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Per umiliare il Tibet

di Wang Chaohua - 27/06/2008

 

 

 

Oggi in Cina si sente parlare dappertutto di divario tra ricchi e poveri, che è in parte la base del crescente interesse per le attività di volontariato. Ma parlare di diritti politici peri poveri è tutto un altro paio di maniche. In questo senso, la società cinese è, in larghissima misura, effettivamente depoliticizzata. Come per i dibattiti politici al vertice, anche la vivacità culturale a livello sociale porta di solito con sé qualche traccia di retorica nazionalista. Come ha commentato un giovane intellettuale, oggi i cinesi sono convinti che la Cina sia «un paese normale» , come qualsiasi altro, che si distingue per le proprie caratteristiche culturali. Possiamo fare quello che fanno tutti, ma preferiamo farlo a modo nostro, che si tratti di beneficenza o di meditazione buddista. Dietro questo modo di pensare è nondimeno chiaramente visibile l’ansia di ottenere un riconoscimento sulla scena mondiale. Lo sguardo è fisso sull’Occidente.

 

Storicamente la Repubblica popolare cinese ha coltivato l’idea delle repubbliche etniche in stile sovietico, ma lo ha fatto solo per un breve periodo. Lo stesso si può dire dell’uguaglianza etnica in generale. Prima del 1958 la Repubblica popolare cinese manifestava in realtà molto entusiasmo verso l’identificazione e lo sviluppo delle minoranze nazionali all’interno dei propri confini. Le squadre etnografiche inviate sul campo identificarono un totale di 55 minoranze. Si crearono almeno 14 sistemi di scrittura per 12 gruppi etnici che non ne avevano mai sviluppato uno proprio, e molti altri furono riformati, raggruppati e sperimentati tra la popolazione interessata. Queste azioni furono generalmente bloccate intorno al 1958 e ulteriormente avversate dalla Rivoluzione culturale degli anni Sessanta, in nome di quella «accelerazione nella corsa al comunismo» che non intendeva più riconoscere le differenze etniche. Com’è logico la recessione economica pesò molto di più nelle aree occupate dalle minoranze etniche che non nelle regioni han, a motivo dei gravi danni culturali e linguistici subiti dalle prime. Si ebbe, è vero, un breve periodo di politica favorevole alle minoranze negli anni 1977-1985, ma purtroppo queste iniziative subirono un rallentamento fino ad arrestarsi del tutto negli anni Novanta, a causa della posizione governativa sullo sviluppo, concentrata quasi esclusivamente sulla crescita economica. Secondo le statistiche ufficiali del 2005 le minoranze etniche rappresentano in Cina 1’8,41 per cento del totale della popolazione, ma costituiscono il 45 per cento della popolazione totale che vive sotto la soglia di povertà. Anche tra le «regioni povere» identificate ufficialmente come tali, le regioni autonome rappresentano la stessa percentuale del 45 percento.

Sebbene in Cina le minoranze etniche rappresentino meno del lo per cento della popolazione totale, occupano ben il 64 per cento dell’intero territorio della Repubblica popolare cinese. Un’ampia porzione di questo 64 per cento è storicamente costituita dalle disabitate regioni tibetane. L’estensione del Tibet inoltre rappresenta una lunghissima (22 mila chilometri) linea di confine interno con altri Stati. Questi sono i crudi fatti della odierna questione tibetana.  E’ vero, come sostiene il Dalai Lama, che le regioni tibetane sono state vittima di un «genocidio culturale»?

La risposta è «sì» e «no». Si, perché i documenti ufficiali prodotti dalla Regione autonoma tibetana oggi sono in gran parte scritti in cinese, spesso senza alcuna traduzione in tibetano; la maggior parte delle riunioni amministrative si svolge in cinese mandarino e non in tibetano; gli esami di concorso per i posti di funzionario pubblico sono quasi sempre in cinese anziché in tibetano; le scuole elementari tibetane hanno introdotto il cinese come prima lingua e il tibetano come seconda. La ragione principale di tali fenomeni è la prassi nelle assunzioni dei funzionari di grado più elevato. Il Pcc, molto semplicemente, non si fida di una regione autonoma tibetana amministrata da tibetani.

 

Inoltre, con l’incessante attacco di Pechino contro il quattordicesimo Dalai Lama, il buddismo tibetano - confessione religiosa seguita nelle sue varie forme dalla maggioranza della popolazione tibetana - soffre di una identità frammentata. Grazie al suo carisma e alla sua levatura internazionale, qualunque cosa gli accada in futuro il quattordicesimo Dalai Lama è destinato a diventare un’altra leggenda nella storia culturale tibetana, al modo di uno dei suoi predecessori, il sesto Dalai Lama, poeta romantico ricordato con grande affetto dal folclore locale. I governanti di Pechino, con il loro pragmatismo, a quanto pare non si sono resi conto di questa possibilità. Si ritiene di solito che il governo cinese stia pazientemente aspettando il giorno in cui la procedura della reincarnazione con cui sarà scelto il prossimo Dalai Lama dovrà aver luogo internamente alla Cina e sotto il suo controllo. Avendo fissa in mente questa prospettiva, ogni volta che nelle regioni tibetane si registra qualche forma di agitazione sociale le autorità si scatenano contro tutti i tibetani e li costringono, uno per uno, a sottoscrivere una denuncia pubblica contro l’attuale capo religioso. La cosa sorprendente ma forse non casuale - è che il metodo è esattamente identico a quello che fu adottato con tutti i cinesi all’epoca della Rivoluzione culturale. Così facendo, invece di trasformare il Dalai Lama in un proprio successo politico, Pechino si è creato da sé un mulino a vento contro cui combattere per l’eternità. Le sessioni di rieducazione politica imposte a ogni tibetano residente in Cina hanno rappresentato l’esperienza politica più umiliante, in particolare per i giovani e colti tibetani che vivono nelle città han.

 

Molti di loro in realtà parlano appena qualche parola di tibetano, non sanno usare la lingua scritta e di certo non sono in grado di conservare la bellezza della loro lingua per consegnarla alle generazioni future ancora vitale e capace di rinnovarsi. Questo senso profondo di umiliazione nazionale non può che uscire rafforzato dalla strategia rozza e crudele imposta da Pechino ai loro connazionali rimasti sul Tetto del mondo.

 

D’altra parte, con oltre 1’80 per cento della popolazione tibetana che tuttora vive di agricoltura e che frequentale scuole rurali o i monasteri buddisti dove il tibetano è ancora la prima lingua, non sussiste alcun rischio imminente di una scomparsa della cultura tibetana. L’aumento del turismo, incoraggiato da Pechino mediante politiche preferenziali e investimenti ad hoc, ha portato molti giovani a più stretto contatto con le loro tradizioni di quanto avvenisse, per esempio, trent’anni fa. Come per i loro omologhi han, quel che manca loro è un riconoscimento politico formale e la protezione dei loro diritti. Ma a differenza dei loro colleghi han, le nuove generazioni di tibetani avvertono acutamente la necessità, l’anelito a una maggiore libertà per poter sviluppare una propria identità nazionale.

 

Dal giugno 1989 in poi il mondo ha identificato il coraggio e la dignità umana in Cina con il «ragazzo del carro armato», che rimane da solo davanti a una lunga fila di mezzi corazzati per bloccarli con la sua volontà di sfida. Oggi, a quasi vent’anni di distanza, è cresciuta una nuova generazione.

 

Nel 2004, in vista del quindicesimo anniversario del massacro di Tienanmen, Shi Tao, giovane poeta e giornalista nato nel 1968 ha inviato un messaggio via e-mail, usando il suo account su Yahoo!, a una rivista online filodemocratica con sede a New York. Comunicava informazioni su come il governo si stesse preparando al rischio di disordini politici in occasione dell’anniversario, informazioni apprese durante un incontro nel quale non era consentito prendere appunti.  Nella stessa occasione presentò una serie di commoventi poesie piene di ricordi dolorosi e di bruciante passione. In almeno due di esse prevedeva il suo scontro con la polizia in borghese e il suo successivo arresto.

 

La profezia si realizzò. Shi Tao fu condannato a dieci anni per «sovversione». A fornire le prove alla polizia cinese fu Yahoo!.  


NOTE


traduzione di Anna Tagliavini