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Bianciardi, il profeta della politica «agra»

di Paolo Di Stefano - 22/07/2008

 

 

I politici italiani? «Stinti, mediocri, senza un’idea, preteschi, subdoli, intriganti, faccendieri, sessualmente dubbi, qualcuno finocchio, qualcuno vergine a cinquant’anni, qualcuno flagellante. Non mi garbano per niente, e non mi garba il sistema». Chi parla è Luciano Bianciardi, in una lettera inviata alla figlia Luciana alla fine degli anni 60. La furia irresistibile dell’autore della «Vita agra» non risparmiava quasi nessuno.

 

Il 4 marzo 1970 da Rapallo se la prende con i giudici che il giorno prima hanno condannato a un anno e due mesi di reclusione Piergiorgio Bellocchio, direttore di «Lotta continua», per «istigazione a delinquere» in relazione agli articoli che indicavano in Calabresi il responsabile del «suicidio» di Pinelli. Nella stessa lettera scrive: «Ora danno l’incarico a quella bella faccia del Moro. Io non so, non credo nell’uomo del miracolo, ma governanti peggio di questi l’Italia non li ha». E non salva i comunisti, che considera «peggio di tutti (...), dopo il bel servizio che hanno fatto a Natoli e alla Rossanda» (riferendosi all’espulsione degli «eretici» dal Pci nel novembre ‘69).

 

Sembra ironizzare sui politici «finocchi», ma in un’altra lettera alla figlia spara a zero contro sua Eccellenza Rocco, autore di quel codice in virtù del quale è stato condannato per plagio l’omosessuale Aldo Braibanti. Aggiunge una poesiola satirica: «Se ti fa proprio piacere / Insolenta il ferroviere. / Ma gli insulti tuoi più belli / Tienli in serbo per Agnelli / Per Agnelli, per Pirelli, / Per il Giangi Feltrinelli / E se ancora ne hai nei cesto / Puoi mandarli a Paolo Sesto». Come si può notare, c’è di tutto: strali uguali contro l’anonimo ferroviere, Agnelli, Pirelli, Paolo VI, e persino Feltrinelli, l’editore con il quale lavorò per anni prima di essere licenziato «per scarso rendimento». In realtà, scriverà, perché camminando «strascicava i piedi». Contro i politici, non ne parliamo. Tutto questo lo sapevamo, ma lo sappiamo ancora meglio leggendo il dossier Bianciardi contenuto nel nuovo numero della rivista «Il caffè illustrato», diretta da Walter Pedullà.

 

Insomma, Bianciardí come una specie di Grillo ante litteram? Con qualche differenza. Tutta questa bile anti-tutto, lo scrittore grossetano la rovesciava senza freni nelle sue lettere alla figlia, non pontificando sulla pubblica piazza davanti ai teleschermi di mezza Italia. Eppure, come fa giustamente notare Beppe Sebaste, a rileggere le opere di Bianciardi «si rimane turbati dall’anticipazione cruda e consapevole dell’infelicità esistenziale e politica in cui ci dibattiamo oggi». Al tempo del miracolo economico, Bianciardi parla di precarietà del lavoro, di denaro, di televisione, di alienazione, di pubblicità, dell’estraneità dei politici con una visionarietà dolorosa e profetica che lui stesso avrebbe pagato subendo diversi processi e vivendo una vita breve e maledetta. Qualche esempio? Eccolo: «Tu vorrai il frigorifero, dice la pubblicità, tu la macchina nuova, tu addirittura una faccia nuova. E loro vogliono quel che il padrone impone, credono che sia questa la vita moderna, la felicità»; «La politica, come tutti sanno, ha cessato da molto tempo di essere scienza del buon governo, ed è diventata invece arte della conquista e della conservazione del potere». Sembra il 2008. E’ «La vita agra», anno 1962.