblicare sulla rivista Ventunesimo Secolo. Berlinguer conosceva bene l'Urss ed era convinto della necessità di staccarsene. Mosca lo considerava un nemico e sono certo che il suo strano incidente stradale in Bulgaria, nel 1973, fu un tentativo del Kgb per assassinarlo, come del resto pensava anche lui». Però Berlinguer rifiutò l'ipotesi di un approdo socialdemocratico. «Finita la solidarietà nazionale, il suo radicalismo in politica interna fu disastroso. Ma credo che fosse dovuto anche all'esigenza di coprirsi le spalle a sinistra, per bloccare i tentativi dei sovietici di creargli problemi nel partito in seguito alla sua dura condanna del colpo di Stato in Polonia, nel dicembre 1981».
Anche Argentieri passò i suoi guai: «A Budapest, circondato da un'ostilità glaciale, sostenni la linea del Pci contro la messa al bando di Solidarnosc. E presi a interrogarmi sul 1956: se si condannava un'azione di forza limitata come quella del generale Jaruzelski, che in fondo aveva il vantaggio di evitare un'invasione sovietica, come si poteva mantenere una valutazione positiva sul bagno di sangue avvenuto a Budapest 25 anni prima?».
Il ritorno in Italia, nel 1982, segna l'inizio di una fase di studi: «Andai a lavorare all'Istituto Gramsci: qui, con l'appoggio di Adriano Guerra, approfondii le mie ricerche fino a preparare una tesi di laurea sulla rivoluzione ungherese che smentiva pienamente l'interpretazione ufficiale del Pci. Ma capivo che, pubblicandola da solo, avrei fatto la figura della mosca cocchiera, senza ottenere effetti politici. Accolsi così il suggerimento di Giancarlo Pajetta, che mi disse di contattare un senatore comunista di Torino, Lorenzo Gianotti, il quale stava lavorando a sua volta sull'insurrezione di Budapest».
Ne nacque il libro a quattro mani L'ottobre ungherese,
uscito nel 1986, che divenne un caso politico. «Fu un macigno nello stagno, perché Gianotti lo segnalò al suo amico Giuliano Ferrara, il quale consigliò a Bettino Craxi di uscire allo scoperto. Così il leader socialista chiese al Pci di riabilitare Nagy, suscitando un vespaio. D'Alema subì rimbrotti per avermi appoggiato, ma mi difese. Luciano Lama e Paolo Spriano si schierarono a favore di Nagy. Ma gran parte del partito cercò di salvare capra e cavoli, attraverso contorsioni che si sforzavano di giustificare la fedeltà alla lezione di Togliatti. Penso a Giuseppe Boffa e soprattutto ad Alfredo Reichlin, che all'epoca dell'esecuzione di Nagy era direttore dell'Unità e non ha mai detto una parola di autocritica: padronissimo, ma mi lascia assai perplesso che proprio a lui sia stato affidato il compito di scrivere il programma del Partito democratico. Ho più rispetto per Armando Cossutta, che è sempre stato un filosovietico coerente. Quello che non accetto è il tentativo di tenere insieme posizioni incompatibili in una logica di continuismo esasperato, tipicamente togliattiana, che alla fine si rivela soltanto opportunistica ».
Così il 1986 fu un'occasione mancata: «Purtroppo Berlinguer era morto e il successore Alessandro Natta mostrò limiti enormi: nell'anniversario della rivoluzione si recò in Ungheria a visitare Janos Kadar, l'uomo portato al potere dai sovietici, senza rendersi conto di come sarebbe stato interpretato il suo gesto. Ci vollero pressioni enormi per indurlo ad esprimere qualche parola di rispetto per Nagy. Anche per questo l'anno dopo fu sostituito, in modo un po' brusco, da Achille Occhetto, che però aveva ereditato l'anticraxismo berlingueriano e non aveva le idee molto chiare sul da farsi».
Intanto al Cremlino era arrivato l'innovatore Mikhail Gorbaciov: «Quando fu riabilitato Nikolaj Bukharin, vittima del grande terrore nel 1938, il Psi riprese l'offensiva. Io fui l'unico del Pci a partecipare a un polemico convegno socialista sullo stalinismo, nel marzo 1988. Tuttavia la nuova generazione comunista era più sensibile all'esigenza di rompere con il passato. Utilissimo a tal proposito fu il contributo di Miklos Vasarhelyi, un dissidente ungherese che era stato processato con Nagy. Realizzai con lui un libro intervista: buon conoscitore dell'Italia, toccò le corde giuste per indurre il Pci a una svolta netta».
L'occasione fu la cerimonia organizzata a Parigi in onore di Nagy, nel trentesimo anniversario dell'esecuzione, dal grande esule ungherese François Fejtö, recentemente scomparso: «La partecipazione di Piero Fassino, in rappresentanza del Pci, ebbe un forte significato politico. Claudio Martelli, anche lui presente, mi parve molto seccato. L'anno dopo era il 1989 e a Budapest, in un Paese ormai avviato verso la democrazia, ci furono i solenni funerali di Nagy e degli altri martiri della rivoluzione, sempre il 16 giugno: insieme a Fassino ci andò anche Occhetto. E di nuovo i socialisti non la presero bene: credo che il Psi abbia svolto un ruolo assai positivo nell'incalzare il Pci, ma abbia poi sbagliato nel volerlo azzerare. Craxi pensava di occupare l'intero spazio della sinistra, togliendo di mezzo i comunisti, mentre stava al governo con la Dc: un progetto palesemente irrealistico. E poi anche il Psi era stato stalinista e non poteva limitarsi a rimuovere quel suo passato senza rifletterci sopra».
È il settarismo, secondo Argentieri, che ha affossato la sinistra: «La svolta della Bolognina sfociò nel nulla, perché Occhetto era disposto a tutto fuorché a proclamarsi socialdemocratico. Ma anche il Psi si accanì inutilmente contro il Pds. E così certe incrostazioni sopravvivono ancora oggi, nonostante l'apertura degli archivi sovietici voluta da Boris Eltsin, una figura che andrebbe rivalutata. Nel 1996 pubblicai in allegato all'Unità un libro, La rivoluzione calunniata
(poi ripubblicato da Marsilio), nel quale dimostravo che Togliatti aveva non solo approvato, ma sollecitato l'intervento sovietico. E in precedenza avevo trovato documenti da cui risultava che il leader del Pci aveva preventivamente avallato l'esecuzione di Nagy, pur chiedendo a Kadar di rimandarla a dopo le elezioni italiane del 1958 (come in effetti avvenne). Ma molti fanno finta di niente: all'Istituto Gramsci, nonostante gli sforzi positivi del direttore Silvio Pons, è cresciuta una generazione che, patrocinata dal presidente Giuseppe Vacca, ancora difende il continuismo togliattiano. Se gli eredi del Pci non fanno davvero i conti con la loro storia, la sinistra non uscirà dal vicolo cieco in cui si trova».