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Una pagina al giorno: l'agnellino azzurro di Nicola Lisi

di Francesco Lamendola - 28/07/2008

 

 

Un vecchio adagio afferma che «il tempo è galantuomo»; ma ciò non è sempre vero, almeno nel campo della letteratura, costretta a passare per il crivello mercenario di un'industria  editoriale che soggiace al doppio condizionamento del calcolo commerciale e della critica letteraria.

Quanto al primo fattore, c'è poco da dire: è evidente di per sé; e tutti sanno che non pochi capolavori letterari, da Senilità di Svevo a Il porto sepolto di Ungaretti, dovettero essere stampati a proprie spese dagli autori, in poche copie da regalare agli amici, presso delle semplici tipografie di provincia.

Sul secondo fattore ci sarebbe molto da dire, anche perché interessa specificamente la situazione culturale italiana; ma la cosa ci porterebbe troppo lontano. Basterà qui ricordare che, mentre in Francia - ad esempio - è sempre esistito un «tribunale del popolare» per cui il pubblico, leggendo avidamente la versione a puntate di romanzi come Madame Bovary, decretava il successo di un'opera letteraria prima ancora che un editore la pubblicasse in volume, nel Bel Paese il tribunale inappellabile è quello dei critici, una razza meschina e venale, che riesce a paralizzare la circolazione delle idee pur di difendere con le unghie e coi denti i propri interessi di casta. Una volta Mussolini, allo scrittore Salvator Gotta che difendeva le buone ragioni del «sistema», chiamiamolo così, francese, rispose con una osservazione perspicace: che l'ingresso all'Accademia d'Italia lo decidono i critici, non il pubblico, dato che da noi il peso della tradizione è più forte che in qualunque altra nazione al mondo…

Ad ogni modo, il tempo non è stato - finora - galantuomo con uno scrittore italiano che è vissuto in punta di piedi e che ha firmato alcune opere di una leggerezza e di una soavità straordinarie, fedele a un proprio mondo interiore e alieno da qualunque compromesso con le mode culturali tanto apprezzate, invece, dai signori critici. Parliamo di Nicola Lisi, nato a Scarperia, piccolo paese a quasi 300 metri d'altezza sulle colline fiorentine, nel 1893 e morto a Firenze nel 1975. Uno scrittore raccolto, schivo, quasi pudico; uno che, quando in Italia furoreggiavano le stucchevoli balordaggini superomistiche e ultradecadenti alla D'Annunzio, parlava delle cose semplici, della natura, dei silenzi dell'anima; quando gli Italiano furono investiti dalla febbre della guerra, continuò a parlare di amore, di pace, di fratellanza; e quando imperversarono le faziose e fegatose contrapposizioni della «guerra fredda», non partecipò al furore generale, ma seguitò diritto per la sua strada, a ricordare ai suoi lettori che vi sono cose più importanti e più urgenti delle passioni di questo mondo, lo sguardo fisso verso la patria finale dell'uomo.

Per qualche tempo, fino a tre o quattro decenni fa, era ancora possibile trovare qualche suo brano nelle antologie scolastiche: termometro sensibilissimo degli umori e dei rancori che imperversano nel Palazzo della critica letteraria nostrana. Poi, abbastanza bruscamente, più nulla. La nuova generazione dei critici, quella uscita dai venti del 1968, lo mise da parte senza più degnarlo della minima attenzione: lo cancellò, come se non fosse mai esistito. Forse il suo dichiarato cattolicesimo dava un po' fastidio, nella Repubblica democratica e antifascista dove il solo cattolico buono era quello di sinistra e, possibilmente (quasi a farsi perdonare il vizio della religione) rivoluzionario. Forse la sua visione candida, estatica, quasi mistica della realtà parve a lorsignori una inconcepibile diserzione dai bollenti doveri dell'impegno sociale o, peggio, un'astuzia e una posa: sciocco, dunque, il Lisi; o, se non sciocco, furbastro e insincero.

Per farsi un'idea di quanto la sua figura di artista sia stata deliberatamente rimpicciolita dai professionisti del bello e del cattivo tempo letterario, basta leggere le poche, avare righe che gli dedica la Enciclopedia Garzanti della Letteratura (edizione 2005, vol. 1, p. 583), usa a dedicare  uno spazio ben più generoso a scrittori mediocri, ma «alla moda».

 

LISI, Nicola (Scarperia, Firenze, 1893- Firenze, 1975), prosatore italiano. Esponente della cultura cattolica fiorentina, collaboratore del «Frontespizio», fu autore di prose pervase da una religiosità popolare che lascia molto spazio al senso del magico e del surreale, fitte di visioni e di simboli e improntate a grande nitore formale. Favole (1933), Paese dell'anima (1934), Concerto domenicale (1941); Diario di un parroco di campagna (1942); Parlata dalla finestra di casa (1973).

 

Sorvoliamo su quella definizione riduttiva di «prosatore»: sia perché molte pagine di Lisi sono vera e propria poesia in prosa (secondo la lezione del miglior Manzoni); sia perché uno è scrittore o non lo è: se lo è, del tutto secondaria risulta la specificazione se egli rientri nel genere dei prosatori, dei saggisti, dei drammaturghi o dei poeti.

Sta di fatto che, da queste poche righe, rimane escluso uno dei suoi libri migliori, L'arca dei semplici, del 1938, di cui fa parte il racconto L'agnellino, che qui desideriamo presentare; così come ne rimangono esclusi alcuni momenti fondamentali del suo itinerario di scrittore.

Ne ricordiamo almeno i più significativi: l'amicizia  con Piero Bargellini e con Carlo Betocchi, insieme ai quali pubblicò, nel 1923, il Calendario dei pensieri e delle pratiche solari, che si può considerare come il preludio al movimento di «Strapaese»; l'esordio letterario con L'acqua, del 1928, dramma fantastico-religioso che l'autore definì una rappresentazione umana; una serie di opere, quali Amore e desolazione. Diario: 1° gennaio- 31 luglio 1944 (1946); Nuova Tebaide (1949) e i drammi la via della Croce (1953) e Aspettare in pace (1957), concepiti sul genere delle sacre rappresentazioni; e poi, ancora, La faccia della terra (1960); I racconti (1961); Il seme della saggezza (1967). Curò infine, in collaborazione con A. Hermet, una Antologia di scrittori cattolici dei nostri giorni (1930) e tradusse il Vangelo di San Matteo (1941).

Un'altra cosa importante da dire è che nell'arte di Nicola Lisi coesistono le suggestioni «buffe» di Aldo Palazzeschi, quelle «ingenue» dei primitivi e quelle dell'antica novellistica toscana, soprattutto per quello che riguarda i modelli tematici; elementi tutti che egli fonde nel comune denominatore di una visione profondamente religiosa della vita.

 

 

Nella novella L'agnellino, che fa parte del volume L'arca dei semplici (Vallecchi editore, Firenze, 1938) si trovano le caratteristiche tipiche dello stile inconfondibile di questo autore: che, a nostro avviso, ricorda un po' quello di Tommaso Landolfi, per l'aria di mistero e quasi di surreale che lo pervade; ma, al tempo steso, quello di Giovanni Papini per la linearità e la limipidezza formale e per l'assenza di sbavature retoriche.

Sin dalla prima frase, dalla prima riga, siamo catturati nel cerchio magico di una situazione senza tempo, che potrebbe essere di mille anni fa come dei nostri giorni; da un'aura mitica e affabulatoria che ha qualche cosa di corale e, al tempo stesso, di estremamente intimistico; qualche cosa che sta curiosamente sospesa  a metà strada fra il piacere di narrare in quanto tale, e una arcana dimensione didascalica, se non addirittura edificante, come in certe novelle di Boccaccio. Non il Boccaccio della beffa e della grassa risata, ma il Boccaccio dello stupore, dei misteriosi trasalimenti e delle parole non dette, come nella novella quinta della decima giornata del Decamerone (cfr. F. Lamendola, Il giardino d'inverno, sempre sul sito di Arianna Editrice).

 

Anni fa, dopo molto vagare fra i boschi, mi trovai inaspettatamente in uno spazioso prato di forma concava, dove numerose pietre sporgevan dal suolo. Attratto dal luogo mi sedetti su una di esse. Spirava ancora la brezza dell'alba; il cielo splendeva più d'amore che di luce.

Alcunché di vivo mi toccò una mano e mi voltai: era un agnellino che mi guardava supplichevole. Non sapendo che fare di meglio, gli posai una mano sul capo e cominciai a carezzarlo lungo il dorso, fermandomi a un ciuffo di lana celeste. Me l'avvicinai per rendermi conto se lo avesse tinto il pastore: appoggiò, mansuetissimo, la testa sulle mie gambe. Guardai con molta attenzione quel ciuffo celeste e mi parve, dalla bianchezza del vello, dalla unità di colore, un segno nativo.

Mi alzai e l'agnello mi venne dietro. Girai tutt'attorno al prato aspettando di veder apparire dal bosco il pastore. Gli avrei domandato della pecora che aveva figliato l'agnellino e se era essa nel branco. Ma se il ciuffo celeste non era un segnato nativo gli avrei chiesto come e quando fosse avvenuto il cangiamento: se per lenta mutazione del colore oppure improvvisa, e in questo caso in qualche stagione e mese, se di notte o di giorno, all'ombra o al sole, ma non vidi nessuno ed entrai nel bosco per tornare a casa, mentre l'agnellino continuava a seguirmi. Gli feci cenno di restare nel prato e subito piegò le zampette guardandomi come al momento dell'incontro e belando fitto fitto. Lasciai che venisse con me.

Facemmo la discesa quasi di corsa. Sulla strada maestro e poi nel borgo, le poche persone che incontrai mi chiedevano se avessi comprato l'agnellino. Io rispondevo di sì e costoro sostavano sorpresi; ma non volevo dire di più, perché non mi venissero dietro.

Aprii la porta di casa, e l'agnellino non si peritò a entrare, anzi se ne rallegrò saltellandomi intorno. La mattina a buio, prima di andare in montagna, sicuro di tornare a casa di buon appetito, mi ero apparecchiata la tavola; nella madia avevo pane, frutta e formaggio. Mi misi a sedere e cominciai a mangiare; l'agnellino, dall'altra parte della tavola, riprese a guardarmi supplichevole.

- Certamente - pensai - ha fame ed è ancora abituato a poppare,

Mi ricordai che durante io tragitto dal prato a casa non gli avevo mai visto brucare un filo d'erba. Lasciai il desinare a mezzo, presi un fiasco vuoto e andai dalla lattaia. L'agnellino mi venne dietro. La donna, dopo avere versato il latte, si accorse del ciuffo celeste e disse:

- I pastori contrassegnano il gregge di rosso; lei ha preferito un altro colore.

La lattaia, come tutti nel borgo, mi tenevano in conto di uomo lunatico, buono di carattere sì, ma non doversi troppo considerare. Salutai la donna con affabilità e tornai a casa.

L'agnello bevve il latte e io finii di mangiare. Uscimmo fuori. Mi sedetti sullo scalino L'agnello corse al piede dell'olivo, di faccia alla finestra di camera, e alzandosi sulle zampe posteriori mi chiedeva, nel suo modo evidente, che ve lo mettessi sopra, dove, mi accorsi, poteva benissimo stare in piedi o sdraiato. Lo presi in collo e lo posai lassù: si mise sdraiato. Mi pareva guardasse la montagna da cui era venuto.

Calmo, chiaro pomeriggio d'autunno! Col cuore in quella pace, ed esercitato alla tenerezza, potevo partecipare, alla gioia diffusa per l'orizzonte collinoso e alpestre.

Quando vidi apparire una stella, levai l'agnellino di sull'olivo e lo portai a casa. Mi sedetti, tenendolo in collo, sotto la finestra. E io stavo a guardare il ciuffo di lane celeste.

Così venne la notte. Accesi la candela e mi sdraiai  su un tappeto con l'agnellino racchiuso tra le mie braccia. Attesi che si addormentasse. Allorché chiuse gli occhi, e abbassò il muso sino a toccare con la bocca il tappeto, presi la candela di sulla tavola e andai nella stanza accanto, che era la camera mia.

Stavo per chiudere l'uscio; l'agnellino venne di corsa e voleva entrare; lo presi per le zampe davanti e garbatamente lo respinsi.

Appena desto, andai in cucina e poi nelle altre stanze: l'agnellino era scomparso. Notai la porta di casa semiaperta, ma ricordai di essere entrato la sera avanti con l'agnellino in collo: non avevo pensato più a chiuderla. Come sperai di rivederlo al piede dell'olivo, nell'atto di voler salire tra i rami oppure già salito chi sa come tra i rami stessi!

Sulla porta di casa, guardando quella che fino allora era stata lamia pianta prediletta, persi la speranza che mi restava. Girai per i campi vicini, mi recai alla fonte, ritornai in quello stesso giorno al prato concavo, dove mi sedetti, credo, su ciascuna delle numerose pietre.

Aspettai sin dopo il tramonto e avrei aspettato sino all'alba e oltre, se mi fosse rimasta una  qualche speranza. Invece ero sicuro di aver perduto il mio agnellino per sempre, forse già comparso a un'altra creatura più fedele di me.

 

Incanto; semplicità; stupore: questi i tratti che emergono con forza dal racconto esile, quasi dimesso, eppure carico di una straordinaria suggestione e di una forza evocativa che penetra sino in fondo all'anima.

Da dive veniva l'agnellino, di chi o di che cosa era simbolo? E quella strana macchia celeste, che cosa stava a indicare?

Sobriamente, senza inutili eccessi, l'autore ci lascia intuire il suo rammarico, la sua pena profonda per la scomparsa del mite e affettuoso compagno; e come egli abbia intuito con estrema chiarezza, aspettandolo invano nella radura del bosco, la ragione di quella brusca partenza.

Respingendolo lungi da sé, quella notte, egli ha rotto il patto di fraternità che aveva stabilito con il dolce animale. Dopo averne conquistato la confidenza, lo aveva allontanato: non aveva compreso fino in fondo l'eccezionalità di quell'incontro.

Per questo esso è scomparso; per riapparire, forse, a un'altra creatura, capace di una maggiore comprensione e, quindi, di una maggiore fedeltà.

 

Lo scrittore trevigiano Ferruccio Mazzariol, autore - anch'egli - di libri «incantati», come Il paese dei gelsi, ha definito Nicola Lisi il viaggiatore incantato.

Scrive il Mazzariol (in Nicola Lisi, viaggiatore incantato, Editrice Forum, Forlì, 1977, pp. 105-106):

 

La narrativa de L'arca dei semplici è, complessivamente, ripetizione di un archetipo della scrittura che sta prima della parola scritta; essa discende dal cuore e dalla memoria, da mondi favolosi popolati di figurazioni ossessive, ma anche gioiosamente infantili, si accompagna  al sogno e alla visone; e trova nella semplice il suo esito più alto.

il flusso di coscienza della narrativa lisiana (…) è caratterizzato, come sempre, dal privilegio dell'infanzia, e si origina nel passato e non tende soltanto verso il futuro escatologici: è un passato di fole medioevali, in cui il sentimento religioso non prevale, ma si giustappone accanto ad una realtà, resa di per sé, visionaria e favolosa.

 

In effetti, pochissimi scrittori italiani contemporanei hanno avuto il dono di farci sentire con altrettanta forza e nostalgia, e al tempo stesso con uguale semplicità e naturalezza, il dolcissimo, profondo incanto del mondo che ci circonda, così come quello del mondo che si cela nelle pieghe più riposte dell'anima nostra.