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Scomparsi i monaci dalle strade di Lhasa

di Giovanni Cerruti - 14/07/2008

 

 

Il venditore di camicioni nepalesi dice che basta aspettare qualche minuto e «di sicuro ne passa almeno uno». Ed ecco un poliziotto, si riconosce dal rumore della radiolina che tiene in tasca. Mercato di Barkhor, attorno al Tempio di Jokhang, il più grande della città. «E poi ci sono anche quelli in divisa». Ed eccoli, in cinque in fila indiana, militari. Perché qui il 14 marzo è cominciata la rivolta, perché qui c'è l'aria che sa di tregua, perché a Pechino le Olimpiadi stanno per cominciare. E perché qui, tra le bancarelle e le botteghe, il pericolo convive: tibetani, cinesi «han» e cinesi «hui», i musulmani.

«No, io non accompagno nessuno a vedere i negozi bruciati a marzo», dice il camiciaio. Lui è tibetano, è di Lhasa. «E come tutti, qui, faccio i conti con la mia paura. Comunque i cinesi stanno in K-road...». Che è due strade più in là, dopo il mercato della frutta. Sulla sinistra gli han che vendono elettrodomestici e cd, sulla destra gli hui con il loro zucchetto bianco in testa, e trattano di tutto, pure la bancarella delle dentiere. Sono arrivati da poco, mesi o al massimo due anni, come dice il camiciaio. «Ci fanno concorrenza con roba copiata, falsa e a basso costo. E ormai sono diventati quasi la maggioranza».

Dopo gli incidenti, i morti, i saccheggi, gli arresti, le accuse di Pechino al Dalai Lama e il Tibet sigillato, gli stranieri sono tornati a Lhasa da due settimane. Pochini, quasi tutti giornalisti invitati dal governo, e la visita a Barkhor non rientra nel pacchetto, «perché non è possibile garantire la sicurezza». Ma non è proprio così. E' che passeggiando tra i negozietti si notano gli sguardi, si possono sentire le parole dei bottegai, si può capire quanto questa tregua sia assai fragile. Il camiciaio è sicuro: «Fino alle Olimpiadi sarà tutto fermo, ma tempo un paio di mesi e qui si ritorna al 14 marzo».

Le bancarelle di Barkhor rappresentano bene una città divisa in tre: tibetani, han e hui. In tutta la Cina gli han sono il 96%, tibetani e hui rientrano nel 4% delle minoranze. A Lhasa le statistiche ufficiali dicono che i tibetani sono l'87%, ma non è più vero, è un dato vecchio. La città è raddoppiata, e adesso si calcola che su 400 mila abitanti ufficiali solo la metà sia tibetana. E anche da qui, anche da questa nuova proporzione si possono capire gli umori che partono da Barkhor. E quanto il richiamo del Dalai Lama in esilio possa intimorire il governo di Pechino fino a mettere sotto accusa monaci e monasteri.

Nel tempio di Jokhang si scivola su pietre coperte da gocce di burro di yak, usato come cera per candele. Si sta in coda con vecchie, bambini, famiglie che portano in dono banconote, pomodori, mele. Dei diecimila monaci di Lhasa dal 14 marzo in strada non se ne incontra uno. Stanno chiusi nei monasteri come il Lama Awang, 36 anni e basette a punta, il direttore di Jokhang. Non possono parlare con gli stranieri, se non in cinese e in presenza di poliziotti. O, come nel caso di Awang, di interpreti ufficiali: «Anch'io ho sentito dire che è colpa del Dalai Lama, ma non ne so niente. E sono contro tutte le violenze».

Bisogna tornare nei vicoli e dal camiciaio, che dall'interno del negozio indica la bancarella che sta di fronte, sulla destra. Vendono posacenere con Mao e Lin Piao, teste di Mao, foto di Mao. «Quella roba qui non si era mai vista fino a qualche anno fa», dice. E ripete che dal suo negozio non si muove, che è la paura, «e per questo nessuno parla con nessuno, non ci si fida di nessuno, non si sa niente e non bisogna credere a niente». Perché a Lhasa l'informazione non c'è, e magari qui a Bankhor nascono leggende: l'ultima è quella che non bisogna bere acqua dal rubinetto, perché l'avrebbero avvelenata, anche se non si sa chi.

Il tempo di ottenere i permessi e aprirà bottega a Bankhor anche il signor Lih, 38 anni, lo zucchetto bianco dell'etnia hui. L'altro giorno era sul treno che arriva da Xining, quello che viaggia tra i ghiacciai a 5 mila metri e in 27 ore arriva a Lasha. «Sto andando in Tibet con mia moglie e i miei quattro figli - diceva in viaggio (anche nelle carrozze, tibetani di qua e cinesi di là) -. Ci hanno chiamato degli amici. Per noi hui ci sono molte opportunità di lavoro e avrò subito la licenza». Per gli hui che salgono in Tibet non solo licenze subito, anche mutui a tasso zero per l'acquisto della casa, nella città che s'allarga ai cinesi.

Così, a sentire pure il camiciaio, si può capire il rancore dei tibetani per quel treno che doveva collegarli alla Cina, e invece li sta riempiendo di cinesi. Porta 500 passeggeri: quando arriva è pieno, quando riparte è mezzo vuoto; chi non c'è è rimasto a far numero in Tibet, in quasi due anni ne sono arrivati un milione e i tibetani di Bankhor si lamentano. A dividerli dagli hui musulmani c'è la religione, a dividerli dagli han resta l'occupazione del Tibet nel 1951 e la cacciata del Dalai Lama dal palazzo di Potala, otto anni dopo. Domina la città, il Potala, ora vuoto museo. Il Dalai Lama è in esilio, la sua presenza proprio no.

Davanti a Jokhang ci sono le vecchine che avvicinano gli stranieri e dicono una frase che gli interpreti ufficiali non traducono, «Fate tornare il Dalai Lama». I poliziotti lasciano fare, non sono le vecchine a preoccupare. E' Barkhor come Beijing road, è quel che c'è attorno e dentro Lhasa. Il prefetto della città, Xiao Bai, dice che «la situazione è tornata normale dopo gli attacchi organizzati dal Dalai Lama con la complicità della stampa straniera, e resterà così». Il venditore di camicioni nepalesi non sembra d'accordo: «Ma il vero problema, per noi, è se dopo le Olimpiadi il Tibet dei tibetani interesserà ancora...».