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Capitalismo di Stato

di Federico Rampini - 18/09/2008




Le drammatiche convulsioni dei mercati segnano la fine di un'epoca, e la fine del capitalismo americano come lo avevamo conosciuto. La nazionalizzazione della più grande compagnia assicurativa mondiale, l'American International Group rilevato dalla banca centrale Usa con un'iniezione salvavita di 85 miliardi di dollari, è stata un gesto estremo. Non ha precedenti in un secolo di vita della Federal Reserve. A malincuore l'autorità monetaria ha dovuto allargare a dismisura il proprio campo d'intervento, sobbarcandosi addirittura il controllo diretto di un gigante assicurativo, al termine di dieci giorni che hanno sconvolto le regole del gioco e ridisegnato la geografia dell'economia di mercato. Alle prese con una crisi storica, l'America diventa suo malgrado la patria di un nuovo capitalismo pubblico, dettato da uno stato di necessità. E' l'epilogo drammatico di un decennio di eccessi della finanza.

Se doveva arginare il panico delle Borse, la nazionalizzazione dell'Aig sembra un fiasco: ieri l'onda di paura non si è placata. Ma attenzione, non si può sapere che cosa sarebbe accaduto in assenza di questo inaudito salvataggio statale. Aig ha 116.000 dipendenti, quasi cinque volte quelli della banca d'affari Lehman lasciata fallire appena 48 ore prima. Aig emette polizze vita e gestisce fondi pensione per decine di milioni di famiglie; l'impatto sociale di una sua bancarotta poteva aprire una falla inquietante nel sistema del Welfare privatistico. Infine e soprattutto, l'Aig si era sciaguratamente "diversificata" in nuovi mestieri finanziari, come l'emissione di complessi contratti di assicurazione contro il rischio-fallimento (Credit Default Swaps).
Nati come strumenti di copertura del rischio, questi titoli "esoterici" sono diventati un immenso business speculativo con diramazioni nel mondo intero. Nell'impossibilità di onorare i suoi debiti, Aig si trovava quindi al centro di una ragnatela di rapporti finanziari con tutte le assicurazioni, banche e istituzioni finanziarie del pianeta, che rischiava di trascinare con sé nel disastro. Ancora più della dimensione sociale, è questo rischio sistemico che ha fatto vacillare la fermezza di Ben Bernanke.

Il banchiere centrale che a marzo aveva dovuto allungare un "aiutino" di 30 miliardi a JP Morgan Chase per farle comprare la Bear Stearns, e che due weekend fa aveva scaricato sul contribuente americano i colossi dei mutui Fannie e Freddie (costo minimo 120 miliardi), domenica scorsa aveva finalmente opposto un secco no alle richieste di salvataggio della Lehman. Il presidente della Fed sentiva di dover scrivere la parola stop, tracciare un limite alla catena di salvataggi. Sentiva montare l'insofferenza contro l'establishment di Wall Street, la cui ingordigia e i cui errori micidiali vengono ora "abbuonati" con la socializzazione delle perdite. Ma i principii severi non hanno retto alla prova dello choc.

Bernanke ha dovuto rinnegare la sua linea del rigore di fronte all'evidenza: era semplicemente inconcepibile affrontare una bancarotta dell'Aig. E tuttavia dopo la nazionalizzazione dell'Aig la reazione dei mercati è stata quell'incubo che Bernanke sperava di evitare. Gli investitori si sono subito chiesti quale sarà il prossimo crac. Morgan Stanley, Goldman Sachs - le due ultime merchant bank sopravvissute alla carneficina - sono finite nel vortice delle speculazioni ribassiste. E se Bernanke scoprisse che anche loro sono "troppo grandi e troppo interconnesse" per lasciarle fallire? Già si affaccia al Congresso di Washington un piano d'intervento eccezionale: la creazione di un maxi-trust federale, finanziato con risorse pubbliche, che nazionalizzi una dopo l'altra tutte le banche che cadranno. L'Iri all'ennesima potenza. Solo il New Deal di Franklin Roosevelt adottò mezzi così radicali, per affrontare le conseguenze della Grande Depressione.

Si può ironizzare sul fatto che queste spregiudicate nazionalizzazioni vengono dalla patria del liberismo e da un'amministrazione repubblicana che venerava lo "Stato minimo". Oppure ci si può inchinare di fronte a una qualità che caratterizza una certa classe dirigente americana, di cui Bernanke è un perfetto esponente: il pragmatismo. Se siamo di fronte a una crisi di proporzioni storiche, come sostengono Alan Greenspan e Mario Draghi, non serve più a nulla invocare i principii. Perfino la coerenza passa in secondo piano. Quando l'aereo è in picchiata non si chiede al pilota di consultare il manuale d'istruzioni: è il momento in cui la salvezza può dipendere dai riflessi istintivi, dall'intuizione giusta, dalla capacità di navigare a vista. Bernanke e il ministro del Tesoro Henry Paulson procedono a tentoni, con una visibilità nulla sul futuro. Se ce la faranno a uscirne, le nuove regole del gioco le stanno scrivendo loro in queste ore. Altrimenti il giudizio storico sarà pesantissimo.

I "precedenti" non sono di alcun aiuto. Certo l'America fu capace di altrettanto pragmatismo quando sotto Nixon, Carter e Reagan usò denari pubblici per salvare la Lockheed, nazionalizzare temporaneamente la Chrysler, ripianare i buchi di bilancio delle casse di risparmio. Ma nessuna di quelle bancarotte aveva una caratteristica della tempesta attuale: la capacità di destabilizzare l'intera economia globale. Il provvedimento con cui il governo russo ieri ha dovuto chiudere la Borsa di Mosca (un infausto presagio che potrebbe contagiare altri mercati) è emblematico della dimensione nuova di questa crisi.

E' proprio la dimensione inusitata, quella che fa sorgere un dubbio tremendo: che l'ampiezza della metastasi e la gravità della malattia superi perfino i mezzi della più potente banca centrale e della nazione più ricca del pianeta. Ieri non è sfuggito ai mercati un provvedimento eccezionale: il Tesoro di Washington ha dovuto varare in fretta e furia delle emissioni speciali di titoli per rifinanziare la stessa Federal Reserve. L'autorità monetaria americana - pur essendo per definizione il creditore di ultima istanza, dotato della facoltà di stampar moneta - deve farsi rifinanziare con un nuovo canale di debito pubblico. Dunque ecco il Tesoro che "presta" alla Fed. Ma chi presta al Tesoro? E chi finanzierà il maxi-trust - l'Iri made in Usa - se il Congresso sarà costretto a varare il piano delle nazionalizzazioni bancarie a tappeto?

Certo le famiglie americane dovranno subìre un ridimensionamento del loro tenore di vita, e per generazioni ripianeranno questi debiti con le loro tasse. Intanto i Treasury Bonds (i Bot americani) li abbiamo comprati anche noi, ne sono strapieni i portafogli di tutte le istituzioni finanziarie del mondo: le assicurazioni europee e asiatiche, i fondi comuni italiani, la banca centrale di Pechino. L'effetto-contagio è appena agli inizi.