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Il caso di Eluana Englaro. Qualche riflessione

di Carlo Gambescia - 21/07/2008


Eluana Englaro, la ragazza di Lecco in coma da sedici anni dopo un incidente stradale, “adesso può morire”: i medici potranno staccare il sondino che la tiene in vita…
Scarne e involute le spiegazioni dei giudici della Corte d’appello civile di Milano. I quali sentenziano di “decisione inevitabile…vista la straordinaria durata dello stato vegetativo permanente e l’altrettanto straordinaria tensione del suo carattere verso la libertà e la sua visione della vita”. Più comprensibile, perché frutto di vero dolore, la prima reazione del padre, Beppino Englaro: “Ora la libereremo”. Meno altre sue dichiarazioni: “Non è eutanasia ma una scelta di libertà”; “Oggi ha vinto lo Stato di diritto”.
Due riflessioni.In primo luogo, la nostra società nega e nasconde la morte. Ai bambini si spiega che i nonni spariscono tra i fiori. I malati terminali spesso muoiono, isolati dal mondo, in apposite strutture ospedaliere. Mentre anzianità e la vecchiaia, ancora nell’Ottocento, erano vissute come graduale preparazione alla morte, oggi sono negate in nome, se ci si passa il sociologhese, di un ridicolo “giovanilismo eternista”. Perciò ora l’uomo è impreparato ad affrontare, come si diceva un tempo, una “una buona morte”, quale naturale conclusione della vita, o comunque, come passaggio a un’altra vita. Il che del resto è scontato, piaccia o meno, in una società, come questa, che nega l’Aldilà. E dove, di conseguenza, morire significa sparire e perdere le “dolcezze” consumistiche della vita: se il “paradiso” è in questo mondo, la morte non può non essere vissuta come un’ingiustizia ( e negata, o quanto meno scacciata )... Ecco però, che di colpo, Eluana Englaro - come già Piergiorgio Welby - con il suo corpo dolente, richiama tutti alla nuda realtà della morte.In secondo luogo, la nostra società è profondamente segnata dall’individualismo. Ma da un individualismo di tipo particolare, da alcuni definito “assistito” o “protetto” Nel senso che i diritti individuali devono essere ( e sono) garantiti da strutture pubbliche: dal potere sociale. L’individuo è libero di decidere ma all’interno di un “percorso” istituzionale e societario obbligato. Che in certo senso, finisce per condizionare, spesso pesantemente, la decisione del singolo. Si pensi alla tutela del diritto al lavoro, alla salute e all’istruzione, affidata per legge ai controlli di occhiute e impersonali burocrazie. Si può perciò parlare di diritti individuali “vincolati” al riconoscimento di un potere sociale o pubblico, talvolta inefficiente, che si manifesta e concretizza attraverso leggi, giudici, regolamenti e funzionari.
Pertanto che significato può assumere, dinanzi “burocrazie” di cui sopra, parlare di una “scelta di libertà”, come fa appunto il padre di Eluana? Il quale, in buona sostanza, rivendica, davanti a una società che si illude di essere libera, il diritto individuale alla dolce morte.Quali conclusioni? La miscela tra rifiuto della morte e individualismo assistito, potrà condurre, prima o poi, solo a qualche cattiva legge, approvata magari in fretta, che riconoscerà a burocrazie legali e mediche l’ultima parola sulla vita di uomini e donne. Si pensi, ad esempio, alle difficoltà insite nella strutturazione stessa di protocolli medici “sicuri” in materia. Oppure al rischio di “routinizzazione” dell’ iter di accertamento medico-legale dei requisti per aver “diritto” alla “morte assistita” o “protetta” . Ma, allora, che fare? Difficile dire. Purtroppo, la sola scelta, è quella tra l’attuale divieto di darsi da soli una morte liberatoria e l’approvazione di una legge che deleghi a notai, giudici e medici un potere di vita e di morte sugli individui.Molti penseranno meglio una cattiva legge che nulla… Certo, ma può essere definito libero un individuo la cui sorte ultima rischia di dipendere dal potere sociale o pubblico?