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Margherita Sarfatti, Ministro fascista delle arti

di Sergio Romano - 11/09/2008

Il fascismo non è stato soltanto un'esclusiva italiana: anche in Gran Bretagna, ad esempio, se ne trovano tracce riconducibili alla British Union of Fascists. E nelle differenze che si riscontrano, oltre alla mancata affermazione e diffusione del fascismo britannico, ho trovato questa che mi ha colpito: la presenza di una donna, Diana Mitford, ai vertici della Buf, tanto da essere considerata figura importante e di rilievo. Se non sbaglio, donne così nella storia del fascismo italiano non se ne contano.


Michele Toriaco


Caro Toriaco,
Diana Mitford non fu, strettamente parlando, «ai vertici della British Union of Fascists». Sposò Sir Oswald Mosley, fondatore del Buf, e ne condivise le simpatie naziste a tal punto che il loro matrimonio, nel 1936, ebbe luogo a Berlino in casa di Goebbels e alla presenza di Hitler. Fu questa la ragione per cui durante la guerra fu condannata con il marito a una sorta di domicilio coatto nella dépendance di un carcere. Rimase nazista fino alla morte nell'agosto del 2003.
Anche nel fascismo italiano vi furono alcuni interessanti personaggi femminili. Il più importante, probabilmente, è quello di Margherita Sarfatti, una brillante signora milanese che Mussolini conobbe nel salotto di Corso Venezia in cui si riunivano i migliori pittori e scultori italiani del primo dopoguerra. Non fu soltanto, per parecchi anni, la sua amante, la sua confidente, l'arredatrice della sua prima casa romana, la sua maestra di buone maniere. Fu anche la redattrice per le Arti figurative del Popolo d'Italia, il biografo del duce, il suo agente letterario nel mondo della stampa anglosassone e forse l'autrice discreta dell'autobiografia che apparve in inglese nel 1928. I tempi, soprattutto in un regime maschilista, non erano ancora maturi per un incarico di governo. Ma nell'Italia fascista, sino alla fine degli anni Venti, Margherita Sarfatti recitò la parte che fu di Anatolij Lunacharskij, nella prima fase del regime bolscevico, e di André Malraux accanto al generale de Gaulle nel primo decennio della V Repubblica.
I suoi amici pittori e scultori (da Carlo Carrà ad Achille Funi, da Arturo Martini a Ubaldo Oppi, da Piero Marussig a Mario Sironi) venivano da orizzonti diversi e non erano una «scuola». Ma Sarfatti intuì la possibilità di dare una rappresentanza estetica al regime ed espose le loro opere nell'ambito di una grande mostra alla Galleria Pesaro di Milano. Dette a questo eterogeneo gruppo di artisti un nome (Novecento), volle che la mostra fosse inaugurata da Mussolini e scrisse per il presidente del Consiglio un discorso in cui il capo del fascismo si atteggiava a protettore delle arti, ma dava al tempo stesso una garanzia: «Dichiaro che è lungi da me l'idea di incoraggiare qualche cosa che possa assomigliare all'arte di Stato».
Da quel momento Margherita Sarfatti ebbe per alcuni anni una brillante carriera pubblica. Organizzò alla Permanente di Milano la prima Mostra annuale del Novecento. Partecipò con Arnaldo Mussolini alla Commissione per l'alfabetizzazione e istituì un festival del libro. Trasferì a Milano la rassegna di Monza per le arti decorative e ne fece un evento triennale, aperto alle influenze della nuova architettura e del design industriale. E a Roma, quando seguì Mussolini nella capitale, aprì un salotto dove facevano abitualmente la loro apparizione, per vedere ed essere visti, l'attrice Marta Abba, i pittori Massimo Campigli, Filippo De Pisis, Gino Severini, Arturo Tosi, il musicista Alfredo Casella, lo scienziato Guglielmo Marconi, gli scrittori Corrado Alvaro, Massimo Bontempelli, Curzio Malaparte e il giovane Alberto Moravia.
Tanto successo finì per suscitare le invidie dei «maschi » del regime, da Ugo Ojetti a Roberto Farinacci, ras di Cremona, e Filippo Tommaso Marinetti, «inventore del Futurismo». Dopo qualche anno Mussolini si stancò di lei ed affidò ad altri (Bottai, Farinacci, Ojetti) il ruolo di plenipotenziari delle arti. Nonostante la conversione al Cattolicesimo, l'ebrea Margherita Sarfatti cominciò a essere bersaglio, soprattutto nella stampa controllata da Farinacci, di punzecchiature antisemite. Alla fine del 1938 lasciò l'Italia per l'Argentina, ma rientrò nel 1947 e continuò a occuparsi di arte sino alla fine della sua vita nel 1961.