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Un quadro al giorno: La Resurrezione di G. B. Tiepolo nel Duomo di Udine (1754 ca.)

di Francesco Lamendola - 28/08/2008

  

Abbiamo già avuto modo di ricordare come, nel Duomo di Udine e nel dirimpettaio Oratorio della Purità, siano custoditi alcuni capolavori di Giambattista Tiepolo (nato Venezia 1696 e morto a Madrid nel 1770), che ha affrescati anche i saloni del Palazzo Dolfin, sede dell'Arcivescovado del capoluogo friulano (cfr. F. Lamendola, Il Duomo romanico-gotico di Udine ha un cuore in puro stile settecentesco, consultabile sul sito di Arianna Editrice).

Precisamente, entrando nel Duomo dal portale principale sulla facciata Sud, e sostando davanti alle cappelle laterali della navata destra, ci s'imbatte dapprima (nella prima cappella) nella splendida Trinità, con il Crocifisso sormontato dalla colomba dello Spirito Santi e dal Padre divino; poi (nella seconda) nella pala con i Santi Ermacora e Fortunato, patroni della città di Udine; infine (nella quarta, detta del Santissimo), oltre agli affreschi delle pareti e del catino, sempre opera del Tiepolo, nella pala d'altare di cui vogliamo qui occuparci, la meravigliosa Resurrezione che, a dispetto delle modeste dimensioni (m. 1,28 x 0,66), costituisce un po' un compendio delle migliori caratteristiche, formali e contenutistiche, dell'opera del Nostro.

Erede della concezione pittorica di Paolo Veronese, di cui riprende la sapiente armoniosità dei moduli compositivi e la fresca, vivida luminosità degli accostamenti cromatici, Tiepolo unisce con mirabile equilibrio il pathos drammatico del Barocco con la libertà e la scioltezza degli spazi illusionistici propri del rococò, sottolineate da una tavolozza prodigiosamente schiarita in gamme tenere e vaporose.

L'arte del Tiepolo, nel panorama artistico del XVIII secolo, è stata paragonata a una fulgida meteora che si consuma e si spegne nel breve spazio di pochi anni. Dopo essere stato il protagonista assoluto della pittura europea intorno alla metà del secolo, Tiepolo ebbe poi l'amarezza, nei suoi ultimi anni, di vedersi messo in disparte, alla corte di Madrid, a favore del tanto meno dotato Anton Raphael Mengs, portavoce delle teorie di Winckelmann e, quindi, della nuova estetica neoclassicista. Strano  destino, per un artista che tutti avevano salutato come il campione di un'età nuova, proiettata  vertiginosamente verso il futuro.

Nella pala della Resurrezione, Tiepolo condensa in una superficie limitata il massimo dell'intensità espressiva, organizzando lo spazio in funzione del Risorto che, con impeto irresistibile, torreggia dall'alto sul sepolcro scoperchiato, contro la spaziosità di un cielo straordinariamente luminoso che è, quasi protagonista, insieme al Cristo, di questa superba scena della vittoria sulla morte. Vi si nota quella scioltezza, quella eleganza, vorremmo dire quella sicurezza espressiva che sono così caratteristiche dell'artista veneziano.

Pure, un attento esame critico ci fa avvertiti che quella sicurezza è frutto di un lungo travaglio nascosto e che, come i passi di danza di una provetta ballerina, nasconde tensioni - e, a volte, contraddizioni - che sfuggono ad un occhio poco esercitato.

Osservava in proposito Giulio Carlo Argan (in Storia dell'arte italiana, Sansoni editore, Firenze, 1968, vol. III, pp. 442-448):

 

Benché sembri tanto sicura di sé, l'arte del Tiepolo è piena di problemi e di contraddizioni. Le varie fasi della sua formazione (Piazzetta, Ricci, Veronese) dimostrano soltanto la sua capacità di assimilare criticamente esperienze diverse: «gran conoscitore di maniere» dirà di lui l'Algarotti. È tipico il suo atteggiamento nei confronti della fonte che ha liberamente scelto, Veronese: si appropria, adattandole al proprio scopo, di molte strutture formali veronesiane, ma non pensa affatto che questo debba significare un ritorno al Cinquecento né una ripresa dei contenuti storici  dell'arte del Veronese. Semplicemente constata (ed ha ragione) che la pittura del Veronese è tecnicamente molto più avanzata di tutta la pittura venuta dopo: arriva a «prendere» note di colore d'una altezza mai più raggiunta e a misurare spazi di una vastità e profondità rimaste senza uguali. Salvo che per il tocco, vanto del mestiere secentesco, il problema tecnico va ripreso dove l'ha lasciato il Veronese. Ed è la vera tecnica, perché implica un'esperienza completa e un calcolo sottile delle quantità di luce connesse ai diversi timbri cromatici: qualcosa come, per la musica, la scienza del contrappunto e dell'armonia. Anche la bravura dei grandi maestri dell'esecuzione rientra però nella tecnica intellettuale della pittura perché il tocco permette di frazionare maggiormente i toni, ricavarne una più concitata dinamica di riflessi e, per questa via, di arrivare a note più alte ed a frequenze più strette di quelle del Veronese stesso.

Anche la questione dello spazio è in funzione di quella ricerca di una tecnica trascendentale. Fin dal temo delle prime imprese decorative, il Tiepolo si aggrega un abile quadraturista, Girolamo Mengozzi Colonna (1688-1772), che si terrà sempre vicino. Ottimo tecnico della prospettiva, gli prepara gli spazi più ampi, più vasti, più profondi che la dottrina della prospettiva, ormai giunta alla perfezione, consenta di tracciare. Tiepolo si fa trainare fin là dove la prospettiva può arrivare; qui prende lo slancio e prosegue da solo, andando molto più avanti col solo sussidio dei rapporti cromatici e luminosi. Il risultato sarà l'identificazione dell'infinità dello spazio con l'infinità della luce, ma è significativo che il Tiepolo vi arrivi partendo dalla prospettiva e non dalla sensazione empirica.

Può dirsi lo steso del movimento. Le sue figurazioni storico-religiose o mitologiche sono piene di figure in movimento, ma questo fatto non serve a mettere in scena un dramma o soltanto un'azione, bensì ad agitare i colori finché si frangono in tanti piani minori, si mettono in relazione tra loro con un gioco serrato di botte, sbattimenti, riflessi. A forza di «andar su di giri» il moto dei colori dà un effetto generale di luce assoluta e radiante, come quei dischi con i colori dello spettro solare che, girando, danno il bianco.

La stessa cosa può dirsi dei soggetti, dei temi. Sono religiosi, storici, mitologici, allegorici: sono trattati ampollosamente, con tutti i riguardi, ma si vede subito che l'artista è indifferente ai temi religiosi, considera gli storici come discorsi senza senso, ride della mitologia e si diverte con le allegorie. Naturalmente per ampliare lo spazio e intensificare i moti occorrono soggetti che comportino un'azione con grandi personaggi che compiano grandi gesti; ma occorre anche che il dramma non interessi come tale ed agisca soltanto come congegno. È certo che il Tiepolo dà alle sue composizioni un assetto drammatico di tipo teatrale, ma è come dire: non fateci caso, è tutto teatro, guardate i colori e non preoccupatevi del soggetto.

Col teatro, entra nel vivo di una problematica barocca. Fa il teatro per andare oltre il teatro. Dunque la pittura è oltre il teatro, poiché è certo che il Tiepolo vuole soltanto «fare pittura» così come il musicista vuole soltanto «far musica». Se la pittura è al di là del teatro, è al di là della realtà e della finzione; è una realtà diversa che si sostituisce alla realtà naturale e storica. Dunque non è imitazione: in questo senso Tiepolo brucia la tradizione che ha dietro, dell'arte come mimesi. Non dissimula che le sue figure non sono persone, ma immagini dipinte: dipinge a macchie trasparenti, che talvolta lasciano scorgere la superficie della tela o del muro, e su queste pone alla brava tocchi di colore a corpo, rudi lumeggiature in cui si vedono ancora le striature del pennello.

Ma qui entra in gioco un fattore psicologico, che dimostra come il Tiepolo riprenda e chiuda la situazione tipicamente barocca aperta, al principio del Seicento, dal Bernini. L'agitazione delle figure in movimento s'arresta quando l'insieme degli accordi cromatici arriva al massimo della luce, al limite dello spazio. Le figure erano state ideate come immagini effimere, destinate a dileguare subito: invece, per lo splendore stesso dei colori, trattengono lo sguardo dello spettatore. Una percezione che, durando, ripete i suoi stimoli, cresce d'intensità: e questa crescita è un effetto calcolato, predisposto dall'artista. Più cresce l'intensità dello stimolo luminoso, più scade l'interesse per la cosa rappresentata.

Nel soffitto dello scalone di Würzburg,la condizione e la durata dello spettacolo sono ben precise: chi sale vede man mano emergere le figure assiepate al di là del cornicione, ai margini estremi del vasto spazio libero del cielo. Finché la siepe di figure movimentate si ferma: e proprio la loro evidenza da inganno ottico denuncia il loro non essere. L'assurdità del fissarsi del moto figurato sarà studiata, di lì a pochi mesi, dal Lessing: il Tiepolo la intuisce invertendo il modo d'illusione psicologica barocca, che tende ad attirare lo spettatore nel quadro. Le figure non s'addentrano, si fanno avanti: lo spettatore non è attirato, è respinto. Ne è respinto anche psicologicamente perché la storia clamorosamente declamata nel dipinto non è una cosa seria e i personaggi che il pittore raduna in costumi sgargianti, sotto i falsi nomi di re e regine dell'antichità sono istrioni e guitti mascherati, gente non meno ambigua, malgrado l'aspetto, dei frati demoniaci e degli zingari del Magnasco. Ce ne avverte il pittore stesso, esagerando la loro dignità in modo talvolta farsesco, o lasciando qua e là certi segni che servono da guida a una lettura in chiave d'ironia.

Emergono così i due moventi essenziali dell'ethos del Tiepolo: l'entusiasmo e l'ironia. Entusiasmo spontaneo, indistinto per tutto ciò che è grande, luminoso, colorato, bello; entusiasmo, soprattutto, per la libertà, nel senso di liberazione da tutti i pregiudizi, le superstizioni, le inibizioni, le censure. Ironia o umorismo che mitiga l'entusiasmo, gli impedisce di diventare ingenuità e stoltezza. Sono i termini dell'etica di Shaftesbury; e teorizzano  le tendenze ideali del loro tempo. Per aver vissuto ed espresso in pittura queste tendenze, come per il suo scetticismo verso la storia e la sua illimitata fiducia nella tecnica il Tiepolo deve essere inquadrato ,insieme col Canaletto, nella nuova cultura illuministica, e non certo nella cultura del tardo Barocco.

Perché, se Canaletto e Tiepolo furono due «moderni», la loro opera non ebbe un seguito e fu fraintesa perfino da chi si proclamava loro erede diretto? Perché, a partire dalla metà del secolo, si vanno formando le correnti che porteranno dal sensismo illuministico all'idealismo, da Locke a Kant; le tendenze neoclassiche che reagiscono al Barocco sono anch'esse un preludio alla fase idealistica dell'Illuminismo.

 

Tutto giusto; e noi non possiamo che inchinarci davanti alla sottigliezza dell'analisi di Argan, pur se vi notiamo qualche forzatura.

Ci sembra un po' eccessivo, ad esempio, affermare che i personaggi della pittura di Tiepolo non sono altro che istrioni e guitti mascherati, che tutto chiedono tranne che di essere presi sul serio. Certo, vi è anche la dimensione dell'ironia, nella pittura tiepolesca; ma non sempre, e non - a nostro avviso - quale nota dominante.

Come si potrebbe sostenere, ad esempio, che il Consilium in arena (realizzato, è vero, in collaborazione con il figlio Giandomenico), ora collocato  presso i Civici Musei di Udine,  è popolato di guitti e di istrioni?

E come si potrebbe sostenere che in tutte le sue opere religiose emerge la sostanziale indifferenza dell'artista, al quale bastava dipingere per il gusto puro e semplice di «far pittura», così come al musicista è sufficiente (ma sarà poi vero?) «far musica», in una maniera qualsiasi?

 

Il quadro che abbiamo deciso di prendere in esame, la pala della Resurrezione per il Duomo di Udine, è un esempio del fatto che al Tiepolo, personalità estremamente aperta e quasi proteiforme, mal si addicono etichette definitive e giudizi inappellabili.

Certo, la gioia del dipingere erompe anche da questa piccola pala d'altare; ma proprio il fatto che essa sia così piccola, smentisce l'assunto che Tiepolo abbia bisogno, sempre e comunque, di grandi spazi, per mettere in scena grandi scene popolate di grandi personaggi.

Qui, invece - come abbiamo già osservato - lo spazio è concentrato al massimo; anche se l'artista se ne vale per fare un vero e proprio sfoggio di bravura, dilatandone al massimo la prospettiva per mezzo di un originale punto di vista dal basso verso l'alto; e creando, così, l'illusione di uno spazio molto vasto,  che sembra erompere dalla terra verso il cielo, a dispetto di tutte le regole della geometria e dell'architettura.

E tuttavia, non ci sentiremmo di dire che non vi sia una autentica ispirazione religiosa, a proposito di quest'opera che celebra il più grande mistero del cristianesimo; così come non ci sentiremmo di dirlo né per la Trinità della prima cappella di destra del Duomo di Udine, né per il soffitto dell'Oratorio della Purità, con la vasta Assunzione di Maria Vergine, opera più tarda (del 1759) e quasi testamento spirituale prima della partenza per la Spagna.

Certo, nessuno potrebbe negare che il cromatismo luministico, l'ariosità della scena, la libertà del movimento, il gioco dei piani prospettici e la dilatazione innaturale degli spazi giochino, anche in questa suggestiva Resurrezione, un ruolo importantissimo. E tuttavia, ci sembra che un'ispirazione religiosa vi sia, ad onta della solita tendenza a sfruttare il contenuto narrativo della scena a vantaggio degli effetti luministici e scenografici.

Nella parte inferiore della pala, ad esempio, l'intento scenografico effettivamente prevale, anche se non in maniera uniforme: più evidente nel soldato romano sulla sinistra, che leva al cielo, con enfasi, il braccio sinistro con lo scudo ovale ed il destro con la lunga picca (che è, poi, una inequivocabile alabarda rinascimentale; reminiscenza del Veronese e, in genere, del Cinquecento), mentre lo è di meno nel soldato al centro, che cade sul sepolcro a faccia in giù, e soprattutto nel centurione sulla destra, visto di spalle e dal basso, con una tale inclinazione dell'angolo visivo, da far quasi scomparire alla vista il suo capo sormontato dall'elmo.

Ma, nella parte superiore del dipinto, la figura del Risorto che si libra verso l'alto, come senza peso, in atteggiamento vittorioso, reggendo un bianco vessillo con la croce e additando il Cielo, su uno sfondo di nuvole giallo ocra e di alcuni ampi squarci di un azzurro oltremarino che tende quasi al verde smeraldo, è - indubbiamente - una figura ispirata.

No, qui non abbiamo a che fare con un personaggio che  - per usare l'espressione di Giulio Carlo Argan - pare voglia dirci di non prenderlo sul serio; qui il gusto della teatralità non sommerge interamente la freschezza della scena, che è una scena religiosa, solenne ma non priva di autentica forza interiore.

Diremmo, anzi, che il pregio più grande di quest'opera consiste proprio nell'aver piegato (come l'artista veneziano farà anche in altre occasioni, e specialmente nell'Assunta della Purità) la tecnica, la prospettiva, il colore, alle esigenze di un soggetto religioso, armonizzando - nei limiti, si capisce, del suo temperamento e della sua idea dell'arte - forma e contenuto, luce e sentimento, colore e serietà psicologica.

Le pieghe delle vesti - quelle bianche e svolazzanti del Cristo risorto, quelle purpuree e abbandonate del centurione in primo piano - sono, certamente, un pezzo di bravura e un omaggio alle poetiche barocche, diremmo quasi berniniane; ma quel tronco bianco e scheletrito, che si protende sulla destra, dietro il sepolcro; e quella macchia verde di cipressi proprio al centro, introducono degli elementi non convenzionali: elementi naturali che saremmo tentati di definire impressionistici ante litteram, poiché creano una atmosfera con un minimo di forme e di volumi.

E l'intera Resurrezione risulta così fatta: gioiosa, eppure sobria; potente, ma senza eccessi di dubbio gusto; coinvolgente, ma lineare e quasi disadorna, nel suo virtuosismo che sfiora la caratteristica dei grandi artisti: la semplicità.

 

Ecco come descrive questo piccolo capolavoro lo storico dell'arte Carlo Someda De Marco nel suo libro, assai documentato e sorretto da una viva sensibilità critica, Il Duomo di Udine (Arti Grafiche Friulane, Udine, 1970, pp. 214):

 

Nello spazio ristretto, sotto l'impulso libero e sicuro della sua fantasia, il Tiepolo organizza la scena facendo dominare con impeto felicissimo, contro la vistosa spaziosità di un cielo luminoso, il Risorto, mentre in basso, attorno al sepolcro vuoto, si agitano, attonite dall'imprevisto, le guardie.

È questo un dipinto della sua maturità, mirabile per la rapidità vivacissima dell'esecuzione, per il contrapposto dei colori, per la luce solare, che balza e si distende sopra persone e cose, sua più immediata ed appropriata espressione pittorica. Non si è certi della data di esecuzione di questo vibrante dipinto; l'altare è stato consacrato dal patriarca Daniele Delfino, il 15 luglio 1754 e perciò, considerati anche e soprattutto i caratteri pittorici della pala, che sono quelli della maturità dell'artista, si ritiene sia stata eseguita poco tempo prima della consacrazione dell'altare.

 

In conclusione, si può dire che in quest'opera della sua piena maturità artistica, Tiepolo sfoggia un cromatismo vivo, ma non roboante; e una tendenza introspettiva e quasi malinconica che non si nota in molte opere precedenti (ad esempio negli affreschi, sempre a Udine, per il Palazzo patriarcale, dipinti quasi trent'anni prima).

È come se il pittore veneziano, avviandosi all'ultima fase del suo percorso artistico, permettesse alla sua umanità di prevalere sulla tecnica e di trasparire finalmente sulla tela, sotto forma di viva partecipazione spirituale alle vicende dei suoi personaggi, non più ridotti a meri pretesti per un geniale, ma astratto gioco cromatico.

Come ebbe a scrivere il Pallucchini nel 1960 (cit. in Le Muse. Enciclopedia di tutte le arti, Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1968, vol. XII, p. 18):

 

…dobbiamo cogliere il vero Tiepolo nei momenti di più aperto ed immediato abbandono, in cui quella vena…sottilmente malinconica negli ultimi anni, fluisce libera, senza divenire recitativo melodrammatico e virtuosità decorativa.