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La via dell'atomo è una grande bugia

di Guglielmo Ragozzino - 21/07/2008

 
Greenpeace propone di discutere il nucleare lasciando da parte ogni prevenzione legata alla militarizzazione del territorio, o alla trasmissione del debito nucleare sulle generazioni future, o alla proliferazione. Un primo punto è la falsa convinzione sulla parte del nucleare nel mondo dell'energia. Il nucleare ha un ruolo molto inferiore di quanto non dica la pubblicità.

L'energia utilizzata nel pianeta è spesso disegnata sotto forma di torta. Essa presenta tre fette più grandi, petrolio, carbone, gas naturale. Poi vi sono le fette minori: nucleare, idroelettrico, rinnovabili. In termini di energia primaria totale la quota del nucleare è valutata in sede Ocse-Aie nel 6,3% contro il 2,2% dell'idroelettrico. Una classifica che fa testo. Però la produzione globale del nucleare è di 2,768 Twh mentre quella idroelettrica è stata di 2,994 Twh. (2005). Come si spiega che il nucleare pesi in termini di fetta-di-torta tre volte tanto? E che abbia perciò il triplo di importanza nei recenti discorsi dei decisori politici? Il fatto è che mentre la potenza idroelettrica diventa interamente elettricità, quella nucleare lo diventa solo per un terzo, mentre il resto è calore che si disperde quasi per intero, osserva Greenpeace. Non si usa cogenerazione a partire dal nucleare.

Punto due. Le risorse di uranio note sono pari a 3,3 milioni di tonnellate, in particolare in Australia e Canada; considerando le risorse stimate si arriva a un ordine di grandezza di 5,5 milioni. Il consumo per i 439 reattori in esercizio nel mondo è di 70 mila tonnellate annue (2008). Ai livelli attuali di consumo, sono coperti 50 o 70 anni, comprendendo i ritrovamenti attesi. Se i reattori raddoppiano, il tempo per l'esaurimento dell'uranio si dimezza. Se triplicano, come suggerisce l'Aie, indicando in 32 centrali da 1.000 Mw ogni anno, il contributo che il nucleare potrebbe fornire alla riduzione globale del 50 per cento dei gas serra, finirebbe ben prima del fatidico 2050. Sarebbe esaurito, per quella data, anche l'uranio proveniente dagli arsenali atomici inutili, di cui oggi si fa largo uso. Quella delle «mille centrali» da costruire è anche l'idea suggerita da Silvio Berlusconi in sede G8, ma non figurò nel comunicato finale, anche per l'opposizione di Angela Merkel. La cancelliera tedesca ha ammesso di essere favorevole all'uso del nucleare, ma di dover sottostare alla volontà della sua coalizione che ha deciso la dismissione del nucleare civile in Germania.
Berlusconi si è poi rifatto a Parigi alla conferenza sul Mediterraneo proponendo l'adunata dei consumatori di petrolio per ottenere dai produttori un prezzo più abbordabile, e minacciando l'uso massiccio del nucleare per ridurre l'Opec e gli altri a più miti consigli. Con che risultati, non si sa.
Punto tre. La maggior parte degli impianti nucleari sono entrati in produzione elettrica (collegati alla rete) tra 1967 e 2006. C'è una fase di salita che culmina con il 1984 e poi comincia una netta discesa quasi senza ripensamenti. Il declino non è riferibile agli incidenti né di Tree Mile Island (1978) né di Cernobyl (1986), ma allo scarto tra costi e ricavi previsti. Il costo principale è quello della costruzione dell'impianto, dei macchinari, degli schermi protettivi.

Per gli impianti nucleari servono aiuti di stato, garanzie sui prezzi, sicurezza di monopolio. Il vero nemico sono le liberalizzazioni. Esse sono in forte contrasto con la produzione elettronucleare che ha invece bisogno del dirigismo che offre risorse ed elimina gli ostacoli, legali e ambientali. Se manca qualcuno degli elementi elencati prima, la scelta nucleare si fa più aleatoria. Chi ama i paradossi può dire che è stata Margaret Thatcher, spalleggiata da Ronald Reagan, a sconfiggere il nucleare. Negli Usa, ripete Greenpeace, è stata la liberalizzazione a bloccare gli investimenti in nuovi impianti nucleari da 30 anni.
Punto quattro. In queste condizioni è molto difficile che si lanci un programma nucleare in Italia. Quattrini pubblici non ce ne sono. Se ci fossero, partirebbe subito da Bruxelles una procedura d'infrazione nei confronti del governo italiano. Basta ricordare il caso dell'Alitalia. D'altro canto l'Enel, braccio pubblico del settore elettrico, ha creduto di aggirare difficoltà e controlli investendo nel nucleare in Francia e in altri paesi, come la Slovacchia, nella speranza di ritrovarvi appoggio pubblico, garanzia sui prezzi, monopolio sicuro.

Punto cinque. Il costo principale di un chilowatt nucleare è dato dall'impianto che conta per oltre i due terzi. Ma quanto costa una centrale nucleare? Greenpeace risponde che le valutazioni sono molto discordi: per 1.000 Mw si va da 2 miliardi di euro secondo la valutazione dell'Enel ai 3,5 della E.On, sua grande concorrente tedesca, ai 4,6 miliardi indicati da Moody's che ha svolto uno studio in ambiente Usa, ai 5,2 miliardi di un altro conto di origine Usa, effettuato dalla compagnia elettrica Florida L&P. Quattrini che possono essere recuperati solo con lunghe dilazioni e quindi la remunerazione degli azionisti è il punto debole; diverso il caso di garanzie pubbliche, come per l'impianto di Olkiluoto, in Finlandia, per il quale la copertura è data dai francesi e dagli svedesi, gli uni essendo interessati all'impianto e gli altri alla produzione elettrica. L'impianto ha sfondato i tempi di costruzione e i costi sono più che raddoppiati. L'appaltatore Siemens ha incaricato un subappaltatore polacco, risultato inadatto. Conseguenza: ritardi ed extracosti.

Punto sei. Avrebbe un senso ambientale l'introduzione di un massiccio numero di centrali? Raddoppiando i reattori entro il 2030 e attivando 500.000 Mw nuovi, i costi d'installazione ammonterebbero a 2.000 miliardi di euro. Si dovrebbe allacciare in rete un nuovo reattore ogni 2 settimane. E le emissioni di Co2 si ridurrebbero solo del 3%: risultati raggiungibili altrimenti, con minor spesa e più libertà.