Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Comprensione intellettuale e pratica dell’”innocenza” originaria

Comprensione intellettuale e pratica dell’”innocenza” originaria

di Giuseppe Gorlani - 01/08/2008

 

 

 

 

 

 

   In una bella intervista a Raimon Panikkar,[1] questi esprime in sintesi il seguente pensiero: l’uomo ha perduto l’innocenza edenica non appena si è risvegliata in lui la conoscenza dualistica discriminante tra bene e male, giusto ed errato, ecc. Dato però che egli non può riedere all’Eden smarrito, il cui accesso è sbarrato da due Angeli con spade di fuoco, è necessario che prosegua nel suo cammino-pellegrinaggio al fine di realizzare la «nuova innocenza».[2] Che cosa si deve intendere con tale locuzione? Il pervenire ad uno stato in cui non si sa nulla, non si vuole nulla e si smette di giudicare e di nuocere, pur senza scadere nell’inerzia e nell’indifferenza. In modo significativo la parola “innocente” deriva dal latino in-nocens, «che non nuoce», e si accorda alla perfezione col termine sanscrito ahiõs…, «non violenza», di cui il Glossario Sanscrito dice: «Attitudine di colui che, avendo realizzato la Verità nella sua unità assoluta, si astiene spontaneamente da ogni atto e pensiero suscettibili di nuocere ad un essere vivente».[3]

   Personalmente credo che quanto sopra esposto sia in buona sostanza condivisibile con l’aggiunta, però, di alcune precisazioni. Innanzitutto il non sapere nulla è tale solo dal punto di vista limitato della mente dicotomica. In realtà un simile non sapere è il manto in cui s’avvolge il vero sapere, la Conoscenza per identità, j¿…na-vidy…. Non si tratta dunque di non sapere semplicemente questo o quello, bensì di svelare consapevolmente, nel silenzio di qualsivoglia proiezione psichica, l’identità con l’Essere.

   Assai giustamente, pur utilizzando lo strumento limitato delle parole, la Tradizione del San…tana-dharma osa affermare che la Conoscenza suprema può essere indicata come Sat-Cit-ƒnanda: essere, coscienza e beatitudine assoluti. Se ne deduce che sapere mondano e Para-vidy… non sono di necessità in opposizione: si può essere dotti e conoscitori della Realtà ad un tempo. E si può essere pure ignoranti, da un punto di vista nozionistico, e Conoscitori. Nessun fenomeno produce o tocca la Conoscenza; essa, nella sua assolutezza sovrarazionale, comprende e trascende la condizione umana, non la nega. Alla luce di ciò mi pare altresì inesatto sostenere che la «nuova innocenza» coincida sic et simpliciter col non giudicare, col non volere o col non uccidere. C’è una terza posizione, quella che consente di giudicare senza giudicare, di volere senza volere o di uccidere senza uccidere,[4] ovvero di osservare questa persona esprimere il proprio svadharma [5] senza che la coscienza si separi da Sat-Cit-ƒnanda.[6]

   Come può, del resto, un uomo che non abbia soddisfatto il proprio svadharma accedere al dharma metafisico? Provvidenzialmente è la via del dharma, non dell’adharma, che ci risveglia al Dharma supremo. In altre parole, è la via della saggezza, dell’intelligenza e del bene umani che ci india al Summum Bonum. Se così non fosse, l’ente finito sarebbe del tutto perduto nel non senso. Errato e fuorviante va pertanto considerato il relativismo morale fondato su una distorta interpretazione della metafisica: posto che la Realtà trascende il fenomenico e non può farsi oggetto di ricerca, a che pro prediligere la giustizia all’ingiustizia, la bontà alla crudeltà, il dharma all’adharma?

   Un altro tema toccato da Panikkar è quello del pellegrinaggio. Egli sostiene che esso, oltre ad essere l’atto di uscire da se stessi, va compiuto innanzitutto geograficamente, col proprio corpo, passo dopo passo, poiché la dicotomia corpo-spirito, esterno-interno è solo una convenzione astratta. Il pellegrinaggio è tale – e non una sua ipocrita imitazione – se chi lo intraprende non ha alcuna certezza di tornare. Esso è metafora, simbolo del senso della vita. Afferma il Nostro: «Il pellegrinaggio reale è quello interiore, ma senza quello esteriore non c’è pellegrinaggio interiore. Siamo di nuovo al superamento del dualismo». E ancora: «Devi compiere il pellegrinaggio esteriore per renderti conto della sua inadeguatezza, e in ciò sta lo stimolo per un pellegrinaggio interiore, che comunque non può prescindere dal corpo. Il corpo appartiene alla realtà».

   Concordo su ciò e ne traggo spunto per ulteriori riflessioni. Spesso mi capita di incontrare persone dedite alla “spiritualità” che però, sul piano pratico, non si discostano dal vivere consumistico, amoralistico e solipsistico convenzionale. Esse sostengono che l’interiorità soltanto è il kuruk¡etra (il campo simbolico in cui si svolge la battaglia tra il dharma e l’adharma, tra l’identificazione cieca nell’esperienza e la trascendenza), non la vile contingenza, e in genere associano a tale credenza il presumere che non sia indispensabile sottomettersi ad alcuna disciplina e nemmeno incontrare il Maestro in forma umana, poiché ogni cosa si gioca nell’intimo. In tutta sincerità un tale atteggiamento non mi convince. Una comprensione che non diventi carne, sangue ed ossa non ha alcun valore ed è semplice flatus vocis.[7] Come si può, ad esempio, affermare di lasciarsi guidare dalla comprensione illuminativa e mangiare carne satura di dolore o, peggio ancora, odiare qualcuno? A mio modesto modo di vedere, le due cose stridono, soprattutto oggi.[8] Aspirare a penetrare la propria identità essenziale, proclamare l’amore universale e odiare altri esseri o seviziarli e ucciderli senza necessità: quale antinomia!

   Riguardo al vegetarianismo, inteso come prassi indispensabile sul cammino dell’autoconoscenza, emblematico è il fatto che l’astensione da cibi carnei fosse obbligatoria per il miste che si preparava ad accedere ai Misteri.[9] Lucio Apuleio, nel suo celebre Metamorphoseon Libri, più noto con il titolo di Asinus Aureus, scrive «Allora non rimandai né differii nulla per negligenza, e riferite subito al sacerdote le cose che avevo vedute, mi sottopongo al giogo di un digiuno senza carni animali, e spontaneamente sobrio, moltiplicati quei dieci giorni prescritti da una legge eterna, procurai di essere istruito ampiamente nell’iniziazione, mettendo insieme più di quanto non fosse necessario».[10] È una legge che affonda nella notte dei tempi quella che prescrive il più rigoroso vegetarianismo non appena ci si accosta al Sacro. Come si può allora prescindere da un’alimentazione fondata sulla non violenza se, presi da fame di Conoscenza, ci si apre all’onnipervadenza e all’onnipresenza del Sacro?

   A ben riflettere è proprio la coincidenza tra esterno e interno, tra il piccolo bene-amore praticato dall’uomo sincero e il grande bene-amore dell’Essere a costituire la meraviglia delle meraviglie, l’ineffabile Non-dualità.

    Tornando al Maestro, questi parla con la voce della nostra stessa coscienza, ed è per tale ragione che lo si riconosce e non lo si può rifiutare. Egli è indispensabile poiché permette al discente di risolvere il due nell’Uno senza secondo. Un uomo che aspiri a compiere integralmente il pellegrinaggio dell’Io verso Se stesso[11] deve incontrare un altro uomo che l’abbia compiuto e riconoscersi in lui, pur senza imitarlo pedissequamente. Rispetto alla nostra presunzione fondata sull’assolutizzazione del relativo, il Maestro si pone come una sorta di Forculae Caudinae. Egli funge da istruttore, iniziatore e guardiano della soglia col quale non si può imbrogliare. È lui che impartisce la “terza morte”, quella iniziatica: si muore una prima volta alla nascita, poiché nascere significa differenziarsi da una condizione precedente; si muore una seconda volta quando, abbandonato l’abito del fanciullo, si nasce alla stato adulto, in cui si è consapevoli dei propri doveri e responsabilità; e infine si muore all’illusoria autosufficienza dell’io empirico e persino all’Io causale e si rinasce Sé-Essere-Parama@iva. [12]

   Sebbene non sia possibile tracciare precisi paralleli tra le iniziazioni elleniche o romane e quelle indiane, è curioso notare come anche il già citato Apuleio accenni nell’ultima pagina delle Metamorfosi ad una terza iniziazione di cui si limita a sottolineare l’aspetto fausto adombrato dal numero: «[...] ed esulta piuttosto perché otterrai tre volte ciò che ad altri è concesso una sola volta, e ricaverai giustamente da questo numero un’eterna beatitudine».[13]

   Il tre è relato al cerchio, all’eternità, all’inesprimibile, alla non dualità.[14] Sulla facciata del tempio di Delfi, eretto attorno all’omphalós, l’ombelico del mondo,  si leggono tre scritte. Le prime due, incise nelle basi quadrangolari delle erme poste ai lati della porta del tempio, sono: gnóti sautón («conosci te stesso») e  medén ágan («nulla di troppo»); la terza, raffigurata in un ex-voto sospeso al di sotto dell’architrave, è una semplice e incomprensibile E (epsilon). Evidentemente anche per i Greci la Conoscenza non duale rappresentava il più alto valore della vita.  

   Tempo fa lessi, non ricordo dove, che al Dalai Lama vennero richiesti consigli per accelerare la maturazione coscienziale degli occidentali; egli rispose di non dimenticare accese le luci, chiudere bene il rubinetto dell’acqua e prestare attenzione a non sprecare e a non disperdersi nel superfluo. La vita stessa è dunque un pellegrinaggio da compiere con i gesti e i pensieri quotidiani, fermi nella consapevolezza dell’impermanenza, ossia di una emanazione-creazione, di un mantenimento e di una dissoluzione continui e coesistenti che, a seconda della posizione coscienziale, ci velano o svelano una Realtà sempre originale e libera, non riducibile entro schemi dualistici.

   Se la luce della comprensione, alla quale diciamo di attingere, non finisce coll’irrompere in ogni più infimo aspetto dell’essere, trasformando il corpo e la mente in uno specchio in cui si riflette il Sole dell’ƒtman, vuol dire che non è più di un baluginio proveniente da una comprensione fasulla.

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] L’intervista, registrata su dvd, si divide in tre parti: L’arte di vivere, Il sorriso del saggio e La nuova innocenza. Nel presente scritto mi limiterò ad esaminare alcune questioni toccate nella terza parte.

[2] In modo analogo, nella tradizione Zen si ha contezza di una seconda innocenza, diversa da quella infantile. Sul Dizionario della Sapienza Orientale (Ediz. Mediterranee, Roma ’91), alla voce Rôshô-no-Memmoku, si legge: «”Il volto di una neonata”; espressione zen per la condizione di innocenza infantile, l’”originaria naturalezza”. [...] Se un uomo realizza l’illuminazione nella misura in cui “non lascia più alcuna traccia dietro di sé”, allora ha trovato una nuova innocenza, la “seconda naturalezza”, la quale, però, è innocenza a un livello superiore, e si distingue dall’innocenza infantile per il fatto che non può più essere perduta».

[3] Ediz. ƒ@ram Vidy…, Roma ’88.

[4] Per la mente dell’uomo moderno, educata in modo lineare, risulta pressoché impossibile penetrare il paradosso di combattere senza odiare, di agire senza agire, di amare senza attaccamento o di vivere con efficienza e in modo moralmente corretto la propria esistenza individuale pur senza immedesimarsi in essa.

[5] “Vocazione”, “dovere”, “modo d’essere soggettivo” includente, come insegna la Bhagavad-g†t…, l’uso lecito della forza. Si noti che il vocabolario definisce il violento come colui che «abusa della propria forza». 

[6] Scrive #r† #aëkar…c…rya ne L’Onda di Felicità del Liberato Vivo (J†vanmukt…nandalahar†, 9): «Quando egli è occupato con i sensi e gli oggetti propri dello stato di veglia, quando gode degli oggetti propri dello stato di sogno o quando percepisce l’ininterrotta felicità del sonno profondo, il saggio la cui ignoranza è stata abolita dall’iniziazione del suo guru non è più il giocattolo dell’illusione», in Essere – accostamenti alla non dualità, a c. di Jean Klein, Ed. Psiche, To ’83.

[7] Ananda K. Coomaraswamy in un aforisma afferma: «Ciò che viene chiamato la Pienezza è nello stesso tempo esplicito ed implicito, sonoro e silenzioso, determinato e indeterminato, manifesto e non manifesto, mortale e immortale, e così via».  In Aforismi di A. K. Coomaraswamy, a c. di G. Marchianò, Stile Regina Editrice, Ge ’88.

[8] È noto in quali condizioni aberranti vengano costretti gli animali da allevamento, ridotti a semplici cose, e su quale sistematico sfruttamento dei deboli e delle risorse planetarie si fondi la nostra possibilità di godere il superfluo, sprecando enormi ricchezze.

[9] Anche nella tradizione monastica cristiana il vegetarianesimo ha rivestito una grande importanza. Il regime alimentare dei monaci del deserto, che escludeva carne, pesce, uova, latte, burro, formaggio, olio e vino, era detto xerofagia (mangiare secco). San Benedetto, nella sua Regola, vietava l’uso della carne non solo ai monaci, ma perfino ai bambini che venivano ammessi nei monasteri. Si veda in proposito: Guidalbero Bormolini, I vegetariani nelle tradizioni spirituali, Il leone verde, To 2000.

[10] Apuleio, L’Asino d’Oro, trad. di M. Bontempelli, Mi ’72.

[11] «Pellegrino, pellegrinaggio e strada, altro non era il mio Io verso Me stesso» Faridu’d-Din’Attar.

[12] Cfr. Gian Giuseppe Filippi, Dialogo di Naciketas con la morte  - Taittir†yabr…hmaªa, III.11.8.  Ka¥ha-upani¡ad, Cafoscarina, Ve 2001, pp. 18, 19.

[13] Op. cit.

[14] Significativamente nella Tradizione Cattolica la Trinità è, insieme all’Incarnazione, uno dei due dogmi fondamentali. Esso, affermando l’Unità della sostanza divina nella Trinità delle persone, adombra il mistero della Non-dualità.