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Indispensabile il ruolo di cane da guardia della stampa

di Francesco Mario Agnoli - 06/02/2006

Fonte: Francesco Mario Agnoli


       
   La  pubblicazione della registrazione  di una telefonata fra  il segretario ds Piero Fassino e il presidente  Unipol  Giovanni Consorte ha riportato al centro dell'attenzione, quasi come ai tempi di "mani pulite", il problema della rivelazione di atti coperti dal segreto istruttorio con particolare riguardo   alla posizione del giornalista che  proceda alla loro pubblicazione.
   Al centro della questione l'art. 326 codice penale, che punisce  (reclusione da  6 mesi a 3 anni) il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che riveli notizie d'ufficio destinate a rimanere segrete.  Minor rilievo  si è dato, forse per la sua natura contravvenzionale, all'art. 684, che sanziona con l'arresto fino a 30 giorni o l'ammenda da 51 a 258 euro  "chiunque pubblica in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa di informazione, atti o documenti di un procedimento  penale di cui sia vietata  per legge la pubblicazione".
   L'art. 326 prevede un reato "proprio" nel senso  che può esserne autore  soltanto un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio. L'ipotesi contravvenzionale è invece addebitabile a "chiunque", indipendentemente dall'attività svolta o dalla  posizione rivestita nel processo, pubblica  (con il mezzo della stampa  o altro  mezzo di diffusione specifica l'art. 114  del codice di procedura penale) atti coperti dal divieto. A prima vista le due ipotesi, avendo ad oggetto entrambe la rivelazione di atti segretati, sembrano escludersi: destinata la prima  ai "funzionari", la seconda a tutti gli altri, giornalisti inclusi. La giurisprudenza, facendo leva sulla distinzione fra "rivelazione" e "pubblicazione", è però orientata  ad addebitare anche al giornalista il reato di cui  all'art. 326  a titolo di concorso col pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio. Ne consegue che in molti casi il giornalista, tenuto dal codice deontologico a non rivelare le sue fonti,   finisce con l'essere l'unico  a subire processo e, eventualmente, condanna,  per la difficoltà di accertare chi, dall'interno dell'ufficio, abbia trasmesso o fatto trapelare la notizia.
    Per porre rimedio ad una situazione indubbiamente sperequata il senatore a vita Francesco Cossiga ha  proposto, con apposito disegno di legge, che, salvo casi particolari, il giornalista (nonché il direttore e l'editore del giornale) possa essere  perseguito solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna  "del giudice, del pubblico  ministero, del cancelliere, del segretario n giudiziario o di altro addetto ad uffici giudiziari, o di appartenenti  a forze di polizia per violazione  del segreto istruttorio o del segreto delle indagini".
    La proposta, pur muovendo dal rilievo che "non possa esistere  democrazia  dove non esista un'opinione pubblica  pienamente e correttamente  informata" e che "non è sugli operatori  dell'informazione che grava il dovere di  tutelare il segreto istruttorio", accetta però il principio della responsabilità penale del giornalista e sembra non affrontare l'altro "punctum dolens" (spesso il principale oggetto del contendere fra giudici e giornalisti) costituito dal contrasto fra il codice deontologico, che impone al giornalista di non rivelare le sue fonti, e l'art. 200 del codice di procedura  penale,  che attenua di molto questo diritto-dovere, attribuendo al giudice  il potere di obbligarlo a deporre se le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato e la loro veridicità  può essere accertata solo attraverso  l'identificazione  della fonte della notizia.
Ci si può chiedere se  la situazione sia conforme alla Convenzione europea  dei diritti dell'uomo (firmata a Roma il 4/11/1950). L'art. 10 vi sancisce difatti il principio della libertà di espressione, che comprende "la libertà d'opinione e la libertà di ricevere  o di comunicare  informazioni ed idee senza ingerenza  di  pubbliche autorità  e senza limiti di frontiere".   E' vero che  lo stesso articolo ammette la possibilità  di  formalità, condizioni, sanzioni e restrizioni  giustificate  da varie ragioni, fra le quali la tutela dell'ordine pubblico e della morale, la prevenzione del crimine  e la garanzia dell'autorità e dell'imparzialità  del potere giudiziario, ma la giurisprudenza  della Corte  europea dei diritti dell'uomo ha dato  di queste limitazioni una interpretazione assai restrittiva. In una recente sentenza (Roemen contro Granducato del Lussemburgo) si è affermato che "la libertà d'espressione  costituisce uno dei  fondamenti essenziali  di una società democratica, e le garanzie  da concedere alla stampa  rivestono un'importanza particolare. La protezione delle fonti  giornalistiche è uno dei pilastri  della libertà di stampa".  La sua mancanza  potrebbe, difatti,  privare la  stampa della possibilità di "svolgere  il suo ruolo  indispensabile  di cane da guardia" e ridurne la  capacità di "fornire informazioni precise e affidabili".