Il Medio Oriente non si aspetta cambiamenti se sarà eletto Obama
di Michael Slackman e Isabel Kershner - 25/07/2008
Da sempre si ha la sensazione che gli israeliani e i loro vicini arabi siano in una impasse irreparabile su come risolvere la crisi palestinese. Ma c'è un punto sul quale ora potrebbero essere d'accordo: se verrà eletto presidente, il senatore Barack Obama fondamentalmente non ricalibrerà il rapporto fra l’America e Israele, o il mondo arabo.
Dal centro religioso di Gerusalemme alle colline ondulate di Amman, alle strade affollate del Cairo, decine di interviste hanno rivelato una opinione simile: gli Stati Uniti sostanzialmente appoggeranno Israele rispetto ai palestinesi, a prescindere da chi sia il presidente. Questa ipotesi ha incoraggiato un certo livello di sollievo in Israele, e di rassegnazione qui in Giordania, e negli altri vicini arabi di Israele.
“Quello che sappiamo è che i presidenti americani appoggiano tutti Israele”, dice Muhammad Ibrahim, uno studente universitario di 23 anni che lavora part time vendendo cocomeri per strada nella parte sud di questa città. “Non c’è speranza. Questo è come l'altro. Sono tutti uguali. Non cambierà niente. Non aspettatevi un cambiamento”.
Dall'altra parte del confine, in Israele, Moshe Cohen non potrebbe essere più d'accordo. “Lì gli ebrei sono influenti”, dice, mentre vende biglietti della lotteria lungo Jaffa Road, a Gerusalemme. “Dovrà comportarsi bene con Israele. Altrimenti, non sarà eletto per un secondo mandato”.
Obama, che sarà qui oggi, ha promesso un cambiamento: ha offerto di iniziare un dialogo laddove l'attuale presidente ha rifiutato, in posti come Siria e Iran. Ma quando ha messo piede in Medio Oriente, è entrato in una regione dove le aspettative pubbliche sono state fissate molto tempo fa. Gli anni di Bush hanno caricato di molto questi sentimenti, in particolare nel mordo arabo, dove c'è poca fiducia nel fatto che gli Stati Uniti possano mai tornare a fare da mediatore imparziale tra le parti.
In Israele, Bush era visto come il presidente americano che aveva dato il maggior sostegno finora, e i primi sondaggi di opinione mostrano che c'è una preferenza per quello che presumibilmente sarà il candidato Repubblicano, il senatore John McCain.
Obama tuttavia ha guadagnato terreno — o lo ha perso, a seconda di quale fra le reazioni delle due parti viene presa come metro di valutazione — quando in giugno ha parlato di fronte a una lobby filoisraeliana, l'American Israel Public Affairs Committee. Ha detto che Gerusalemme “rimarrà la capitale di Israele, e deve rimanere indivisa”.
Successivamente ha precisato i suoi commenti, dicendo che intendeva dire che le due parti di Gerusalemme non dovrebbero essere separate da muri o filo spinato. Ma il messaggio era già stato inviato.
“Gli arabi hanno bisogno che l'America sia diretta e imparziale, ma ad ogni modo abbiamo la sensazione che la politica americana non cambierà molto”, dice un palestinese che fa il commesso in un negozio di elettrodomestici nel centro di Gerusalemme Est – la parte araba, e che dà solo il suo soprannome, Abu Fadi.
Dietro questo accordo generale, c'è una differenza fondamentale. Nelle strade dei Paesi arabi, c'è una speranza, magari limitata, che questo candidato potrebbe essere diverso. E' nero, suo padre era musulmano, e come secondo nome ha Hussein, quindi c'è speranza che possa essere più in sintonia, anche se questa speranza non si accompagna ad alcuna aspettativa.
“C'è ottimismo avvolto nel cinismo” , dice Hussein al-Shobokshy, editorialista di Al Sharq al Awsat, quotidiano panarabo di proprietà saudita.
In Israele, è vero il contrario: permane il sospetto che Obama stia dicendo quello che deve dire per essere eletto.
Uri Savir, un ex direttore generale del ministero degli Esteri israeliano e ora presidente del Peres Center for Peace di Tel Aviv, dice che ci sono persone che vogliono la pace, come lui, che “sono proprio eccitati riguardo a quello che può portare Obama”.
Tuttavia, riconosce che i suoi amici di centro-destra sono alquanto più ambivalenti. “Si chiedono: è veramente un amico di Israele?”, dice.
La risposta qui e al Cairo e in altri posti della regione è: naturalmente sarà un amico di Israele.
“Assomiglia a un camaleonte” , dice Walid Ghalib, 50 anni, mentre compra la carne da un macellaio nel quartiere di Jabal al Nasr, nella parte est di Amman. “Un giorno è con la causa palestinese; un giorno è con Israele. Qui abbiamo un detto: ‘Cosa è meglio: un cane nero o un cane bianco?’ E’ lo stesso. Per noi, non cambierà nulla”.
Qui non è sempre stato così, ma l'indifferenza è una lezione appresa.
Otto anni fa, molti arabi, sia leader che cittadini, fecero il tifo per il governatore George W. Bush rispetto al vice presidente Al Gore nella corsa per la presidenza. Si partiva dal presupposto che Bush sarebbe stato come suo padre, che era considerato relativamente amico degli arabi.
Quasi quattro anni fa, fra gli arabi c'era la speranza che gli americani avrebbero dato il benservito al Presidente Bush ed eletto il senatore John Kerry. Il Presidente Bush aveva deluso. Poi gli elettori americani hanno fatto lo stesso.
“L'opinione pubblica araba c'è già passata”, dice Mustafa Hamarneh, l'ex direttore del Center for Strategic Studies dell'Università della Giordania. “Abbiamo tifato per questo e per quello, e non è successo niente. E' un déjà vu”.
“A meno che gli americani non capiscano che devono veramente cambiare e diventare più imparziali e applicare la giustizia nella regione, le cose rimarranno le stesse”, dice.
La Giordania è un Paese piccolo: solo sei milioni di abitanti, metà dei quali sono di origine palestinese. Non ha petrolio né molta acqua, ed è stata molto danneggiata dalle crisi in Cisgiordania e in Iraq. Obama visiterà una città di tensioni politiche ed economiche, che sono inevitabilmente intrecciate. Inoltre, è conservatrice, pulita, e tranquilla.
Obama “non sarà diverso da Bush” , dice Muatasim Hussein, 34 anni, che vende noci in un negozio all'angolo di una strada nella parte est di Amman.
“Che cosa sarà diverso?”, dice Jasser Shehadi, 40 anni, che vende scarpe nel negozio accanto. “Sono tutti uguali”.
Dall'altra parte della strada, Muhammad al-Banna, 41 anni, dice: “Obama è eccezionale. E' diretto. Sembra il successore di J.F.K.”
Immediatamente, Khaled Attiat, un falegname che lavora in una bottega aperta sulla strada, irrompe nella conversazione. “Oh, andiamo”, urla. “Sono tutti pessimi nello stesso modo”.
“Sì, sono tutti pessimi", replica Banna, "Obama, però, potrebbe esserlo un po' meno”.
La reazione è simile in Egitto, che, come la Giordania, è uno dei più stretti alleati dell'America nella regione.
“Per me, non ha importanza che sia nero o che si chiami Hussein”, dice Ahmed Amin, 34 anni, mentre beve una birra in un bar nel centro del Cairo. “E' americano, e quindi non sono d’accordo con la maggior parte di quello che dice sul mondo arabo. Voglio dire, Condoleezza Rice era nera e povera, eppure ha invaso l'Iraq”.
Tuttavia, c'è almeno una lezione positiva che alcuni traggono in questa regione dal successo di Obama. E' servito – dicono in molti qui - a restaurare un po' della loro fiducia nella democrazia di tipo americano, che negli ultimi anni era stata macchiata dall'invasione dell'Iraq, e da una Amministrazione che parlava di promuovere la democrazia, ma poi sembrava fare marcia indietro rispetto alle sue promesse.
Gli Stati Uniti, molti dicono, potranno essere un sostenitore fazioso del sionismo ostile ai musulmani, ed essere tuttavia, per i loro cittadini, un posto di opportunità qui sconosciute.
“Penso che colpisca molto il fatto che qualcuno possa iniziare molto povero e arrivare in cima in questo modo”, dice Hazen Haidar, 23 anni, impiegato in una palestra al Cairo. “Qui in Egitto non succede”.
Michael Slackman da Amman, e Isabel Kershner da Gerusalemme. Mona el-Naggar ha collaborato alla raccolta di elementi da Amman, e Nadim Audi dal Cairo.
(Traduzione di Ornella Sangiovanni)
The New York Times
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