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Il mondo in frantumi della finanza Usa

di Federico Rampini - 22/09/2008

 
 

 

Un mondo ha iniziato ad andare in frantumi. Per capirlo bisogna guardare dietro la folle successione di eventi: prima i crac di colossi finanziari americani, poi i crolli delle Borse mondiali e la paralisi del credito, infine l’euforia «drogata» dal più gigantesco piano di nazionalizzazioni e salvataggi pubblici varato in America dai tempi della Grande Depressione. Non è solo un modello dell’economia di mercato a tramontare. La svolta di questo settembre 2008 ha un significato storico più profondo, ben oltre il bilancio dei punti guadagnati o persi da questa o quella ideologia. Questa è probabilmente l’ultima grande crisi finanziaria che il mondo avrà visto scoppiare sotto il segno dell’egemonia americana. Gli Stati Uniti sono ancora capaci di imporre a tutte le nazioni il ritmo delle pulsazioni cardiache di Wall Street. Ma è ragionevole prevedere che questo accade per l’ultima volta. I motivi sono evidenti. Anzitutto il trend di lungo periodo di ridimensionamento relativo dell’America rispetto alle nazioni emergenti non verrà interrotto da questa crisi, anzi forse ne risulterà accelerato. La Cina, l’India, il Brasile, la Russia, il Golfo Persico subiscono contraccolpi brutali sui loro mercati finanziari e anche nelle loro economie reali (le esportazioni rallentano a causa della recessione made in Usa).

 

Nel lungo periodo la direzione di marcia non cambia: l’Occidente conterà meno rispetto alle potenze del Nuovo Mondo. Gli Stati Uniti usciranno ulteriormente rimpiccioliti quando avranno finito di pagare i debiti che stanno accumulando. Il maxifondo destinato a comprare i titoli-spazzatura dalle banche in crisi costa come una seconda guerra in Iraq. Le implicazioni di questa catastrofe non sono soltanto finanziarie. Se Barack Obama vince le elezioni il 4 novembre, una delle sue priorità dichiarate fino a ieri - è un vasto programma di investimenti pubblici per modernizzare le infrastrutture e i servizi che vanno letteralmente a pezzi dopo decenni di incuria: sanità, scuola, autostrade, ferrovie, aeroporti. Ora però il grande crac finanziario del 2008 gli ha divorato in anticipo tutte le risorse che sperava di poter investire per rilanciare la competitività americana nella sfida alla Cina. Obama o McCain, il successore di George Bush quando riceverà le chiavi del Tesoro troverà solo una montagna di debiti e cambiali. Da questa grande crisi esce distrutta infine l’autorevolezza del modello economico americano, quel capitalismo finanziario reso ipertrofico e irresponsabile da un ventennio di ritirata dei poteri dello Stato sui mercati. Il crac di Wall Street del 1929 preannunciò un’epoca nuova, nuove idee e dottrine rivoluzionarie che segnarono la storia del secolo: per superare la Grande Depressione l’America di Franklin Delano Roosevelt esportò un modello universale di regolazione dei mercati, di intervento keynesiano nell’economia, di Welfare State e investimenti pubblici nei beni collettivi. Quell’epoca si chiude definitivamente con questa crisi del2008 segnata da un cambiamento di opposta natura: il tramonto dell’America come paradigma normativo e modello da emulare.

 

Sarebbe troppo comodo, e sostanzialmente inesatto, attribuire questo disastro alla sola Amministrazione Bush o alla destra americana. Dai tempi di Ronald Reagan anche larga parte dell’America progressista e democratica è stata soggiogata dall’egemonia culturale del neoliberismo economico. Dalle privatizzazioni, dalla benefica deregulation anti-monopolistica, dalla giusta valorizzazione dello spirito d’impresa e del dinamismo dell’economia di mercato, si è scivolati progressivamente verso qualcosa di molto diverso. Si sono stravolti i valori e i principii essenziali del liberalismo fondato sui contropoteri e l’etica della responsabilità. Si è teorizzata sempre più apertamente la capacità dei mercati di auto - regolarsi. Il potere dell’alta finanza e della grande industria si è annesso le istituzioni che dovevano essere le guardiane indipendenti dell’economia, della moneta e del credito.

 

Alla guida dei massimi organi di controllo e di vigilanza sono stati chiamati coloro che dovevano essere controllati e vigilati. Le authority sono diventate succursali subalterne delle lobby. Il modello dell’occupazione dell’Iraq, subappaltata in buona parte alla società petrolifera Halliburton di Dick Cheney o a compagnie di mercenari privati, aveva fatto le sue prove generali sul territorio americano, con l’occupazione di snodi vitali dello Stato da parte dei potentati privati. Su questo terreno la differenza tra destra e sinistra è stata meno netta di quanto si creda. Se George Bush ha affidato il Tesoro all’ex numero uno della Goldman Sachs, Henry Paulson, Bill Clinton lo aveva consegnato nelle mani di Robert Rubin, ex presidente della Citigroup. Lo sconfinamento delle merchant bank in settori sempre più esoterici e rischiosi della finanza globale era già in atto durante l’èra Clinton. La settimana scorsa, nelle ore più frenetiche della crisi di Wall Street, John McCain ha detto sciocchezze monumentali, ma Barack Obama si è fatto fotografare in una riunione con Robert Rubin e altri pezzi grossi di Wall Street (che in fatto di finanziamenti elettorali è rigorosamente bipartisan). E’ in questo groviglio di conflitti d’interessi, in questo establishment incestuoso, che affondano le radici antiche del disastro attuale. E’ questa filosofia del capitalismo con regole «à la carte» e controllori al guinzaglio, che è giunta al collasso, alla bancarotta, con l’epilogo della massiccia socializzazione delle perdite.

 

All’Europa non conviene certo aspettare che siano le future potenze - Cina, India, Russia - a negoziare con l’America le nuove regole del gioco dell’economia di mercato. In questa fase di transizione e di incertezza, mentre le potenze emergenti non hanno veri modelli alternativi da proporre, l’Unione europea deve pretendere dagli Stati Uniti l’apertura di un tavolo di negoziato sui nuovi principi di regolazione della finanza globale. I danni che Wall Street e i debiti americani stanno infliggendo al mondo sono più che sufficienti: ci autorizzano a esigere che l’America elabori insieme a noi un sistema di controlli e di vigilanza globale, per impedire il ripetersi di una crisi simile.