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Cambio di strategia per gli USA

di Piero Visani - 07/02/2006

Fonte: lineaquotidiano.it


Opaco e poco conclusivo.
Con questo giudizio
lapidario la
maggior parte della grande
stampa internazionale ha
liquidato il discorso del presidente
americano George W.
Bush sullo “stato dell’Unione”.
Molta attenzione è stata
riservata all’annunciato obiettivo
di ridurre le importazioni
di petrolio dal Medio Oriente,
che peraltro ammontano a
meno del 20 per cento del
fabbisogno nazionale statunitense,
e molto si è parlato dell’accenno
di Bush all’importanza
di puntare sempre più
sulle energie alternative, ma
in un’ottica sorprendentemente
scorretta, quasi che l’attuale
presidente volesse in qualche
modo dare ragione a
quanti, da sempre, ne contestano
le scelte in campo energetico.
Scarso o nullo rilievo, per
contro, è stato prestato al fatto
che ci troviamo di fronte
all’avvio di un cambio di strategia
da parte degli USA, che
potrebbe avere cruciali implicazioni
tanto nel breve quanto
nel lungo periodo. Non siamo
ancora di fronte ad un’ufficializzazione
di tale mutamento,
ma le premesse ci sono tutte.
Il punto di partenza è chiaro:
la strategia che aveva come
obiettivo il controllo diretto
del territorio nemico, fosse
esso l’Afghanistan o l’Iraq,
sta segnando pesantemente il
passo, per non dire che è
totalmente fallita. Il controllo
del territorio non è stato ottenuto
e quel poco che si è
riusciti a garantirsi ha comportato,
nel solo Iraq, il sacrificio
di 2250 soldati, più decine
di migliaia di feriti e invalidi.
E un costo economico
che potrebbe toccare la spaventosa
cifra di 1200 miliardi
di dollari.
Di fronte a tutto questo, la
cultura americana non può
che fare riferimento al suo
tradizionale pragmatismo,
che, in una situazione del
genere, diventa
segue dalla prima
(…) un indubbio fattore di
sostegno: l’attuale strategia è
palesemente insostenibile in
termini di rapporto costi/benefici,
in quanto gli enormi costi
umani e materiali comportati
dalla “guerra al terrorismo”
sono infinitamente superiori ai
benefici che possono derivarne.
Per non parlare del fatto
che i costi umani, molto più di
quelli materiali, stanno logorando
il fronte interno e, con
esso, il consenso della maggioranza
dell’opinione pubblica
americana nei riguardi dell’attuale
amministrazione.
Di qui l’esigenza di cambiare
strategia. Cambiarla perché in
guerra stanno morendo troppi
soldati e perché si stanno
spendendo troppi soldi, che
vengono dolorosamente a
mancare su altri fronti, come
ad esempio quello della ricostruzione
degli Stati dell’Unione
devastati dagli uragani
Katrina e Rita. Cambiare, tuttavia,
non può significare il
ritorno ad una politica isolazionista:
ciò da un lato equivarrebbe
ad ammettere la
sconfitta e, dall’altro, ridimensionerebbe
le ambizioni dell’America
in un mondo che
sembra sempre più destinato a
diventare multipolare. Occorre
mantenere un profilo elevato,
“imperiale”. Occorre continuare
a far sentire il Paese in
prima linea nella lotta contro
il “terrorismo internazionale”.
Ma occorre altresì trovare
modi nuovi e diversi per combattere
i propri nemici, perché
quelli vecchi non hanno funzionato.
In campo militare, il solo conflitto
iracheno ha impegnato
allo stremo le forze terrestri di
primo impiego, costringendo
il Pentagono ad attingere tanto
alla Guardia Nazionale quanto
alla Riserva. In questo modo,
però, si è dovuto ricorrere ai
cittadini in uniforme, alla
società civile, e la si è coinvolta
in misura molto maggiore
di quanto sarebbe stato
opportuno in un Paese in cui
le guerre si riescono a vincere
davvero solo se si contengono
al minimo le perdite umane.
Di fatto, pur disponendo di un
esercito professionale, gli Stati
Uniti hanno ripetuto in Iraq,
per quanto su scala ridotta, lo
stesso errore compiuto in Vietnam
con un esercito a coscrizione
obbligatoria, vale a dire
coinvolgere la società civile al
di là dei suoi (bassi) livelli di
sopportazione, e stanno
cominciando a pagarne le spese.
Questo è il primo fattore che
pesa sulla strategia statunitense
e ne impone un mutamento:
l’impegno diretto comporta
costi umani e materiali troppo
elevati, insostenibili per ragioni
diverse, ma convergenti,
tali da minare la fiducia e il
consenso dell’opinione pubblica
nei confronti della Casa
Bianca. Di qui la decisione di
sostituirlo, non appena possibile,
con un impegno indiretto.
Lo testimonia non tanto il
tentativo di creare un nuovo
esercito regolare iracheno, cui
affidare il controllo diretto del
territorio, quanto la scelta del
Pentagono di potenziare le
forze speciali, i famosi “berretti
verdi”, vale a dire un
nucleo di professionisti d’élite
incaricati di addestrare,
dovunque nel mondo, le forze
filoamericane a combattere in
nome e per conto degli USA,
ed a fungere in tal modo da
autentici “moltiplicatori di
forza”. Ma lo testimonia altresì
l’enorme impegno profuso
nello sviluppare sistemi d’arma
robotici, grazie ai quali
evitare ogni coinvolgimento
umano diretto nei conflitti. E
lo testimoniano pure le rinnovate
riflessioni sul possibile
ritorno all’impiego dell’arma
nucleare, miniaturizzata,
depotenziata e resa flessibile
al punto da poter divenire
arma assoluta con obiettivi
estremamente relativi e circoscritti,
una sorta di irresistibile
peace-keeper (o peace-enforcer)
con il quale tagliare il
nodo gordiano di molte crisi.
La strategia di breve periodo
degli Stati Uniti appare dunque
disegnata su intenti ben
precisi, miranti a sottrarre la
politica estera e quella militare
ai condizionamenti provenienti
dalla società civile. Ed
anche a ridurre i costi, poiché
circa 500 miliardi di dollari
l’anno per le spese per la difesa
sono un onere insostenibile
perfino per un Paese molto
ricco. Nel lungo periodo, per
contro, le ambizioni di Washington
restano innegabilmente
imperiali. In effetti, se ci si
sottrae alle trappole del “politicamente
corretto” e delle
banalità che vi sono connesse,
non è difficile comprendere
che l’obiettivo, appena proclamato
da Bush, di ridurre la
dipendenza dal petrolio non è
– come hanno scritto i soliti
stolti – un modo per riconoscere
le ragioni dei critici della
politica energetica statunitense,
ma una nuova sfida
strategica di portata colossale,
una sorta di “Nuova Frontiera”.
Tutto parte dalla constatazione
che il futuro del mondo si gioca
su fattori di potenza come
le risorse (energetiche e non) e
le tecnologie più avanzate.
Sotto il primo aspetto, gli
USA non sono invulnerabili;
sotto il secondo, hanno bisogno
di lanciare un guanto di
sfida, hanno bisogno di una
competizione in cui misurarsi
e mettersi alla prova, di un traguardo
cui puntare per dispiegare
tutte le loro capacità e la
loro potenza. Questo obiettivo
potrebbe essere – lo sapremo
tra breve – ridurre la dipendenza
dal petrolio per sviluppare
nuove forme di energia,
non tradizionali, grazie alle
quali l’attuale situazione di sia
pur relativa dipendenza
potrebbe trasformarsi, in un
lasso di tempo ancora da definire,
ma non troppo lungo, in
uno straordinario fattore di
autonomia e di potenza.
Può apparire paradossale che
un mutamento di tale portata
venga anche solo accennato
da un presidente che appartiene
ad una famiglia con massicci
interessi in campo petrolifero,
ma la verità è che tale
mutamento è nei fatti e presto
potrebbe diventare davvero la
prossima “Nuova Frontiera”
dell’America. Dopo tutto,
molte trasformazioni sono state
fino ad oggi rallentate da
forti interessi costituiti, legati
al mantenimento dello status
quo, ma cosa potrebbe succedere
se gli Stati Uniti individuassero
– come stanno già
facendo – nell’affrancamento
dalla dipendenza dal petrolio
la loro principale priorità strategica?